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L'oro e i nativi

di Marinella Correggia - 29/11/2008

 
 
Com'è possibile che ancora si strappi oro dalle viscere della Terra, con l'enorme quantità che si trova già in circolazione e nei forzieri e che sarebbe ricicilabile quasi in eterno, per l'elettronica come per le dentature e sperando in un crollo dell'uso effimero gioielliero? Ingenua domanda, visto che siamo ancora in piena economia estrattiva e il passaggio a un'economia della permanenza non si intravvede. In tutto il mondo i conflitti sulle miniere presentano importanti aspetti di ordine legale oltre che ambientale. Ad esempio per quanto concerne gli strumenti di resistenza messi in atto (azioni dirette o giudiziarie), la titolarità delle terre interessate e i metodi messi in atto dalle multinazionali per dividere le comunità locali.

Da anni la nazione di nativi nordamericani Western Shoshone, nel Nevada (Stati Uniti) lotta contro l'apertura di una gigantesca miniera d'oro a cielo aperto su un lato del monte Tenabo. A cura e a profitto della più grande compagnia aurifera del mondo, la Canadian Barrick Gold che prevede di estrarvi dal 2010 un milione di once all'anno almeno per i primi cinque anni, scavando una superficie di 900 acri fino a una profondità di 2.000 piedi. La struttura di lavorazione con il cianuro produrrebbe all'anno 1.500 milioni di tonnellate di scarti di roccia e in tutto oltre 160 milioni di tonnellate di materiali contaminati. Occorrerà molto acqua alla miniera; così, ha denunciato Carrie Dann del Western Shoshone Defense Project e vincitrice del Right Livelihood Award, «l'acqua sarà per sempre succhiata via dalla montagna». Per non parlare dell'inquinamento atmosferico da micro particelle.
Pochi giorni fa il Dipartimento degli Interni con il suo Bureau of Land Management (Blm) ha accordato il permesso di apertura della miniera. I lavori, che costeranno 500 milioni di dollari, sono sul punto di iniziare. Il provvedimento rientra nella 'distruzione di mezzanotte' che George Bush sta operando, facendo approvare i progetti degli amici estrattori.

Cinque gruppi nativi e associazioni quali il Great Basin Mine Watch e il Western Mining Action Project (che dà servizi legali gratuiti ai cittadini e tribù native in lotta contro le miniere) hanno fatto ricorso contro la decisione, alla Corte Federale del Nevada (e 14mila persone hanno firmato il loro appello). La titolarità di quelle terre ancestrali è riconosciuta ai nativi sulla base del trattato del 1863. L'area che sarebbe erosa dalla miniera e inquinata dalle sue scorie al cianuro è luogo di importanza spirituale e culturale per i Western Shoshone che la vivono per le loro pratiche culturali ma vi attingono anche piante medicinali e alimenti. I nativi sostengono di non aver mai ceduto quelle terre al governo. In effetti lo stesso Bureau of Land Management nel suo Ethnographic Report del 2004 riconosceva che tutto il monte è «parte della proprietà tradizionale dei nativi». Ma nella sua recente valutazione di impatto ambientale della miniera, il Blm ha detto di non vedere quale uso tradizionale del monte potrebbe essere danneggiato dalla miniera.
Su questo aspetto la Barrick non si pronuncia, sventolando invece le possibilità di «un nuovo sviluppo anche occupazione per il Nevada rurale, in tempi di crisi industriale e perdita di posti di lavoro». Così le comunità Shoshone sono divise in merito. Alcuni loro leader hanno firmato un accordo di collaborazione con la Barrick per interventi nel campo dell'educazione, con un fondo ah hoc tratto dai proventi della miniera aiuterebbe negli studi superiori i giovani della zona in difficoltà finanziarie. Il solito lavaggio verde.