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La crisi finanziaria impone un nuovo ordine mondiale

di Carlo Jean - 09/10/2008

Fonte: ilmessaggero

 

 
La crisi finanziaria non ha ancora colpito gravemente l’economia reale. Se ne possono però già prevedere gli impatti. Non saranno solo economici, ma anche geopolitici. Diminuirà la fiducia del mondo nel dollaro, come moneta-rifugio. Essa ha finora permesso agli Usa di finanziare i propri consumi interni, ma anche di fornire al mondo taluni “beni pubblici”: essere locomotiva della sua economia mondiale e garante della sua sicurezza. Wall Street ed il Pentagono non potranno più garantire una certa governance globale. È finito il sistema che gli Usa avevano imposto a Bretton Woods, approfittando del fatto che erano gli unici a poter finanziare la ripresa economica dei loro alleati. La soluzione adottata era contraria alle proposte dell’inglese Keynes, che voleva internazionalizzare la creazione di liquidità, per non lasciarla interamente in mani statunitensi. Il sistema aveva retto alla fine della convertibilità del dollaro. Dure erano state però le critiche rivoltegli. Triffin l’aveva chiamato uno “scandalo”, dimostrando come uno Stato non può creare liquidità internazionale senza una bilancia dei pagamenti negativa, cioè con i soldi degli altri. Comunque, il sistema fu considerato accettabile fino agli anni Ottanta, quando gli Usa investivano nel resto del mondo. Poi si trasformò in un semplice privilegio, impiegato per finanziare la domanda interna. I rischi della “dollarizzazione” dell’economia mondiale sono accresciuti dalla globalizzazione. Da un lato, dalla sua de-regolamentazione, basata sull’ideologia della “mano invisibile del mercato”. Dall’altro, dalla finanziarizzazione. Oggi, le transazioni finanziarie ammontano a circa sessanta volte gli scambi di merci. Sono influenzate non dalle valutazioni dei “fondamentali” dell’economia, ma dalle aspettative circa l’andamento futuro dei mercati finanziari. Quindi, sono fortemente soggette alle emozioni e ad ondate di panico, che amplificano le crisi del ciclo, rischiando di far crollare anche le economie reali come castelli di carta. Oggi sarebbe necessario un “nuovo Bretton Woods”, con nuove regole ed istituzioni. Lo richiederebbe la crescente interdipendenza dell’economia mondiale. Il condizionale è d’obbligo. Infatti, il problema non è più economico, ma geopolitico. È praticamente impossibile da risolvere. Si dovrebbe ridistribuire a tavolino il potere mondiale. Un accordo condiviso per quanto tutti lo riconoscano necessario è una pia illusione. Innanzitutto, poiché troppi sono gli aspiranti al tavolo di comando. Poi, perché sono disomogenei: Stati democratici ed autoritari; Stati che pensano di guadagnarci e quelli che temono di perderci. Non solo economicamente, ma anche come prestigio, rango, ecc. La razionalità economica ha sempre influito solo parzialmente sulle decisioni che fanno la storia.
Gli Usa ed anche l’Europa vedrebbero ridimensionata la posizione di vantaggio che oggi hanno nelle Istituzioni finanziarie internazionali. Tutti desidererebbero un ordinato passaggio dal mondo unipolare ad uno multipolare, ma fatto a proprio uso e consumo. Gli Usa dovrebbero rinunciare ad essere il centro del mondo. Che siano disponibili a farlo, mi sembra impossibile, poiché pensano di poterlo rimanere. L’Europa potrebbe aiutarli a uscire dall’imbroglio. Ma è divisa. Non è riuscita neppure a mettersi d’accordo sul fondo comune d’intervento europeo. Gli altri aspiranti al governo del mondo dalla Cina alla Russia ai produttori di petrolio e al Brasile pretendono troppo. Oppure non sanno neppure che cosa chiedere. È probabile che a parte gli interventi tampone dei singoli Stati, sulla base del “si salvi chi può” ci si affiderà alla “mano invisibile” del mercato.
La nuova geopolitica mondiale non sarà così multipolare, ma a-polare, caotica e conflittuale, sia economicamente che strategicamente. Gli Stati almeno quelli che riusciranno a tenersi in piedi vedranno accresciuto il loro potere rispetto al mercato. Aumenterà però la frammentazione politica. Se i ricchi saranno forse meno ricchi, i poveri diventeranno più poveri. Per mantenere la sua crescita ed evitare rivolte sociali, l’Asia Orientale farà ogni sforzo per aiutare gli Usa. Non solo per le sue esportazioni, ma anche per mantenere l’equilibrio strategico nel sistema Asia-Pacifico. Solo gli Usa sono in condizioni di garantirlo. Anche i Paesi produttori del Golfo sosterranno gli Usa, temendo l’egemonia iraniana ed il crollo del prezzo del petrolio. Cercheranno anche di impossessarsi dei gioielli industriali della “vecchia Europa”. Continueranno anche ad investire nel Mediterraneo. Questa è una buona notizia per l’Italia. Il Brasile diventerà egemone in America Latina. Sarà alleato degli Usa, anche per reazione all’agitarsi del Venezuela, che sta comprando massicciamente armi dalla Russia. La politica di Mosca è divenuta ancora più evidente con il prestito di quattro miliardi di euro all’Islanda. È stata una “mossa da maestro”. Dopo la Georgia, ha accreditato la Russia come potenza pronta ad aprire i cordoni della borsa. Il suo appeal sarà irresistibile. Gli Stati finanziariamente più esposti dalla Grecia all’Ucraina e anche ai Balcani andranno al Cremlino a chiedere aiuto. Mosca si vedrà riconosciuto il diritto di influenza sull’“estero vicino”. Berlino almeno in parte l’ha già fatto. Lo faranno anche gli Usa, anche perché già oggi non hanno i mezzi per opporvisi. Gli Stati dell’Ue faranno i “battitori liberi”. Senza la leadership tedesca, non ci sarà né politica comune né second best. Le affermazioni fatte nel 1998 del prof. Martin Felstein, secondo cui l’euro avrebbe diviso l’Europa, sono quanto mai attuali. Cresceranno gli egoismi nazionali ed il protezionismo. Si accelererà così il declino non solo dell’Europa, ma dell’intero Occidente.
Solo una Fata Turchina potrebbe provocare un accordo su di un “nuovo Bretton Woods”. Non si può essere molto ottimisti al riguardo. Nel 1944 gli Usa avevano una posizione dominante. Le classi dirigenti occidentali erano di alto livello. Oggi si rischierebbero solo summit ad alto livello e chiacchiere simili a quelle del 2005 sulla riforma dell’Onu.