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La vittoria di Hamas e lo "sconcerto" occidentale

di Massimo Tessitore - 06/02/2006

Fonte: Umanità Nuova

 


Ma come, ora che per la prima volta nel mondo arabo, di cui alcuni vociferano addirittura la refrattarietà congenita ai metodi democratici, si sono tenute libere elezioni parlamentari, con buona partecipazione, appassionata e ordinata al contempo, senza brogli accertati (insomma, nella media di quelle nostrane), esempio per la regione molto più che le recenti elezioni irachene (per non parlare di quelle egiziane truccate all'inverosimile), ebbene gli esiti non piacciono ai padroni del pianeta, che ben volentieri le farebbero rifare sin quando i risultati non soddisfino i loro auspici!

La vittoria di Hamas scompiglia molte carte nel tavolo mediorientale, ma non si può dire sia giunta inattesa o improvvisa. I livelli di corruzione dell'Olp e dell'AP erano noti persino agli sparuti ulivi del mar Rosso: 70 mln $ al mese di deficit, 900 mln $ accumulati, aumenti indiscriminati concessi ai propri clientes alla vigilia elettorale (metodo Cuffaro, a quanto pare...), prosciugate le casse degli aiuti internazionali (soprattutto l'1.9 mln $ del governo di Washington per la campagna elettorale del cavallo perdente, mentre l'UE interrompeva la sua tranche di fine anno e la Lega araba ben si guardava dal versare i promessi 300 mln $ annui, una goccia nel pozzo infinito della corruzione di Fatah).

In compenso, Hamas beneficia delle charities musulmane e con esse finanzia guerriglia e welfare, misero quanto si vuole, ma sempre qualcosa in fatto di servizi sociali: sanità, istruzione, aiuti ai profughi, alle vittime, sostegno ai palestinesi rinchiusi da decenni nei campi libanesi e altrove. 

Certo, in cambio di una moderata islamizzazione dei costumi sociali che confina le donne a un ruolo importante ma invisibile a livello pubblico, e soprattutto ignorando i loro desideri singolari. I livelli di povertà nella striscia di Gaza rasentano quelli del profondo sudest asiatico, e se la chiesa locale porta sollievo alla povertà, la laicità di una popolazione come storicamente è stata quella palestinese è in serio pericolo.

Poi c'è la politica; è stato Israele a sostenere durante la prima Intifada Hamas per contrastare Arafat, così come è stato Israele a decapitare il vertice (moderato) di Hamas - lo sceicco Yassin e il leader Rantisi – con quella pratica criminale e illegale degli omicidi mirati e selettivi, regalando martiri, modelli e leader imperituri ad una formazione che di estremista ha solo una retorica, ma non la pratica armata, diffusa dappertutto in quell'area (e capirai! sono territori e popoli occupati dal 1967, e alcuni addirittura fanno risalire alla guerra del 1948 coeva alla nascita per risoluzione Onu di Israele), e nemmeno la pratica politica, che contempla trattative con il nemico Israele sottobanco o a livelli municipali, cosa già in atto. Certo, Hamas è speculare a quegli estremisti sionisti per i quali la striscia di terra tra Giordano e Mediterraneo, detta per tutti Palestina, va esclusivamente agli uni o agli altri, ma non ad entrambi (cosa più facile a dirsi che non a farsi, dopo decenni di guerra a varia intensità, tuttavia "uno stato per due popoli", come auspicavano due intellettuali come Edward Said, palestinese critico di Arafat, e Noam Chomksy, intellettuale ebreo critico delle politiche statunitensi e israeliane, era il primo cavallo di battaglia dell'Olp e di una certa sinistra laica ebraica). Ma per Hamas, già oggi una patria entro i confini del 1967 costituirebbe una tregua di lungo periodo (hudna) su cui stabilizzare, pur se ambiguamente in modo non definitivo, le relazioni reciproche tra futuro stato palestinese con capitale Gerusalemme est e stato israeliano, di cui non si chiede la cancellazione, bensì la cessazione di status di potenza occupante.

