Europa: la Serbia è meno Stato sovrano della Georgia?
di Francesco Maria Agnoli - 10/09/2008
Evidentemente gli aspetti e le conseguenze della guerra di agosto fra Russia e Georgia e il conseguente riconoscimento moscovita della secessione di Abkhazia e Ossezia del Sud sono molteplici e toccano questioni fondamentali della politica internazionale e della geopolitica (oltre tutto il Caucaso riveste, da questo punto di vista una particolare importanza). Tuttavia sia l’ambito specifico di interesse della rivista sia la mancanza di competenza in altri e più importanti campi di chi scrive limitano le presenti considerazioni alle posizioni prese dall’Europa, una volta tanto – si è detto e osannato – in maniera unitaria.
Sarà pure vero, ma, ammesso e non concesso che si sia trattato di vera unità (le iniziative polacche sembrano smentirlo), l’unità non è, al contrario di quanto sembrano credere i politici e i politologi italiani ed europei, di per sé un valore. Anzi può essere un danno. La valutazione, positiva o negativa che sia, presuppone che si accerti unità rispetto a cosa. Nella fattispecie si è trattato di un’unità finalizzata alla ripetizione di un copione analogo a quello già recitato, in senso inverso quanto all’oggetto, per il Kosovo: il fiancheggiamento della politica statunitense. In quel caso per legittimare, come voleva Washington, la determinazione dei kosovari e il conseguente distacco di quella provincia dalla Serbia; in questo di garantire, sempre in conformità ai voleri di Washington, l’integrità territoriale della Georgia contro la volontà di secessione degli abitanti dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia.
Caso mai una certa (timida) dissonanza è venuta proprio dall’Italia anche se poi il ministro degli esteri Frattini, nell’affermare che il riconoscimento russo della secessione si pone fuori dal quadro della legalità internazionale, ha ignorato il recentissimo precedente del Kosovo fortemente voluto dagli USA e avallato dall’Europa. Che si sappia la Serbia non è meno Stato sovrano della Georgia eppure nel suo caso il principio della sovranità territoriale è stato, come direbbe l’amministrazione ferroviaria, obliterato.
Si sostiene però che la Russia, oltre alle regole del diritto internazionale, non avrebbe rispettato gli impegni assunti con l’accettazione della proposta mediatrice avanzata, a nome dell’Europa, dal presidente francese Sarkozy. Tuttavia, come sempre accade quando si difende una causa sbagliata, si è costretti a trascurare una circostanza per nulla di dettaglio: la diversità di contenuto dei testi sottoscritti da Mosca e da Tiblisi. Quest’ultima, difatti, ha preteso di espungere dal documento sottoscritto la clausola che, sia pure in termini tutt’altro che precisi, adombrava una possibile internazionalizzazione dei problemi (che hanno comunque qualcosa a che spartire col principio dell’autodeterminazione dei popoli) posti dalle aspirazioni secessioniste di Ossezia e Abkhazia. Ora anche uno studente del primo anno di legge sa che la mancanza di assoluta uniformità dei testi sottoscritti dai contraenti priva di qualunque efficacia l’accordo finché le discrepanze non vengono eliminate.
In realtà l’intera vicenda è stata caratterizzata fin dall’inizio dal ricorso al sistema dei due pesi e delle due misure (collaudato, ma – per dirla col ministro Frattini - estraneo ad un quadro di legalità internazionale) da parte delle cancellerie e dei mass-media occidentali. Nella difficoltà (comunque i più ligi ci hanno provato) di attribuire alla Russia il ruolo di aggressore dopo che l’8 agosto i mass-media avevano dato grande rilievo ai bombardamenti dell’aviazione georgiana sulla città di Tskhinvali, capitale dell’Ossezia, e all’ingresso delle truppe di Tiblisi nel territorio della piccola regione secessionista., si è enfatizzata la presunta eccessività della reazione russa. A questa fine, non appena, deludendo le aspettative di chi aveva contato sopra una reazione solo diplomatica (quindi, sulla sostanziale accettazione del fatto compiuto), Mosca ha fatto intervenire aviazione ed esercito, si sono dedicate molte parole e molte immagini ai civili georgiani vittime delle operazioni militari, e degli abitanti di Poti e di Gori costretti a lasciare le loro case distrutte dalle bombe. Pochissimi si sono preoccupati di ricordare che i primi civili a morire sotto le bombe erano osseti (e poco importa se siano stati solo 200 o 400 e non 1.500, come pure si è detto) e ugualmente osseti i primi profughi (e qui la cifra di 20.000 rifugiati appare attendibile) da Tskhinvali e dal territorio circostante, che, avendo perso casa e beni e temendo il peggio dalle milizie del conterraneo di Stalin e pupillo di Washington, Saakhashvili, hanno cercato riparo nell’Ossezia del Nord.
