“Scontro di civiltà” e neoconservatorismo
di Catholicus Fidelis - 07/10/2008
Fonte: terrasantalibera

A seguito degli eventi internazionali di questo inizio di millennio, si è imposta all’attenzione dell’ opinione pubblica una corrente di pensiero, il cosiddetto “neoconservatorismo”, i cui intellettuali di punta sono i diretti e indiretti elaboratori delle strategie politiche ed economiche degli U.S.A.
Tuttavia, a dispetto del nome che tale cerchia intellettuale si è dato, si tratta di una scuola di pensiero portatrice di una ideologia “ateo-messianica” e di un programma politico di tipo “rivoluzionario-conservatore” che tenta oggi, ingannandoli, molti, troppi cattolici.
L’insorgere del terrorismo islamico-fondamendalista ha causato in ambito cattolico tradizionalista, o comunque conservatore (i due ambiti non coincidono perfettamente) una levata di scudi in difesa di un “Occidente” confuso con la perduta Cristianità, o con ciò che di essa rimarrebbe e sarebbe pertanto degno di difesa ad ogni costo nella prospettiva di Samuel Hungtington dell’ imminente “scontro di civiltà”.
Quel che non è stato compreso da parte di questi settori del Cattolicesimo tradizionalista o conservatore è l’infondatezza della tesi hungtingtiana, secondo la quale, tra le diverse civiltà che si confrontano attualmente sullo scenario mondiale, quella “euro-americana” costituirebbe un “unicum” ossia la “civiltà occidentale”. In realtà, se di scontro si deve parlare, siamo invece, come vedremo, di fronte ad uno scontro del tutto interno al cosiddetto “mondo occidentale”. Si tratta dello scontro tra “la religione del Dio che si è fatto Uomo e la religione dell’uomo che pretende di farsi dio”. Infatti, da un punto di vista coerentemente cattolico, lo scorrere dei secoli, che dalla Cristianità medioevale ci hanno portato, attraverso l’intermezzo dell’ Europa Cristiana cinque-seicentesca, all’Occidente globale di oggi, non può essere letto sorvolando sulla grande frattura protestante, che è la vera radice dell’ Occidente americanocentrico.
LA FRATTURA PROTESTANTE E L’APOSTASIA DELL’ OCCIDENTE
Tra il XVI ed il XVII secolo lo sviluppo storico dell’Europa cattolica mostrava tutti i segni di quella che sarebbe potuta essere una differente modernità senza cesure spirituali e storiche con la Cristianità medioevale. Una concreta possibilità storica rimasta poi inattuata soprattutto a causa della frattura protestante. Infatti, in quei secoli lo scenario dell’epoca era incentrato politicamente sull’egemonia della Spagna (dalla quale sarebbe potuta nascere una “universalizzazione” di segno cattolico ben diversa da quella anglo-protestante attuale), culturalmente sulla seconda scolastica della scuola teologico-giuridica di Salamanca (alla quale si deve la definitiva chiarificazione della dottrina cattolica sulla naturalità della comunità politica e sul diritto internazionale euro-cristiano, elaborato da Vitoria, Suàrez e Bellarmino), religiosamente sulla Riforma Cattolica del Concilio Tridentino. È sempre necessario tenere ben presente la svolta storica intervenuta nel XVI secolo per poter capire che non vi è affatto continuità tra Cristianità ed Occidente perché, in quel cruciale albeggiare della modernità, l’Europa ha purtroppo scelto di voltare le spalle alla Chiesa cattolica e di ripudiarsi come Cristianità, impedendo perciò il nascere di una diversa modernità e trasformando se stessa nell’attuale Occidente apostata, inevitabilmente destinato all’implosione nichilista.
Nel periodo compreso tra il 1550 ed il 1640 esistevano ancora una Cristianità ed una comunità culturale euro-cristiana. Ma sia l’una che l’altra furono travolte dalla Riforma protestante, dal comparire delle “Chiese” nazionali come effetto del chiudersi degli Stati assoluti all’Autorità spirituale della Chiesa, dal dilagare, sull’onda della teologia luterana e della filosofia cartesiana, del soggettivismo e dell’ individualismo. L’epocale snodo, segnato dall’ età che va dalla metà del XVI secolo alla metà del XVII secolo, scompigliò l’identità cristiano-cattolica dell’ Europa proprio nel momento in cui il vecchio continente aveva iniziato, nel precedente cinquantennio, la sua espansione planetaria.
