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Liberalismo. Consigli per gli acquisti

di Carlo Gambescia - 15/10/2008



Chi volle la rivoluzione industriale?
La rivoluzione industriale fu intenzionale oppure no? Fu voluta dagli uomini oppure no?
La domanda può apparire bizzarra, ma non lo è affatto. Per quale motivo? Perché riguarda la libertà di scelta dell'uomo, così enfatizzata dal liberalismo. E quindi rappresenta un buon punto partenza, per la veloce anatomia del pensiero liberale, che qui ci proponiamo di fare. Ma procediamo per gradi.
A questa domanda un conservatore religioso potrebbe rispondere, asserendo che la rivoluzione industriale fu voluta dalla provvidenza. Un conservatore laico vi vedrebbe il prezioso frutto del faticoso sviluppo delle istituzioni umane. Un marxista chiamerebbe in causa la volontà di predominio di una classe sulle altre: quella borghese. E il liberale? Stupirebbe tutti, affermando che la rivoluzione industriale non fu voluta da nessuno.Ecco l’elemento che distingue il liberalismo da ogni altra teoria politica: l’ordine sociale (il "macro-evento") non è mai intenzionale. Ma frutto degli adattamenti individuali a un immenso numero di vicende particolari ( i micro-eventi).
Ecco perché, stando ai liberali, la rivoluzione industriale, "macro-evento" per eccellenza, non sarebbe opera di nessuno in particolare .
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Hayek: l'ordinato disordine degli interessi
Secondo Hayek - che qui segue Adam Smith - in quei febbrili anni della seconda metà del Settecento, gli inglesi inventavano, producevano e commerciavano, perseguendo i propri limitati e particolari interessi, senza rendersi conto di ciò che stavano creando. Ci volle almeno mezzo secolo, perché milioni di individui capissero, in pieno Ottocento, quel che avevano creato “inintenzionalmente”: la società capitalistica e liberale. Cominciando così ad apprezzarla. Ovviamente, il liberalismo moderno, come sistema di pensiero, era nato prima, ma sempre in Gran Bretagna, grazie alle due rivoluzioni seicentesche e all’opera filosofica, tra gli altri, di Locke e Hume.
Ma Hayek, che invece crede nell' inintenzionalità (pubblica non privata) dell'agire umano, non scorge (o forse non vuole scorgere), alcun collegamento diretto tra gli ideologi liberali e la rivoluzione industriale.
In realtà il liberalismo, grazie al meccanismo della mano invisibile, che implica la credenza nell’automatica e immediata composizione-trasformazione degli interessi privati in pubblici, fa sorgere il Bene (il giusto ordine sociale) dal Male (gli interessi, spesso egoistici dell’uomo). Questo è il vero nocciolo della questione.
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La mano invisibile e i suoi amici
Si tratta di una tesi discutibile, per almeno due ragioni.In primo luogo, l’ordine capitalista e liberale non è affatto l’incarnazione finale del Bene sulla Terra: probabilmente per alcuni è meno ingiusto di altri "ordini" storici, ma ciò non ha nessun valore in termini morali assoluti, né rispetto alla geniale capacità umana di riplasmare la realtà storica.
In secondo luogo, una volta accettato il principio che dal Male può nascere il Bene, tutto diventa possibile: qualsiasi azione umana, anche spregevole, può essere giustificata a posteriori, ponendo come limite la sola “utilità sociale”, cioè la sua compatibilità con un ordine sociale ritenuto giusto solo perché è quello esistente. Inoltre, imponendo l’idea che il capitalismo sia frutto di un ordine spontaneo (sorto da milioni di interazioni casuali), e come tale né giusto né ingiusto, si chiede all’uomo di accettarne i misteriosi “decreti” (disoccupazione, povertà, diseguaglianze). Gli si consiglia la rassegnazione, dal momento che non c’è alcun responsabile delle sue sventure sociali. E così di accettarle con lo stesso spirito di sopportazione con cui vanno accolti un terremoto o un lutto improvviso. In questo senso il liberalismo somiglia a una teodicea medievale, ma di tipo “laico”, perché sostituisce la mano invisibile di Dio con quella del Dio-Mercato.
