Maltempo. E malcostume.
di Federico Zamboni - 12/12/2008
“S'intende per calamità naturale o catastrofe l'insorgere di situazioni che comportino grave danno o pericolo di grave danno alla incolumità delle persone e ai beni e che per la loro natura o estensione debbano essere fronteggiate con interventi tecnici straordinari.” (art. 1 legge 8 dicembre 1970 n. 996)
Succede continuamente: appena il maltempo mette in crisi un determinato territorio, da parte degli amministratori locali scatta la richiesta di riconoscimento dello “stato di calamità naturale”. In soldoni, è il caso di dirlo, significa che viene chiesto alle autorità competenti di prendere atto della situazione e di allargare i cordoni della borsa, erogando dei contributi straordinari a copertura dei danni che si sono determinati.
In linea di principio è ineccepibile. Alle circostanze eccezionali si risponde con provvedimenti eccezionali. Ma il problema è proprio qui: cosa si deve intendere, correttamente, per “eccezionale”? La risposta sembra ovvia: sono eccezionali quei fenomeni che, per la loro natura e/o per la loro intensità, fuoriescono dalla norma. E che, quindi, o sono tout court imprevedibili oppure comportano spese talmente elevate, per l’adozione delle possibili contromisure, da rendere proibitivi gli interventi necessari a un’adeguata difesa preventiva. In altre parole: poiché non si poteva fare nulla prima, è perfettamente legittimo chiedere aiuto dopo.
In Italia, manco a dirlo, la realtà è ben diversa. La richiesta, e la concessione, del succitato “stato di calamità naturale” non dipende tanto dall’effettiva rilevanza delle cause quanto dagli effetti più o meno disastrosi che si sono prodotti. Il che, ovviamente, ribalta la logica che ha ispirato la legge. E ribaltandola la snatura.
Finché si potrà contare, con relativa sicurezza, sui risarcimenti pubblici, si continuerà a fare poco o nulla per premunirsi dai danni del maltempo. Soprattutto ora che i fondi scarseggiano e sindaci & Co. hanno gioco facile nel trincerarsi dietro l’obiettiva mancanza di risorse. Aggiungendo una nuova scusante all’alibi consueto (e un po’ paradossale) per cui ciò che non fanno essi stessi, i politici di oggi, dipende solo ed esclusivamente da ciò che non hanno fatto i loro degni predecessori, i politici di ieri.
Succede continuamente: appena il maltempo mette in crisi un determinato territorio, da parte degli amministratori locali scatta la richiesta di riconoscimento dello “stato di calamità naturale”. In soldoni, è il caso di dirlo, significa che viene chiesto alle autorità competenti di prendere atto della situazione e di allargare i cordoni della borsa, erogando dei contributi straordinari a copertura dei danni che si sono determinati.
In linea di principio è ineccepibile. Alle circostanze eccezionali si risponde con provvedimenti eccezionali. Ma il problema è proprio qui: cosa si deve intendere, correttamente, per “eccezionale”? La risposta sembra ovvia: sono eccezionali quei fenomeni che, per la loro natura e/o per la loro intensità, fuoriescono dalla norma. E che, quindi, o sono tout court imprevedibili oppure comportano spese talmente elevate, per l’adozione delle possibili contromisure, da rendere proibitivi gli interventi necessari a un’adeguata difesa preventiva. In altre parole: poiché non si poteva fare nulla prima, è perfettamente legittimo chiedere aiuto dopo.
In Italia, manco a dirlo, la realtà è ben diversa. La richiesta, e la concessione, del succitato “stato di calamità naturale” non dipende tanto dall’effettiva rilevanza delle cause quanto dagli effetti più o meno disastrosi che si sono prodotti. Il che, ovviamente, ribalta la logica che ha ispirato la legge. E ribaltandola la snatura.
Finché si potrà contare, con relativa sicurezza, sui risarcimenti pubblici, si continuerà a fare poco o nulla per premunirsi dai danni del maltempo. Soprattutto ora che i fondi scarseggiano e sindaci & Co. hanno gioco facile nel trincerarsi dietro l’obiettiva mancanza di risorse. Aggiungendo una nuova scusante all’alibi consueto (e un po’ paradossale) per cui ciò che non fanno essi stessi, i politici di oggi, dipende solo ed esclusivamente da ciò che non hanno fatto i loro degni predecessori, i politici di ieri.