Al contrario, la concezione massonica e liberale, spesso barattata in ambito cattolico-liberale per “umanesimo cristiano” (ossia quella del crociano “perché non possiamo non dirci cristiani”) ed attualmente ripresa, in funzione filo-occidentale per giustificare lo “scontro di civiltà”, anche dai cosiddetti “atei cristiani”, come Giuliano Ferrara o la scomparsa Oriana Fallaci, non vede nella storia europea soluzioni di continuità e concepisce l’occidente americanocentrico (ossia ciò che oggi si definisce “globalizzazione”) come filiazione legittima della Cristianità premoderna. In realtà, questa filiazione è un puro mito ideologico perché lungo il processo storico, che ha portato al tramonto dell’antica Cristianità ed al parallelo sorgere dell’egemonia occidentalista, vi è stata, per l’appunto, la profonda frattura della Riforma protestante.
L’EREDITÀ DI MARX
La pretesa ultima ed essenziale dell’occidentalismo è quella, di indubbio sapore “anticristico”, della realizzazione mondana della promessa cristiana di Redenzione e Liberazione dell’umanità. Non è stato soltanto il marxismo a trasporre la Promessa del Regno dall’aldilà all’ aldiquà. Questa indebita trasposizione è l’essenza anche del liberismo, essenza che si va manifestando con maggiore evidenza proprio oggi che, in nome della globalizzazione, viene mendacemente promesso all’ umanità un avvenire di pacificazione e di benessere planetari.
Da Lutero in poi si è avviato un processo di “de-ellenizzazione” del Cristianesimo, che ha costituito la rovinosa svolta della storia europea ed occidentale. La rottura protestante con la teologia cattolica ha prodotto la contraffazione liberale del diritto naturale, che è stato pervertito nella concezione del presunto fondamento contrattualista (che è come dire soggettivista ed utilitarista) del diritto e delle forme politiche e sociali. Ma proprio in questo inizio di nuovo millennio, nel momento in cui l’occidente americanomorfo va conoscendo il suo momento di trionfo, la filosofia umanitaria dell’Occidente sta sprofondando nel nichilismo globale.
Un esempio tipico della discontinuità tra la perduta Cristianità europea e l’occidente odierno ci è dato proprio dalla dottrina Wolfowitz/ Rumsfeld/ Rice della guerra preventiva, nella quale molti cattolici credono di poter scorgere l’ aggiornamento della dottrina patristica sulla “guerra giusta”. Al contrario, la tradizionale dottrina cattolica del “bellum iustum”, della guerra giusta, che si richiama immediatamente allo “ius” e quindi al diritto e solo successivamente, come istanza ultima, rimanda anche alla giustizia in senso etico, presuppone alcune condizioni, quali quelle dell’«extrema ratio», del “male minore” e dell’Autorità internazionalmente riconosciuta che la sancisca e la delimiti per negare a ciascuno degli Stati contendenti la possibilità di proclamarsi giudice “in causa sua”. Queste condizioni sono del tutto mancanti nella dottrina della guerra preventiva: il documento “The National Security Strategy of United States of America” ha proclamato il diritto storico dell’ America ad usare preventivamente la sua superiorità militare senza alcun limite legale e contro qualunque Stato od organizzazione che ne minacci gli interessi e la supremazia mondiale. La dottrina cattolica della guerra giusta prevede, sì, la possibilità di fare guerra in difesa dei diritti di altri, ma, al di là di questo caso particolare, essa concepisce la guerra per lo più come legittima difesa da un’ingiusta aggressione. La dottrina neoconservatrice della guerra preventiva, invece, afferma semplicemente il diritto del più forte a discapito della forza del diritto.