C’è poi un altro aspetto fondamentale: all’interno del liberalismo che si ispira alla mano invisibile, una volta accettato il concetto di “inintenzionalità”, le posizioni si differenziano: perché non tutti accettano, o ritengono indispensabile, l’idea di armonizzazione automatica degli interessi perticolari. Vanno così distinti tre liberalismi.
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I tre liberalismi di origine controllata
In primo luogo, va ricordato il "liberalismo liberista", se ci passa l'espressione. Si tratta di una corrente di pensiero che risale a Hume e Smith e giunge fino a Mises, Hayek, con il pendant , piuttosto imbarazzante, per la povertà di pensiero rispetto ai padri austriaci trasmigrati nell'Illinois, della scuola economica di Chicago (Friedman, Becker e minori che riducono l'uomo a un fantoccio economico). Nonché, ma con maggiore dignità culturale, al primo Nozick. E’ un liberalismo fondato sull’idea di “stato minimo” (come mero e imparziale garante delle leggi promulgate) e sull’armonizzazione spontanea degli interessi. E' un liberalismo giuridico-economico.
In secondo luogo, va citato il "liberalismo ultraliberista" (libertario o anarco-capitalista), che ha molti punti di contatto con il primo (la Scuola Austriaca). E che oggi è rappresentato da pensatori come Murray N. Rothbard e Walter Block, per citarne soltanto due. Se, tutto sommato, quello di Rothbard, resta ancorato a un'istanza giusnaturalista, il libertarismo di Block è teratologico, dal momento che definisce legittime le attività dell'usuraio e dello spacciatore perché non lederebbero i diritti degli altri... Gli ultraliberisti respingono persino l’idea di stato minimo, al quale sostituiscono, sconfinando nell’utopia, il libero esercizio dei diritti individuali, ritenuti "per natura" pre-giuridici, pre-politici, pre-economici. E' un liberalismo naturalistico-darwiniano e basato su una esasperata difesa dei diritti individuali.
In terzo luogo, va segnalato il "liberalismo interventista”, che nasce con Bentham, si sviluppa con John Stuart Mill e matura con Keynes, che pur essendo solo economista, aveva una sua fisionomia di pensiero. Per questa corrente di pensiero, lo stato, oltre a farsi garante di leggi e diritti, deve favorire eguali condizioni "di partenza" per tutti i cittadini. Appartengono al liberalismo interventista i contrattualisti, che pur differenziandosi dalla linea anticontrattualista (Hume-Bentham-Mill-economia del benessere), sono ben rappresentati da giganti come Locke e (passando per Kant), Rawls. Il quale fa coincidere contratto sociale e armonizzazione di alcuni interessi primari (diritti di libertà, poteri e prerogative, minimum di eguaglianza). E' un liberalismo sociale. E ci spieghiano meglio.
Per le due prime correnti (i liberisti e gli ultraliberisti) gli interessi si armonizzano spontaneamente, invece per la terza (gli interventisti) vanno unificati artificialmente, attraverso l’intervento pubblico. Ma facciano qualche esempio.
Per il liberista, basta garantire per legge il diritto del singolo alla proprietà privata, lasciando i privati liberi di arricchirsi facendo leva sul libero mercato.
Per l’ultraliberista, il diritto del singolo alla proprietà privata è garantito per natura, e non serve dunque alcuna legge regolativa in materia: l'armonizzazione è "nella natura delle cose umane ". Di qui l'inutilità di qualsiasi forma di interventismo.
Infine, per il liberale interventista il diritto del singolo alla proprietà privata, va esteso concretamente a tutti favorendo la parità delle condizioni di partenza, attraverso un sistema scolastico aperto a tutti, la tassazione progressiva e la concessione di alcune tutele sociali (previdenziali e assistenziali). E' un liberalismo sociale che ha molti punti di contatto con la socialdemocrazia nel sua versione riformista. E qui si pensi, per l' oggi, a figure complesse, come Bobbio, Dahrendorf, l'americano Bruce Arnold Ackerman, e a un livello intellettuale molto più basso, al recente Nobel per economia, il "postkeynesiano" Paul Krugman.
Ma per tutti e tre i liberalismi - è bene ricordarlo - la proprietà privata è sacra.

