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Il capitalismo verrà rianimato dal drago cinese?

di Salvatore Cannavò - 08/10/2008

 
La finanza internazionale, le banche, gli stati occidentali guardano con attenzione a quanto avviene nel paese di Mao Tze Tung. Il prossimo anno la Cina celebrerà il 60° anniversario della Rivoluzione comunista - bel paradosso per un paese che è orientato a inserirsi pienamente nel capitalismo mondiale - e gran parte del mondo capitalista spera che le sue eccedenze valutarie, la sua crescita impetuosa, il suo consolidamento internazionale possano costituire dei fattori di controbilanciamento alla crisi finanziaria globale e di contenimento alla recessione che ormai è annunciata e i cui effetti si faranno sentire proprio nel 2009.

La Cina, del resto, non smette di stupire come ha dimostrato anche nell'organizzazione delle recenti Olimpiadi. La crescita del suo Pil si aggira attorno all'8-9%, l'inflazione, oggi al 6,4% viene prevista nel 2009 al 4%, il suo bilancio è in nero, con un +0,4% sul Pil, le sue riserve valutarie ingenti così come il surplus con l'estero. Insomma, un attore di primaria grandezza che, seppur sempre più interno ai meccanismi del capitalismo globalizzato, mantiene oltre la metà della sua popolazione al riparo delle dinamiche economiche globali, che può contare su un ruolo dello Stato oggi invidiato dalle stesse banche commerciali statunitensi e che ha una centralizzazione politica dura e infame sul piano delle libertà civili e sindacali ma non per questo meno efficace su quello della regolamentazione delle storture di mercato. Insomma, la Cina è un osservato speciale e forse in lei vengono riposte molteplici speranze. Ma è proprio così? Davvero si potrà raccontare di un capitalismo salvato dalla Cina?

Difficile rispondere alla domanda e prevedere l'evoluzione delle dinamiche economiche. Ma alcuni elementi possono essere sintetizzati. Innanzitutto, la crisi ha già contagiato Pechino. La sua poderosa crescita del Pil (anche per il quinquennio 2009-2013 si prevedono tassi di crescita del Pil dell'8%) deve fare i conti comunque con un rallentamento rispetto agli anni passati (nel 2007 l'incremento era sopra l'11%) in gran parte dovuto al rallentamento delle esportazioni. Tutti i dati parlano di un calo generalizzato dell'economia cinese e non a caso la Banca del Popolo ha realizzato un taglio del tasso di interesse a settembre per dare un segnale di fiducia agli investimenti e ai consumi. Dall'inizio dell'anno, poi, la borsa di Hong Kong ha perso il 35% contro il -26% dell'indice S&P di New York.

I fattori di debolezza poggiano sulle caratteristiche principali della crescita e del boom cinese che dipendono per il 40% dalle esportazioni e per un 45% dall'investimento interno che continua a crescere a un ritmo del 25% annuo come rilevato da un recente studio sullo stato della salute cinese redatto da The Economist. Poiché buona parte della crescita dei consumi globali nel periodo 2001-2007 sono dipesi dal rigonfiamento del credito statunitense - che ha sostenuto la domanda Usa e così anche l'export Ue e cinese - il suo rallentamento non potrà non avere conseguenze sull'economia di Pechino. Basta leggere il Quotidiano del Popolo per accorgersi che questa è oggi la principale preoccupazione del gruppo dirigente cinese unitamente ai timori di un ricorso a dazi e protezionismi da parte dell'Unione europea, cioè l'altro grande mercato di riferimento.

Questo squilibrio oggi non può essere immediatamente compensato da una crescita della domanda interna. Come abbiamo detto questa dipende soprattutto dagli investimenti - spesso disordinati e caoticamente determinati dalle varie province locali e dalle competizioni tra i vari apparti di partito - su cui convergono molti investimenti stranieri. Ma la loro ulteriore crescita rischia di innescare una crisi di sovrainvestimento e di sovrapproduzione con effetti perversi anche sul sistema creditizio. Senza considerare che questo può spingere al rialzo l'inflazione.

In un recente commento pubblicato sull'edizione inglese del Quotidiano del popolo si leggono queste preoccupazioni e si intravedono alcune risposte: "Il nostro principale scopo oggi non è produrre più beni o costruire nuovi e più alti grattacieli ma di sostenere i consumi". Questa attenzione al "sociale" non è isolata. Da tutt'altra parte, negli Usa, sta facendo discutere un libro sul capitalismo cinese a opera di Yasher Huang, professore del prestigioso Mit di Boston, che mette l'accento sugli squilibri sociali di fondo che esistono in Cina e sulla necessità, per il governo di Pechino, di farvi fronte cercando di intervenire sulle campagne - 800 milioni di cinesi sono legati alla terra - in direzione del sistema sociale e di quello ambientale. Huang pone l'accento sull'arretratezza del sistema scolastico e sociale come fattori che dimostrano una debolezza di fondo del capitalismo cinese e che se non governati potrebbero esplodere. In tempi di riscoperta dell'intervento pubblico una discussione su un nuovo keynesismo potrebbe paradossalmente farsi strada in Cina. Forse non basterà a salvare le banche di Wall Street- ed eventualmente quelle europee - ma non è detto che questa sia la priorità oggi di Pechino.