La dottrina neoconservatrice sulla guerra preventiva ed unilaterale manifesta una carica eversiva radicale analoga a quella della dottrina internazionalistica sovietica la quale dichiarava l’Unione Sovietica, in quanto rappresentante di tutti i lavoratori del mondo, unico Stato legittimo al cospetto di tutti gli altri di per sé illegittimi perché “Stati borghesi”. Questa analogia si spiega con il fatto che, come si diceva, quella neoconservatrice è un’ ideologia rivoluzionaria piuttosto che “conservatrice” nel senso classico della parola. In effetti l’etichetta “conservative” si addice molto poco a quella che è piuttosto una nuova destra agile, spregiudicata, proiettata in avanti, “nostalgica del futuro” e che deve alla sua eredità di “sinistra” la sua voglia di cambiare il mondo, anziché di star a contemplarlo. I neoconservatori non sono certo comunisti, ma sono sicuramente intellettuali formati su Marx. Essi traggono la propria origine dal circolo dei “New York Intellectuals”, un gruppo fondato negli anni ‘30 dal teorico trotskysta Marx Schachtman. La svolta dal comunismo al liberismo è avvenuta nel momento in cui essi hanno iniziato a denunciare l’antisemitismo in auge negli anni ’50 in Unione Sovietica. Tutte le figure chiave della scuola “neocon” vengono dalla sinistra radicale. Delusi dalla sinistra, sin dagli anni ’50 la loro principale preoccupazione è diventata lo sviluppo e la difesa di Israele (anche quando ciò significhi governare contro gli stessi interessi statunitensi o mettere in pericolo l’intera pace mondiale).
Il retaggio di Marx nei “neocon” è palese. È la filosofia di Marx a sostenere che il mondo non bisogna interpretarlo, ma cambiarlo mediante – aggiungeva Trotsky – la “rivoluzione permanente”. Puro e blasfemo prometeismo: è l’uomo, non Dio, a creare il mondo e a fare la storia. I neoconservatori americani sono, dunque, dei “liberal che si sono scontrati con la realtà”, ossia intellettuali passati dall’utopia democratico-pacifista al cinismo decisionista-bellicista, e nella loro aspirazione a cambiare il mondo mediante l’esportazione universale del presunto “migliore dei sistemi possibili”, ossia la democrazia elitaria americana, si rinviene non solo un delirio giacobino, come ha osservato Sergio Romano (un conservatore intelligente e non “neo”), ma anche una profonda assonanza filosofica con il vecchio sistema di Marx che attribuiva appunto alla filosofia il compito di trasformare il mondo rinunziando alle domande fondamentali sull’essere e sull’esistenza.
I neoconservatori americani, in questo affini ai “libertarians” o “anarcoliberisti”, mutuano dalla filosofia di Marx anche l’avversione assoluta verso lo Stato, ma non verso, come si dirà, il liberismo autoritario. Lo Stato, infatti, è da essi inteso, come “sovrastruttura egemonica” e viene condannato perché con il suo limite territoriale è di ostacolo ad un ordine economico transnazionale che consegni l’umanità, sotto l’egemonia americana, non ad una giusta ed equilibrata modernizzazione, che apporti condizioni di vita dignitosa in un onesto ma modesto benessere, ma bensì al sogno prometeico e millenarista della “fine della storia” e della “pacifica prosperità globale”. Questo sogno, che fu già proprio dell’ internazionalismo marxista, è ricomparso oggi nella forma dell’ utopia liberista del mercato mondiale e costituisce, per coloro che hanno orecchi per intendere e occhi per vedere, la nuova versione dell’antica luciferina promessa di auto-divinizzazione dell’ umanità (Eritis sicut Dei, Gen.3,4). L’ideologia neoconservatrice è l’ anima del capitalismo iperconcorrenziale e globale, oggi egemone, che abbaglia l’uomo con i luccichii delle sue vetrine sfavillanti facendogli dimenticare le realtà eterne ed il suo destino finale di salvezza o dannazione.
L’antistatalismo neoconservatore, però, non è una mera negazione anarchica del potere politico in genere. I “neocon”, infatti, si oppongono soprattutto a quella forma moderna dello Stato, ossia lo Stato sociale, che storicamente, perlomeno in Europa ed anche per influsso del magistero sociale cattolico, è riuscito ad arginare, ridistribuendo almeno in parte tra le diverse classi la ricchezza prodotta, la conflittualità sociale innescata dal moderno processo di industrializzazione ossia dalla decristianizzazione degli antichi modi cristiani, comunitari e corporativisti di vita e lavoro, ispirati dal principio di solidarietà e dalla cura del bene comune, ignorati dal liberalismo.
