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Kabul sette anni dopo

di Giampaolo Cadalanu - 12/11/2008

Il confine fra avere e non avere è una sbarra bianca a strisce rosse, un po’ ammaccata, manovrata da due guardie con kalashnikov. La usano i potenti, per chiudere la via dove abitano: che sia autorizzato o no, il blocco stradale è il modo più evidente per distinguere gli uomini di rispetto nell’Afghanistan del2008. Vanno bene anche i fuoristrada blindati, o i gorilla fuori dalla porta. A sette anni esatti dalla fuga dei Taliban, Kabul è persino meno sicura di quei giorni del novembre 2001, quando l’Alleanza del nord scendeva dal Panshir e l’avanzata dei miujahiddin, benedetta dai B-52 americani, spazzava via il regime del mullah Omar. Ma se allora la paura era di tutti, oggi la sicurezza è l’unico vero status symbol.
 «Anche solo quattro anni fa, la gente era piena di speranza», racconta un operatore umanitario afgano. «Adesso le illusioni sono sparite. Non c’è lavoro. Per noi il vero terrorismo è il freddo, è la fame. E la disperazione spinge a scelte terribili». L’inverno sarà drammatico, avvertono Ong e agenzie internazionali: fra raccolti resi esigui dalla siccità, aumenti del prezzo dei grano e clima non clemente, l’emergenza umanitaria è già annunciata. In un paese dove il mitragliatore è una dotazione di ogni casa, molti uomini si lasciano tentare dalla prospettiva della criminalità. Le bande proliferano, le rapine sono sempre più frequenti, occidentali e afgani benestanti restano chiusi in casa. I sequestri sono diventati un’industria: secondo la Camera di commercio della capitale, sono stati almeno 173 negli ultimi tre anni. Uomini d’affari locali, direttori di banche, e naturalmente giornalisti stranieri: liberata due giorni fa la canadese Melissa Fung, ieri è toccato a David Rhodes, premio Pulitzer in viaggio nella provincia di Logar per conto del New York Times.   Il governo tenta di fare la voce grossa: «Non si fanno accordi con questa gente. Abbiamo appena impiccato cinque criminali, tre solo a Kabul», dice Sebghatullah Sanjar, responsabile della sicurezza di Hamid Karzai. Ma nei villaggi chi non può spendere 70 mila dollari per la più economica Toyota corazzata ha una sola strada: le milizie popolari di autodifesa. La fiducia nella polizia è a zero: persino i diplomatici occidentali suggeriscono che a gestire rapine e sequestri possano a volte essere gli stessi agenti, i quali dopo il pagamento del riscatto cambiano cappello e "liberano" clamorosamente gli ostaggi.  Un’altra tentazione facile per chi sa usare le armi è quella dei Taliban. Grazie alle "tasse" pagate dai signori dell’oppio, gli studenti coranici sono diventati datori di lavoro concorrenziali. Chi abbraccia la causa integralista, convinto o meno, prende 400 dollari al mese. E il confine fra militanti islamici, trafficanti di droga e semplici banditi è confuso, indistinguibile. «Si può azzardare un parallelo con la mafia», dice Ettore Sequi, ex ambasciatore d’Italia e oggi rappresentante dell’Unione europea a Kabul. «E’ emersa una classe di Taliban paragonabili ai Corleonesi. Usano la violenza senza scrupoli, non rispettano nemmeno donne e bambini. Sono frammentati, come le cosche, hanno legami con gli espatriati. E si inseriscono a fornire servizi come l’amministrazione della giustizia, radicandosi come un anti-Stato dove lo Stato non arriva».  Il problema è appunto che le istituzioni afgane arrivano solo in una frazione del paese. Oggi i nuovi Taliban dettano legge persino nella provincia di Maydan Wardak, alle porte della capitale. Qui, la sera, gli autisti delle Ong si rifiutano di uscire di casa e si girano l’un l’altro le informazioni di pullman bloccati e di passeggeri uccisi sulla sola base dei documenti: «Basta un tesserino a tradire chi lavora con gli occidentali e a fargli fare una brutta fine, decapitato con un temperino davanti alla telecamera, in perfetto stile iracheno», racconta il collaboratore di un’azienda europea.  Per non lasciare spazio politico agli integralisti, il Parlamento sta persino valutando l’idea di riesumare il Dipartimento del vizio e della virtù, famoso in passato per i mullah che andavano in strada a frustare le donne vestite in modo inadeguato e gli uomini senza barba. Le prime vittime sarebbero senz’altro le studentesse che girano per Kabul a viso scoperto, con il velo a coprire solo i capelli. Ma la via  del fanatismo non è più praticabile. Persino i negozietti stradali espongono immagini con donne in abiti occidentali se non addirittura in biancheria intima. Computer, lettori Dvd e tv color "made in China" sono in vendita ovunque, con buona pace di chi usava i televisori come bersaglio per il tiro a segno. «Non accetteremmo mai un ritorno al passato. Se si deve far la pace con i Taliban, non significa che devono tornare le loro regole», dice Airuddin Nikhban, segretario del Partito nazionale attivisti perla pace ed esponente della società civile. In realtà un segnale in senso opposto è già arrivato nelle scorse settimane, con le condanne impartite al giornalista che aveva stampato da internet un testo blasfemo" su donne e islam e all’editore che aveva pubblicato una traduzione in dari del Corano, non autorizzata e priva della versione araba a fronte. A contestare l’ipotesi di un ritorno alla sharia più rigida sono soprattutto intellettuali e giornali. «Abbiamo 280 testate in tutto il paese. Ma un giornale costa 5 afgani», avverte Shahwakir Latifi, del Partito liberaldemocratico. E’ una somma equivalente a 7,5 centesimi di euro: «E la gente preferisce spenderli per un pane». Tanto più che a saper leggere è solo una frazione minima del popolo afgano, con un tasso di analfabetismo vicino all’80 per cento.  Resta la speranza che una prospettiva nuova possa arrivare dall’estero. Sul terreno i contingenti registrano difficoltà crescenti, nell’Helmand i soldati danesi hanno fatto sapere che non possono più garantire se non l’ordine nelle città principali. E con un cambio di termini che ricorda l’Iraq, i militari cominciano a parlare di "insurgents", e non più di soli Taliban, di fatto ammettendo che la ribellione alla presenza straniera è un fenomeno più vasto. Così diventa spasmodica l’attenzione a quello che farà la prossima amministrazione statunitense. Il presidente-eletto ha già annunciato che vuole mandare in Afghanistan i soldati ritirati dall’Iraq. Raggiunto al telefono, Marvin Weinbaum, consulente di Barack Obama per Pakistan e Afghanistan, chiarisce che rispetto ai tempi di Bush il vento sta davvero cambiando: «Molto probabilmente i militari saranno inquadrati nella missione Nato, non in Enduring Freedom», dice lo studioso. Il presidente ha promesso il massimo impegno per la cattura di Osama Bin Laden, ma la sua dottrina prevede un approccio focalizzato sulla ricostruzione molto più che sulla caccia ai radicali islamici. Anche come atteggiamento politico verso il governo locale la svolta è totale: «Sappiamo che con i Taliban si può trattare solo da posizioni di forza, e aiuteremo i nostri alleati afgani. Ma gli Stati Uniti non intendono mettere a rischio i primi negoziati». Anche Kabul, insomma, sogna Obama.