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Pechino, parte la caccia all'uiguro

di Francesco Sisci - 22/10/2008

 

Ogni tibetano o uiguro che viva qui deve fare immediatamente rapporto alla stazione di polizia», annuncia a caratteri cubitali un manifesto attaccato al muro nel quartiere di Haidian di Pechino, quello delle università e degli uffici del partito. «Sono già in corso ispezioni nei negozi per turisti e nei bagni pubblici con impiegati tibetani o uiguri», continua il manifesto.

La grande repressione è cominciata. La Cina, come un ingranaggio ben oliato, si sta muovendo per controllare le due minoranze etniche che rappresentano la più grande minaccia alla Repubblica popolare. Messe assieme fanno meno dell’un per cento della popolazione cinese, ma hanno un potenziale politico esplosivo. E in questo momento sono gli uiguri, otto milioni di turcofoni che vivono nello Xinjiang, il Far West cinese, i più temuti. La regione è stata scossa durante le Olimpiadi di agosto da una serie di attacchi terroristici, con una ventina di agenti uccisi. Un affronto che Pechino non ha digerito, tanto che ha anche richiesto l’aiuto della cooperazione internazionale per la cattura di otto super-ricercati.

Il Tibet, che non ha imboccato la via del terrorismo, è comunque ancora inaccessibile per i giornalisti stranieri. Le misure contro i due gruppi etnici sono sistematiche, a tappeto, non guardano in faccia a nessuno: bisogna asciugare l’acqua per catturare i pesci. In Xinjiang contro la diffusione dell’Islam è stato proibito ai dirigenti governativi di andare in moschea, e agli studenti universitari di osservare il Ramadan. Le mogli dei funzionari dello stato, inoltre, non possono indossare il velo.

A Kashgar, al confine con l’Asia centrale, sono arrivati i burqa più estremi, quelli che non fanno vedere nemmeno gli occhi, ma anche a Xian, nel quartiere islamico, tra i cinesi musulmani, gli Hui, sono arrivati chador castigati. Il governo contrasta l’islamizzazione strisciante limitando i pellegrinaggi alla Mecca: chi vuole andarci deve essere almeno di mezza età e far parte di una comitiva organizzata. Anche i viaggi d’affari degli uiguri sono controllati e scoraggiati, sia all’estero che all’interno della Cina.

Gli Han, l’etnia dominante che negli ultimi decenni è divenuta maggioritaria nello Xinjiang in seguito a una massiccia immigrazione incoraggiata da Pechino, è ovviamente favorevole a queste misure. «Gli uiguri il venerdì e durante il Ramadan non sono in ufficio perché è la loro festa. Però tutte le feste cinesi le fanno lo stesso, e non lavorano - dice un impiegato della regione -. In ogni momento lasciano il posto perché devono pregare cinque volte al giorno, e così io devo lavorare il doppio per loro».

A Pechino, pochi si scandalizzano per gli avvisi contro tibetani e uiguri. «La maggioranza sono certo brave persone, ma ci sono anche terroristi, come si fa a saperlo?», commenta la vicina di casa. È l’antico principio cinese della responsabilità collettiva: se sei parente di un delinquente l’unico modo di scagionarti è denunziarlo. Ma il principio del sospetto allargato a intere etnie potrebbe portare domani a odi razziali. 

La tv di Stato manda in onda documentari sulla bontà della cultura tibetana o che mostrano come han e uiguri vivano in armonia. Sono rozzi e paternalistici, e certo non correggono il messaggio intimidatorio della nota di polizia: uiguri e tibetani di Pechino mettetevi a rapporto o vi arresteremo. Per chi si consegna, il destino è incerto: come minimo verrà rispedito a casa in Tibet o Xinjiang.