Sull’onda della destrutturazione dello Stato nazionale e sociale promossa dal pensiero neoconservatore, è emersa un’economia “nichilista”, che si esprime nella distruzione del lavoro stabile e nel dominio globale della finanza anonima e speculatrice, cresciuta a sua volta sulla moneta creata ex nihilo dalle banche centrali, in un impeto simulatorio della Potenza di Dio.
L’USO STRUMENTALE DI RELIGIONE E TRADIZIONE
Tipico dell’ideologia neoconservatrice è l’uso strumentale dei “valori religiosi” e delle “radici identitarie”. Valori e radici sono usati dal neoconservatorismo per accendere il fuoco planetario dello “scontro di civiltà”.
I maggiori esponenti della scuola neoconservatrice, come si è detto, provengono dalla sinistra americana. Essi hanno abbandonato le utopie umanitarie e pacifiste e riscoperto il pensiero conservatore statunitense, aggiornandone i contenuti con gli apporti dell’antropologia negativa e del decisionismo mutuati dal pensiero di Carl Schmitt nella sua fase post-cattolica, nella quale il grande vecchio della scienza giuridica europea del XX secolo costeggiò, da “epimeteo cristiano” (come ebbe a riconoscere egli stesso nel dopoguerra) il movimento ed il regime nazista. Ad una “sinistra liberal”, proiettata verso la dissoluzione libertaria, i “neocon” oppongono la necessità di una rifondazione conservatrice della società che ne riattualizzi le radici tradizionali. Ora, se nel Cattolicesimo tradizione significa coniugare etica e socialità in un complesso nel quale tout se tient, dalla famiglia naturale alla carità, dalla sacralità del matrimonio alla giustizia sociale, dalla dignità umana (sin dal concepimento) all’amore verso i poveri, nel mondo statunitense “tradizione” è il più rigido puritanesimo (l’arcaico, veterotestamentario “occhio per occhio, dente per dente”, l’ascetismo professionale intramondano, il successo sociale segno di elezione, la povertà segno di dannazione ecc.).
I “neocon” partono da un’analisi in parte giusta della crisi del mondo moderno. Questa analisi prende le mosse dall’evidente fallimento storico del progressismo e dell’utopia del mondo nuovo che, fino a qualche decennio fa, sono stati il credo gnostico, in versione progressista, della modernità. Tuttavia il punto di debolezza e di contraddittorietà del pensiero “neocon” sta nel sottacere il nesso tra il liberalismo e la crisi nichilista nella quale va annaspando l’Occidente. Secondo Peter Steinfels, i “neocon” “sono indiscutibilmente dei liberali”. A dire il vero, essi del liberalismo sono i becchini perché il loro pensiero rappresenta l’inevitabile esito nichilista del liberalismo.
In un’epoca come quella attuale, nella quale la liberal-democrazia è un idolo da esportare in tutto il mondo e nella quale persino i dittatori si definiscono democratici, è evidente come i “neocon” non possano apertamente presentarsi come illiberali o antiliberali. Essi, perciò, fanno proprio del liberalismo il filone “conservatore”, del quale portano a compimento tutte le potenzialità nichiliste ancora inespresse. La qualifica di “neo” sta semplicemente ad indicare lo sforzo di rielaborare in chiave post-moderna il liberalismo conservatore, le cui radici affondano nel pensiero religioso e filosofico anglosassone del Seicento e del Settecento.
Come ha notato Shelton Wolin, il liberalismo conservatore americano nasce e si sviluppa dalle idee di John Locke. La dottrina lockiana è un conservatorismo sociale che sposa il liberalismo politico coniugando i valori tradizionali con l’ individualismo mercantile. Da questa unione di tradizionalismo ed individualismo nasce un liberalismo di tipo conservatore. Il catalizzatore di questa unione è stato il protestantesimo, in particolare nella sua forma puritana.
