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Palestina: un calendario fermo al 20 agosto 1993

di Eugenio Roscini Vitali - 02/10/2008

 
 

In un articolo pubblicato recentemente sul quotidiano Haaretz, il giornalista e scrittore israeliano Akiva Eldar parla del suo incontro con il docente di filosofia e rettore dell’Università Al-Quds di Gerusalemme, Sari Nusseibeh. Nell’intervista il professore palestinese commenta l’attuale situazione politica e spiega che gli Accordi sottoscritti ad Oslo non hanno più alcun significato. Nusseibeh imputa il fallimento ai fatti accaduti in questi quindici anni, alla profonda frattura ideologica che ha travolto il popolo palestinese e alla spinta del fronte sionista che di fatto ha bloccato l’applicazione della Dichiarazione di Principi firmata il 20 agosto 1993 da Yasser Arafat e Shimon Peres. Quindici anni di trattative che si possono riassume con alcune semplici richieste israeliane: annessione del sette percento della Cisgiordania in cambio di un’area del Negev che corrisponde a poco più del cinque percento del territorio acquisito; rifiuto di trattare sulla questione dei rifugiati e del loro diritto al ritorno; rinvio di qualsiasi accordo sullo status di Gerusalemme; implementazione del processo di pace a condizione che Hamas, il movimento islamico che ha vinto le elezioni politiche del 25 gennaio 2006 ed ha ottenendo la maggioranza del Consiglio Legislativo Palestinese con 76 seggi su un totale di 132, perda il controllo della Striscia di Gaza.

L’idea della spartizione della Palestina risale al periodo del Mandato britannico (1920-1948) ed è una variante del concetto di cantonizzazione che era scaturito dal modello binazionale proposto alcuni anni prima dai leader sionisti. Fu la Commissione Peel a prospettare la soluzione del doppio stato, destinando agli ebrei una porzione inferiore al 20 per cento del territorio (la Galilea e parte delle zone costiere centro settentrionali), lasciando alle autorità mandatarie il controllo di Gerusalemme e Betlemme ed assegnando agli arabi di Palestina il restante 75 percento. Istituita dal governo britannico nel novembre 1936 ed inviata in Palestina per indagare circa le ragioni della Rivolta araba (1936-1939), la Commissione ammise che la politica fino ad allora perpetrata nel vicino Medio Oriente non era stata altro che un tragico fallimento. La proposta non cambiò comunque le cose: bocciata dai palestinesi perché oltre 300 mila arabi che vivevano nei territori destinati agli ebrei avrebbero subito un trasferimento forzato, rifiutata dagli ebrei che ritenevano quel 20 percento una enorme ingiustizia, respinta dal governo britannico che alcuni anni dopo rinnego l’idea stessa di spartizione.

Accantonato definitivamente dopo i tragici fatti della Guerra arabo-israeliana del 1948, il progetto del doppio stato tornerà in auge il 20 agosto 1993. In una lettera inviata il 9 settembre al premier Yitzhak Rabin, Yasser Arafat afferma che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) riconosce “il diritto dello Stato d'Israele all'esistenza pacifica e sicura". In realtà le trattative hanno avuto inizio nel maggio precedente ma il processo di pace prende il via ufficialmente con la Dichiarazione di Principi concordata ad Oslo il 20 agosto 1993. Il documento viene firmano a Washington il 13 settembre: in linea di principio Yasser Arafat e Shimon Peres sottoscrivono la fine del conflitto e riconoscono i mutui diritti politici e una pace giusta e duratura; in pratica viene stabilita la creazione dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), il ritiro delle forze israeliane da alcune zone della Striscia di Gaza e della Cisgiordania e il diritto palestinese all'autogoverno, nonché un programma di sviluppo regionale e un progetto di cooperazione economica nel campo dei sevizi, del commercio, dell’assistenza sociale e dell’industria.

La Dichiarazione, che non tocca argomenti quali lo status di Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati, gli insediamenti israeliani nei territori occupati e i confini del futuro Stato palestinese, prevede che entro cinque anni venga negoziata e finalizzata un’intesa permanente. Attraverso gli Accordi di Oslo, la comunità internazionale tenta così di realizzare quanto sancito dalle Risoluzioni 242 e 338 dell'Onu; in pratica tutto si riduce ad un completo fallimento. La Dichiarazione viene vista con sospetto sia dalla destra sionista che dagli integralisti islamici: la continua crescita degli insediamenti costruiti ad est di Gerusalemme, l’azione militare all’interno dei territori e la povertà che strangola giorno dopo giorno la popolazione palestinese causano frustrazione e rabbia, una rabbia che il 28 settembre del 2000 sfocia nell'Intifada al-Aqsa. Anche se le ragioni della protesta sono riconducibili alla visita di Ariel Sharon al Monte del Tempio, un episodio ritenuto provocatorio dai palestinesi, in realtà nasce per gli stessi motivi per i quali era nata Prima Intifada (1987 - 1993). Come tredici anni prima l’accusa non è rivolta solo allo Stato di Israele e la sua violenta politica di colonizzazione, ma investe anche la stessa dirigenza dell’OLP che la piazza ritiene ormai in mano agli israeliani.

Pur rimanendo favorevole alla soluzione del doppio stato, Nusseibeh è convinto che il progetto abbracciato più di quindici anni si è ormai esaurito, arenato di fronte al problema di Gerusalemme est e al riconoscimento del diritto al ritorno. E’ quindi urgente cercare un’alternativa credibile, una soluzione che riprenda in considerazione l’idea monostatuale. Pensare ora ad un cambiamento di strategia significa però accettarne le conseguenze: dal punto di vista politico un ritardo nei tempi di realizzazione del piano; dal punto di vista umanitario un prolungamento delle sofferenze. Una terra per due popoli implica poi una pace immediata e per questo il docente di filosofia ipotizza la nascita di un movimento palestinese non violento che attraverso un dibattito interno sviluppi l’idea monostatuale, un movimento simile a quello che in Sud Africa si oppose all’apartheid e riuscì ad abbattere un muro che molti credevano invalicabile.

Nella sua analisi, Nusseibeh ammette che per anni i palestinesi hanno creduto di poter essere un modello da imitare, un esempio per tutto il mondo arabo. L’impossibilità di raggiungere un accordo dignitoso, che permettesse la nascita di uno stato arabo in Palestina, e la crisi che ha trascinato Gaza sull’orlo della guerra civile hanno invece minato l’unità di un popolo già privato di ogni diritto. Fatah, unica alternativa politica in grado di mantenere in piedi un processo di pace fragile ed incerto, si è così trovato a fare i conti con il fallimento di un progetto che in qualche modo gli è stato imposto: il modello bistatuale. Oggi, cosciente del fatto che il processo di pace è fermo al 20 agosto 1993, il partito laico fondato nel 1959 da Yasser Arafat è costretto a rispolverare una vecchia idea, una proposta vecchia quanto nuova, difficile ma non impossibile, quella di un solo stato per due popoli.