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Un quarto liberalismo dal volto umano
Per i tre liberalismi (liberista, ultraliberista, interventista) la politica ha una funzione residuale, se non inesistente come nel caso dell’ultraliberismo. Tuttavia non tutto il pensiero liberale può essere ricondotto a queste tre categorie. Esiste un liberalismo realista, minoritario, che alcuni fanno risalire addirittura a Hobbes, che ha scorto nel politico non un’attività residuale ma l’anima stessa dell’agire umano.
E qui non è facile ricostruire genealogie intellettuali. Faremo solo alcuni nomi famosi: Tocqueville, Pareto, Croce, Ortega, Röpke ( e l' ordoliberalismus tedesco, inviso ad Hayek), Aron, Freund, Berlin. E perché no? Anche il Max Weber ardente liberal-nazionale tedesco...
Per questi filosofi e pensatori sociali gli interessi non si compongono spontaneamente né artificialmente. Per fare un esempio, certo semplificando al massimo: il diritto di proprietà, senza una “decisione” politica” che lo introduca, e soprattutto una forza pubblica che lo sostenga, non ha alcuna possibilità di realizzarsi. La “composizione degli interessi”, non è armonica nè sociale, ma ha sempre natura politica: il contratto privato senza una spada "pubblica" che lo garantisca, può facilmente essere violato. Inoltre, per il liberalismo realista la costituzione scritta, che un popolo si è dato liberamente, rischia di restare un puro e semplice pezzo di carta, se alle spalle non ha un esecutivo coeso e deciso, capace di attuarla e all'occorrenza difenderla, anche usando la forza, dai suoi nemici interni ed esterni.
Tornando all’ "inintenzionalità" della rivoluzione industriale, si può perciò dire che senza l’espansione della potenza coloniale inglese, iniziata nel Cinquecento e imposta al popolo dai ceti dirigenti "modernizzatori" (sia aristocratici che borghesi), difficilmente vi sarebbe stata rivoluzione industriale in Inghilterra. Un potere, quello britannico, fondato sul liberismo armato e sul controllo dei mari, durato fino alla prima guerra mondiale.
Pertanto la classe dirigente inglese sapeva benissimo quel che faceva.
Il che significa che liberali come Tocqueville, Pareto, Croce, Ortega, Röpke, Aron e Freund ci insegnano, rivalutando l’intenzionalità politica (pubblica) delle azioni umane, che la rivoluzione industriale fu voluta, dalla "mano visibile" dei ceti dirigenti.
Perciò non tutto il liberalismo è da respingere. Ce n'è uno dal volto umano.
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Fare la storia o subirla?
Tuttavia le linee di tendenza generale sono quelle accennate.
I tre liberalismi dominanti (liberista, ultraliberista, interventista) parlano una sola lingua e ripetono sempre due parole: individualismo (magari “assistito” come nel caso del "liberalismo interventista") e rassegnazione. Pur con sfumature differenti, l’uomo viene così ritenuto incapace di valutare e prevedere le conseguenze sociali delle sue azioni: lo si condanna a vivere in un eterno presente, senza veri sostegni politici: o si tiene a galla da solo, aggrappandosi a scelte private, o va a fondo, senza capire il perché della sua condizione esistenziale e storica.
Va comunque evidenziato, che i governi dell’Occidente, per quasi tutto il Novecento, venendo a patti con la realtà storica e politica, hanno dovuto praticare il "liberalismo interventista". Ma solo fino al crollo dell’ Unione Sovietica, dopo di che si è registrata una brusca virata verso il "liberalismo liberista". Ma la crisi finanziaria in atto potrebbe di nuovo favorire il ritorno del liberalismo interventista o , come auspichiamo, soluzione sociali del tutto inedite.
Perciò - e concludendo, se l’avvenire non è roseo, perché non tentare di cambiarlo, ritornando a “fare” la storia? Perché continuare a celebrare il capitalismo liberista e ultraliberista? Oppure puntando su un cavallo sbagliato come l'interventismo liberale...
Storia e sociologia insegnano che nessun sistema sociale è definitivo. E che l’uomo ha “intenzionalmente” abbattuto regimi e imperi, apparentemente più solidi del sistema celebrato dai tre liberalismi. Una verità, tra l'altro, intuita dal liberalismo realista.
Basta volerlo.