Il pensiero “neocon”, pur essendo critico verso gli esiti nichilisti dell’Occidente, punta a conciliare l’etica tradizionale, che negli Stati Uniti non è quella cattolica ma quella del rigorismo puritano, con il liberismo mercantile senza avvedersi dello stretto nesso esistente tra il liberismo ed il soggettivismo teologico, filosofico ed etico che, da Lutero e Cartesio in poi, avvelena la cultura occidentale. Il liberismo, che, in quanto individualismo economico, si rivela un soggettivismo sociale, nasce sul presupposto del soggettivismo teologico protestante, sicché la cecità dei neoconservatori sul rapporto causa-effetto tra l’uno e l’altro denota l’essenziale aporia di tale scuola di pensiero. I “neocon”, infatti, deplorano la deriva nichilista della società occidentale nel momento stesso in cui proclamano di voler restaurare il mercato nella sua purezza liberale, mondandolo da tutti i limiti ed i condizionamenti ad esso imposti dallo Stato per necessità politiche e/o sociali. Questa loro pretesa, per la quale l’anti-nichilismo coincide con la restaurata “purezza” del mercato, costituendone anzi quasi una premessa, fa un uso puramente strumentale della tradizione religiosa e nazionale, perché, in realtà, essi non credono a nessun soprannaturale.
Questo connubio tra “Dio e Mercato”, sicché il primo diventa un idolo teologico a giustificazione del secondo, se è naturale in ambito puritano, è tuttavia impossibile, senza dissacrare la Tradizione, in ambito cattolico. I “neocon”, da un lato, sulla scia del conservatorismo classico condannano l’economicismo di Marx, che fa dei “valori tradizionali” una funzione dell’economia, ma, dall’altro lato, restringono il nichilismo ad un fenomeno attinente soltanto alla sfera etica e non lo riconoscono come manifestazione ultima del soggettivismo, teologico e filosofico, che è l’essenza anche del liberismo. I “neocon” ritengono che la “civiltà occidentale”, da essi assimilata sic et simpliciter agli Stati Uniti d’America, sia oggi minacciata dal nichilismo etico, ma negano che la radice prima di questo nichilismo sia da cercare nel soggettivismo teologico protestante, che è l’essenza della religione americana. I “neocon” non si rendono conto che al relativismo etico sul piano morale, corrisponde il relativismo sociale sul piano sociologico. Non è stato infatti un caso se il relativismo sociale è esploso nella forma della precarizzazione del lavoro proprio quando il liberismo, dopo la caduta del comunismo, ha trionfato. Alla flessibilità delle scelte morali che dissolve tutti i legami familiari, rendendoli assolutamente revocabili e temporanei, corrisponde simmetricamente, nella società occidentale liberale, la flessibilità delle opzioni sociali che dissolve ogni legame comunitario rendendo tutti i rapporti umani, anche quelli politici di cittadinanza e quelli produttivi di lavoro, meri rapporti a tempo determinato. E se è vero che il relativismo etico ha preceduto quello sociale ciò significa soltanto che il primo, frutto della contestazione sessantottina, ha aperto la strada al secondo. Augusto Del Noce, il più noto filosofo cattolico italiano del XX secolo, che fu definito a ragione l’«anti-Bobbio», quando criticava il permissivismo morale della società neoborghese postsessantotto vedendo sorgere da essa il “totalitarismo della dissoluzione”, di cui paventava una capacità di dominio maggiore degli antecedenti hitleriani e staliniani, intendeva riferirsi appunto all’ ideologia liberista oggi fatta propria dai neoconservatori. Augusto Del Noce non era affatto un cattolico liberale; non ha, infatti, esitato ad individuare nel liberismo l’essenza stessa della fase profana della secolarizzazione, ossia della post-modernità. Il filosofo torinese non aveva dubbi sul fatto che il relativismo etico ed il relativismo sociale sono due contestuali e parallele manifestazioni del nichilismo anticristiano, che è la vera malattia dell’Occidente liberale.