Ogniqualvolta poi non si è potuto evitare di riconoscere che la prima a fare ricorso alle armi è stata la piccola, ma bellicosa Georgia, al contrario di quanto si era fatto per la Serbia ci si è aggrappati alla tesi della legittimità internazionale di un’azione militare tesa al recupero di una propria, anche se renitente, provincia. I più spregiudicati se la sono cavata parlando di un colpo di testa del giovane e imprudente Saakhashvili. Solo pochi commentatori hanno azzardato l’ipotesi, che ovviamente muterebbe tutto il quadro, incluso il riconoscimento russo dell’indipendenza osseta e abkhaza, di un previo via libera o addirittura di una sollecitazione da parte di Washington, nonostante fosse appunto questa l’unica ipotesi ragionevole, dal momento che senza la copertura americana solo un attacco collettivo di follia avrebbe potuto spingere il governo georgiano a sfidare il confinante gigante russo.
Di vittorie dei Davide contro i Golia non si ha più notizia dai tempi della Bibbia.
Di più, anche ammettendo la follia di Saakhashvili (alcuni suoi atteggiamenti potrebbero lasciare sospettare qualche perdita di lucidità ), è difficile pensare che i suoi ministri, il suo parlamento, i suoi generali, non abbiano richiamato (o, al limite, costretto) alla ragione un personaggio che ci è sempre stato presentato e raccomandato nelle vesti non di onnipotente dittatore, ma di rappresentante del suo popolo, da questo democraticamente eletto e come tale soggetto a tutti i limiti, al gioco di pesi e contrappesi propri della democrazia.
D’altronde la tesi del colpo di testa del protetto di Washington è in realtà la meno soddisfacente proprio per chi, come la cancelliera Merkel, vuole nella Nato una Georgia governata da un dittatore folle, le cui azioni scriteriate potrebbero coinvolgere in una guerra non desiderata tutti i paesi che ne fanno parte, tenuti dal Trattato dell’Alleanza Atlantica alla reciproca assistenza militare.
Una conferma indiretta dell’ipotesi più ragionevole (quella che esclude l’attacco di follia) è venuta dalle dichiarazioni di Condoleeza Rice alla riunione straordinaria della Nato Il Segretario di Stato americano, che credeva la situazione ormai in stand-by e certamente non si aspettava un immediato riconoscimento russo della secessione, vi ha, difatti, asserito che gli Stati Uniti avevano ottenuto esattamente (sottolineato) quanto volevano. In realtà l’unica cosa ottenuta in uno scontro già in quel momento perduto (sia pure per interposta persona) era, per l’appunto, il dato sulla volontà e capacità di reazione della Russia. A meno, naturalmente, di non accedere alla tesi del presidente Putin di una manovra elettorale di Bush a favore del candidato repubblicano alla presidenza, che, difatti, avrebbe avuto successo risollevando l’indice di gradimento di McCain nei confronti del rivale democratico Obama.
Quanto alle ragioni della presa di posizione dell’Europa, che dire, al di là della facile constatazione del costante appiattimento (ormai una sorta di riflesso pavloviano) della politica europea (tanto peggio se unitaria) su quella americana? Certamente possono avere influito ragioni storiche (a cominciare dalle due fallite campagne di Russia della vecchia Europa) ed economiche. I mai totalmente rimossi timori dei paesi europei nei confronti del gigante euro-asiatico, non di rado identificato nell’immaginario collettivo, come un orso minaccioso, e l’ovvia considerazione che all’acquirente (nel caso l’Europa) non conviene mai che il venditore (nel caso la Russia) abbia il controllo di tutti i canali di rifornimento di beni di primaria necessità (nel caso il gas naturale), Tuttavia la ragione principale sta, da oltre mezzo secolo in qua, nell’identificazione, non meno errata per il fatto di essere ormai pressoché universalmente accettata, dell’Europa con l’Occidente e nella conseguente convinzione che ciò che nuoce all’Occidente nuoccia all’Europa mentre poi, per una singolare contraddizione, è assai meno diffusa la convinzione (probabilmente addirittura minoritaria nell’Occidente d’oltre oceano e forse anche d’oltre Manica) che ciò che nuoce all’Europa nuoccia all’Occidente.
Non solo per la questione russo-georgiana, ma anche per questa, è ormai inderogabile che l’Europa si trovi unita per qualcosa di veramente utile, per aggiungere alle molte riflessioni sopra se stessa cui è da tempo chiamata, altre di primaria importanza finora trascurate. Si tratta di scoprire anzitutto se e fino a qual punto sia vera o anche, più semplicemente, utile la sua identificazione con l’Occidente e, di conseguenza, se sia più conforme all’interesse europeo un mondo unipolare a senso unico (quello americano) o un mondo multipolare . Se fosse vera questa seconda ipotesi avrebbe ragione Alain de Benoist nel sostenere che la Russia è oggi fautrice di un principio “che l’Europa non ha la volontà né il coraggio di difendere da sola”.
Strettamente connesso l’ulteriore tema di riflessione se la Russia appartenga all’Europa, oppure all’Asia e quale di queste appartenenze convenga agevolare e promuovere. Ovviamente senza dimenticare che quella europea era considerata un dato acquisito almeno a partire dalla metà del XVIII secolo e per tutto il XIX.