La vittoria elettorale ha ripercussioni tanto sugli equilibri interni palestinesi, quanto su quelli israeliani, sebbene a breve termine non apporterà modifiche sostanziali per la qualità (e la quantità, verrebbe da dire) della vita delle genti in quell'area del pianeta. La tipica ipocrisia della politica viene spazzata via: Hamas rigetta gli Accordi di Oslo morti e sepolti prima di nascere, e figuriamoci ora, ma non è detto che non negozi direttamente qualcos'altro di diverso dalla Road Map, questa volta morta e sepolta da Sharon, dal suo Muro, dal ritiro unilaterale da Gaza (non contemplato dal percorso del quartetto Usa-Ue-Russia-Onu), dalla colonizzazione a tappe avanzate della West Bank. 

Beninteso, Oslo faceva nascere l'AP rappresentata adesso da un Mahmud Abbas dimezzato e costretto alla coabitazione con un governo islamico, e Israele potrebbe denunciare la fine di quegli accordi detti ad interim e rioccupare tutto daccapo. Ma la soluzione esclusivamente militare va contro la diplomazia planetaria, va contro le tendenze demografiche, va contro la strategia di Sharon (muro + colonie + maxighetto di controllo palestinese a Gaza). Quindi, meglio stillicidio quotidiano che una guerra contro Hamas. Poi, a marzo le elezioni in Israele potrebbero riportare al governo Netanyahu, la cui miopia politica è pari allo zelo militarista di uno dei pochi non-militari arrivati al potere in terra di Sion.

Piuttosto, la vittoria di Hamas potrebbe indurre il suo braccio armato a cercare la riunificazione sul piano militare di tutta l'opposizione all'occupazione israeliana, come fece Fatah inventando l'Olp, ma questa volta su un piano programmatico islamico e non laico. Yassin e Rantisi erano attenti a non lasciarsi infiltrare dal jihad globale della holding Al Qa'ida, separando i brand mediatici e politici; ma questa scelta condivisa da ogni palestinese, avvertito che gli arabi sono da sempre stati i primi a tradire la loro causa nazionale, potrebbe oggi rigiocarsi soffiando il fuoco tra integralisti coerenti dappertutto – il jihad planetario di bin Laden, al Zawahiri e al Zarkawi, a prescindere se siano o meno vivi e vegeti – e musulmani governativi proni a prendere il potere, magari senza condominio con la leadership corrotta dell'Olp, magari in sintonia con il vero leader laico Marwan Barghouti che Israele sta santificando anzitempo seppellendolo di ergastoli come il regime sudafricano dell'apartheid fece con Mandela.

La diplomazia del mondo sta a guardare richiedendo dichiarazioni inconcludenti o impossibili – il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la definizione di confini sicuri e stabili, la cancellazione dalla lista delle organizzazioni terroriste – mentre gli Usa già trattano gli assetti mediorientali con Tehran tramite l'ambasciatore in Iraq di origine afgane Khaliladziz. La capitale dello sciismo, da un lato alza il tiro della collaborazione segreta con Washington richiedendo un prezzo di scambio in termini nucleari, dall'altra anela a chiudere il cerchio con la Siria e la Palestina per contrastare la leadership religiosa sunnita di cui Al Qa'ida è una pedina impazzita ma fedele alla dottrina da sempre ostile agli eredi di Khomeyni. Da qui la partita che esorbita i confini lacerati della Palestina, che va al di là del governo Hamas, che mette in contrasto Tel Aviv e Washington (se la seconda tratta, la prima potrebbe decidere di scavalcare il padrone e attaccare direttamente le postazioni nucleari iraniane), e la cui posta in palio è l'allargamento del fossato tra sunniti e sciiti a livello globale.

Una bella guerra civile palestinese, tra Hamas e l'Olp, tra fazioni l'un contro l'altre armate (modello libanese), intestina ad Hamas stessa infiltrata da jihadisti globali, è quanto farebbe comodo per vessare ulteriormente speranze di vita nell'area. Cosa c'entri tutto ciò con il tripudio delle élite nostrane sul trionfo della democrazia in Iraq e in Palestina è un mistero, visto come si razzola un attimo dopo l'esercizio della sovranità popolare. L'esportazione della democrazia è un alibi per le politiche di potenza, imperiali o globali che siano, giacché il rito del voto senza certezza di relazioni sociali giuste, eque, pacifiche diviene un vuoto scenario dentro cui si può continuare a recitare il triste spettacolo del brutale dominio dell'uomo sull'uomo.