IL PADRE “ESOTERICO” DEL NEOCONSERVATORISMO E LE SUE ANTICIPAZIONI IN LUTERO
“L’inganno perpetuo dei cittadini da parte dei dirigenti al potere è indispensabile giacché i primi hanno bisogno di essere diretti e hanno bisogno di autorità forti che indichino loro ciò che è meglio per essi… sono adatti alla direzione coloro che si sono resi conto che non esiste moralità e che non esiste che un solo diritto naturale, quello del superiore a guidare l’inferiore… Si vuole una popolazione malleabile che si possa modellare come del mastice”1. Così il pensiero di Leo Strauss (1899-1973), il filosofo ebreo-tedesco-americano, padre “spirituale” dei neoconservatori americani, è stato sintetizzato dalla migliore competente in materia, Shadia B. Drury, docente all’Università di Calgary, in Canada, ed autrice di notevoli studi sull’argomento.
Noto ai soli addetti ai lavori, per via della sua vita passata “dietro le quinte” a preparare filosofici allievi dell’avvenire sicuro in posti di preminenza politica, economica ed universitaria, Leo Strauss ha acquistato una certa notorietà anche presso un più vasto pubblico a seguito dell’emergere della “setta” neoconservatrice, i cui principali esponenti, quasi tutti di origine ebraica, sono stati suoi allievi, anche oltre gli anni universitari. Nato in Germania, Leo Strauss visse il clima incandescente della Repubblica di Weimar e fu costretto a lasciare il paese natale all’avvento del nazismo, per rifugiarsi negli Stati Uniti d’America. Nel periodo weimeriano era stato allievo di due tra i principali esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca: Carl Schmitt e Martin Heidegger. Immerso nella stessa temperie spirituale e politica dalla quale Carl Schmitt trasse ispirazione per la teorizzazione del decisionismo e della essenziale conflittualità della politica, anche internazionale, Leo Strauss finì per far sue le teorie del maestro. Proprio come il Carl Schmitt in versione non più cattolica ma hobbesiana, Strauss opta per un’antropologia negativa e ne fa la base per l’interpretazione della realtà umana e sociale. Ciò che della teoria schmittiana affascina Strauss è, senza dubbio, la dicotomia “amico-nemico” che Carl Schmitt pone a fondamento del Politico. O meglio: è l’antropologia negativa, il pessimismo antropologico, che si cela dietro quella dicotomia ad affascinare il giovane Leo Strauss.
Ad iniziare da Samuel Hungtington, con la sua teorizzazione del “crash of civilitation”, anche i neoconservatori hanno fatto propria l’idea di un “nemico assoluto”, “metafisico”, con cui non è possibile alcuna convivenza ma soltanto una guerra perpetua, finalizzata all’ implacabile annientamento del nemico. Questa idea è fondata sul pessimismo antropologico che Carl Schmitt mutuava da Hobbes (“homo homini lupus”), ma che prima era stato proprio di Lutero. Questa concezione del Politico come ambito del conflitto perenne è del tutto avulsa dalla tradizionale concezione cattolica, di derivazione aristotelico-agostiniano-tomista, che individua, al contrario, nel principio del Bene Comune, e dunque nell’amicizia e nella naturale socievolezza dell’uomo, il fondamento vero ed autentico della Comunità Politica, in un quadro nel quale la conflittualità è soltanto l’esito, sempre presente ma inautentico, del peccato originale che l’Amore di Cristo cancella nonostante il permanere delle tensioni conseguenti alla colpa d’origine.
L’antropologia negativa, cioè pessimista, ha sempre come suo inevitabile corollario l’assolutismo politico. Strauss, per la mediazione di Carl Schmitt, fa sua la convinzione hobbesiana per la quale “Auctoritas, non veritas, facit legem” (non la verità ma l’autorità fa legge). Ma prima di Hobbes era stato Lutero a ridurre la Politica a mero esercizio di forza bruta partendo dal principio della metafisica gnostica, da lui accolto, della “doppia verità”, quella teologica e quella filosofica (un principio del tutto in rottura con la scolastica e la patristica). Sulla base di tale erroneo principio, Lutero aveva concluso che è necessario prendere atto della incolmabile separazione tra l’ordine spirituale, ossia il mondo interiore dell’uomo (che, però, egli, riduzionisticamente, fa corrispondere non all’«anima spirituale» della Rivelazione, ma alla “psiche” in senso soggettivistico), e l’ordine politico esteriore. Un’opposizione radicale sulla cui premessa Lutero afferma che la moralità nulla può nell’ordine politico, tanto meno far prevalere un principio etico di giustizia. Il Politico rimane, in Lutero, sempre e comunque dominato dal bruto gioco della forza e delle potenze materiali. Per Lutero, che in questo anticipa Nietzsche, Marx e Darwin, poiché il mondo è soltanto caos e lotta per la supremazia, diventa inevitabilmente necessario affidarsi al potere assoluto del Principe, che sappia usare la forza con la più crudele malvagità per frenare gli istinti bestiali della corrotta natura umana (per Lutero il peccato originale ha corrotto irrimediabilmente l’uomo, laddove per la Tradizione cattolica esso ha soltanto ferito e non corrotto la natura umana).
Vi è in Lutero più di un’ anticipazione del pensiero di Leo Strauss: si rilegga la citazione di Shadia Drury. Il concetto, già luterano, della legge come strumento usato dai dirigenti per imporre l’ordine, nel momento stesso in cui essi, consapevoli della sua ingannevole strumentalità, ne rimangono del tutto “sciolti”, è fondamentale nella concezione politico-filosofica di Leo Strauss per il quale, nichilisticamente, il creato e l’ esistenza umana sono assolutamente privi di senso. Infatti, anche mediante la lezione di Nietzsche e sull’onda della filosofia gnostica di Heidegger, Strauss giunse al disprezzo non solo di ogni ottimismo metafisico, ma anche di ogni realismo e quindi anche del realismo cattolico che, pur non negando la realtà del male e del peccato, afferma la bontà delle creature (“Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”, Gen.1,31) e la Redenzione del peccatore. Al contrario, l’esaltazione di tutto ciò che nell’uomo è tirannico, malvagio, bestiale e della guerra come base e fine dell’esistenza, è esattamente quel che Strauss ammira nel pensiero di Nietzsche ed in tutto il filone del pessimismo metafisico fino a Lutero, Hobbes e Machiavelli. Per il filosofo ebreo-tedesco l’assunto cristiano per il quale “è meglio l’essere che il nulla” è falso ed illusorio. Mediante la filosofia nicciana, Strauss perverte anche la filosofia platonica per affermare la strumentalità a fini di potere dei “valori”, che egli riduce a meri “miti” buoni per le masse ignare e beote.
LA “DOPPIA VERITÀ”
Per Strauss, seguace anche della filosofia di Maimonide, assume importanza cruciale la gnostica dottrina della “doppia verità”. La verità esoterica (nascosta) consiste nella conoscenza del segreto nascosto da sempre ossia che “l’unica verità è il nulla”, e deve essere riservata soltanto a coloro che sono capaci di sopportarne il peso. La verità essoterica (pubblica) consiste nella religione e nei “valori morali naturali” (Dio, patria, famiglia) e deve essere consentita alle masse, bisognose di miti e credenze religiose. L’autentico filosofo, iniziato alla verità “nichilista” deve, al modo di Maimonide, disprezzare le credenze ufficiali pur simulando pubblica e formale adesione ad esse. Anzi, l’autentico filosofo saprà usare religione e “valori morali” per mobilitare le masse intorno ad un progetto politico di ordine interno e di prestigio nazionale nel mondo. Insomma, Strauss propone l’uso strumentale della fede, la religione veramente ridotta ad “oppio dei popoli”.
L’appello straussiano ai “valori morali naturali” «non deve ingannare – ha scritto Matteo D’Amico - perché dal punto di vista metafisico Strauss è un nietzschiano, un nichilista radicale, e anche le matrici ebraiche del suo pensiero (Maimonide, Spinoza) inclinano a una “visione ateistica della fede” (ecco perché non è raro incontrare neocon che si autodefiniscono “atei devoti” o “atei cristiani”: questo era già il segreto ben custodito del maestro). La religione, i valori morali, le grandi categorie politiche, il valore originario della vita umana, vanno spacciati per “assoluti” ad uso del popolo dei non iniziati, della massa dei soggetti ilici, incapaci di un uso responsabile della libertà, come invece lo sono i pochi “guardiani”, i pochi pneumatici che hanno visto il lato notturno della storia e sanno che nulla ha senso e che tutto è mito e gioco del caso, e che un velo sottile nasconde la tenebra e la violenza che ardono nel cuore del mondo. Coerentemente dunque con l’impianto (pseudo) platonico della sua concezione della politica e della storia Strauss legge a fondo “La Repubblica” e “Le Leggi”… e dal primo dialogo citato riprende il terribile passo della “nobile menzogna”, uno dei più controversi luoghi della filosofia politica del grande filosofo ateniese, riattualizzandolo: infatti, poiché nella concezione di Strauss solo pochi eletti, gli “aristòi”, i migliori per natura, hanno la capacità di vedere il volto segreto dell’essere e la sua negatività originaria… essi, ovvero i “guardiani”, hanno il dovere di affettare – o comunque di mettere in scena con grande convinzione – se non la fede, una forte simpatia per essa e per i suoi valori, perché solo la religione è in grado di stabilizzare il quadro politico e di operare come efficace “instrumentum regni”, frenando il relativismo immanente al democraticismo di matrice giacobina e al liberalismo moderni e fornendo la materia prima per una “theologia civilis” ancorata ai valori che pretendono di spacciarsi come transtemporali»2.
Strauss è consapevole che l’Occidente è nient’altro che la secolarizzazione umanitaria del Cristianesimo e che pertanto un progetto politico di “restaurazione nichilista della vita associata”, di “reincanto ideologico del mondo”, un progetto, cioè, tutto teso a simulare la fede in una Trascendenza nella quale in realtà i dirigenti nazionali non hanno fede, non può avere successo se non attraverso la manipolazione mediatica del Cristianesimo stesso, per il controllo e la mobilitazione delle masse e dell’opinione pubblica ad opera di un ristretto gruppo intellettuale iniziatico. Egli propone la stessa “demonia del sacro” (applicata, però, al Cristianesimo) che vide da giovane all’opera nella Germania nazionalsocialista con le masse entusiasticamente mobilitate dalle para-liturgie politiche di regime. Un progetto, con ogni evidenza, blasfemo, che simula anticristicamente il Cristianesimo, portando a compimento quello “Stato civile ed ecclesiastico” che Hobbes identificava nel Leviathan. Ora, il vero volto dell’ ideologia neoconservatrice lo ha mostrato Michael Leeden, gettando la maschera dell’ipocrisia moral-umanitaria, sul numero del dicembre 2001 di American Enterprise, la nota rivista neoconservatrice: “Distruzione creativa è il nostro secondo nome, dentro e fuori la nostra società. Noi demoliamo il vecchio ordine ogni giorno, dagli affari alla scienza, letteratura, arte, architettura e cinema, alla politica e alla legge. I nostri nemici hanno sempre detestato questo turbine di energia e di creatività, che minaccia le loro tradizioni (quando ci sono) e li accusa per la loro incapacità di tenere il passo. Guardando l’America che distrugge le società tradizionali, essi ci temono perché non vogliamo essere distrutti. Non possono sentirsi sicuri finché noi siamo là (…). Per sopravvivere devono attaccarci, come noi dobbiamo distruggerli per far avanzare la nostra storica missione”.
Il pericolo dell’ideologia neoconservatrice sta nella sua capacità di sedurre i buoni cattolici attraverso la difesa simulata che essa fa dei “valori” dell’«etica naturale», della fede e della presunta identità cristiana dell’Occidente moderno. È proprio questo apparente “antirelativismo” che seduce i cattolici, in particolare se di tendenza tradizionalista o conservatrice.
I buoni cattolici, affascinati dalla denuncia neoconservatrice del relativismo etico e dalle politiche “pro-life”, finiscono per non avvedersi della loro strumentalizzazione secondo il disegno politico straussiano cui si ispirano i “neocon” americani. È assolutamente necessario, per i cattolici, separare e distinguere con forza e chiarezza cristallina la denuncia sinceramente cattolica del “relativismo” da quella strumentale, ed atea, dei neoconservatori americani e dei loro imitatori italiani, come Marcello Pera, Giuliano Ferrara e la defunta Oriana Fallaci.
"SìSìNoNo", Anno XXXIII, n. 19, del 15 novembre 2007