Iran e Iraq, fratelli d’armi
di Ghait Abdul-Ahad - 12/12/2008
Quando era ragazzino, a Baghdad, a Ghait Abdul-Ahad avevano insegnato che gli iraniani erano i “vermi della terra”. Oggi, 20 anni dopo la guerra Iran-Iraq, visita Tehran alla ricerca di reduci, ufficiali, dissidenti, e fondamentalisti islamici per ascoltare le loro storie. Cosa prova oggi per i suoi vecchi nemici?
L’ufficiale dell’esercito iraniano è basso, grassoccio, e con un baffo spesso. Contrariamente alle abitudini di altri ufficiali della Repubblica Islamica, porta un bell’orologio al polso, ha il mento sbarbato, e nella mano destra tiene un bicchiere di vino rosso. La moglie gli sta riempiendo il piatto con uno stufato di agnello, una coscia di pollo, e del riso allo zafferano. Io, lui e la moglie siamo ospiti a cena in un quartiere bene di Tehran.
Con frasi dirette e telegrafiche, l’ufficiale mi fornisce la sua analisi del conflitto tra Iran e Iraq degli anni ’80, nel quale il suo Paese è stato in guerra con il mio. “Dall ’80 all’ ’82 Saddam ebbe il sopravvento, e occupò delle zone a sud-ovest dell’Iran.”, dice. “Poi, dall’ ’82 all’ ’86, fummo noi ad avere il sopravvento, dopo la riconquista di Khorramshahr [la città di confine iraniana occupata dagli iracheni nei primi mesi di guerra], ma sprecammo molti uomini ed energie preziose tentando di prendere Bassora e le paludi. Dopo il 1986, Saddam, con l’aiuto dell’Occidente, cominciò a ricacciarci indietro.” Con la forchetta disegna una linea sul piatto, muovendosi dalla coscia di pollo su un lato allo stufato sull’altro. “Quando la guerra finì, Saddam era molto forte, ma la sua stupidità lo portò a invadere il Kuwait, e a sprecare il potere che aveva accumulato.”
“E ora?”
Dopo aver passato il piatto alla moglie senza neppure guardarla, beve un sorso di vino e si lecca i baffi bagnati. “Ora potremmo prendere Baghdad in tre giorni. Ma non ci è mai interessata: Bassora è parte della nostra zona d’influenza”. Si volta verso di me: “Sei mai stato lì?”
“Sì, e tu?”
Senza rispondere alla mia domanda, continua: “Hai visto quanti cibi e prodotti iraniani ci sono nei mercati [di Baghdad]?”. In effetti l’avevo visto: praticamente tutto – dal latte alle gazzose fino alle motociclette e ai condizionatori - viene dall’Iran.
“Se riesci a mandare del cibo, vuol dire che puoi mandare armi”, dice l’ufficiale “E non hai bisogno di armi per controllare una città. Lasci che siano gli altri a farlo per te”. Immagino che per “altri” intenda le milizie sciite irachene nella zona di Bassora.
La moglie gli passa il piatto riempito, mentre lui conclude “Negli anni ’80, 27 nazioni appoggiavano Saddam - il mondo intero era con Saddam. Ora stanno tentando di unirsi di nuovo contro di noi, perché siamo una superpotenza”.
“Non dovresti parlargli - ha combattuto contro il tuo Paese”, lo ammonisce la moglie dall’altro lato della stanza.
Il mio primo incontro con l’Iran avvenne quando avevo 5 anni. Mi ricordo che ero sul letto dei miei genitori, accanto a mio padre, e guardavo fuori dalla finestra. Mi pare che fosse di prima mattina – mia madre era ancora addormentata. Non capivo cosa stesse succedendo. Poi ricordo di essermi dovuto acquattare per ore sotto un tavolo nella tromba delle scale, con la radio, del tè, mia nonna, e mia zia. Più tardi, mio padre, con me sulle spalle, in piedi sul tetto con mio zio, puntava il dito verso delle scie bianche nel cielo. “Phantom” [caccia iraniani F4], disse.
Era il settembre del 1980, i primi giorni di una guerra di otto anni che ebbe inizio con raid aerei e l’invasione irachena dell’Iran sud-occidentale. Eppure per oltre dieci anni fui convinto che eravamo noi iracheni a “difenderci da un’invasione iraniana”. Perlomeno, questo era quello che ci insegnavano a scuola.
Altri ricordi seguirono. Un giorno, con mio padre nel centro di Baghdad, guardavamo una parata militare di camion iracheni carichi di prigionieri di guerra iraniani. Non provavo nessuna compassione per quegli uomini sconfitti, con le divise militari stracciate e con la testa rasata. Avevo solo paura di loro. Alcuni anni dopo, la TV fece vedere immagini simili di soldati sconfitti, vestiti in tuta mimetica, accovacciati nel deserto con le mani legate dietro la schiena: questa volta, tuttavia, erano i militari iracheni sconfitti.
La nostra propaganda di Stato dipingeva gli iraniani come dei codardi e delle persone malvagie, i “vermi della terra”. Gli iracheni, ci veniva detto, stavano combattendo un’altra gloriosa battaglia contro i Persiani, proprio come avevano fatto i primi musulmani nel settimo secolo.
Questa retorica religiosa, e le immagini di quegli uomini sconfitti, mi riempivano la testa quando sono andato a Tehran questo autunno, circa 20 anni dopo quella guerra, e mi sono presto reso conto che gli stessi simboli religiosi, a volte persino gli stessi versetti coranici, erano stati utilizzati nello stesso modo dall’altra parte del confine.
Camminando nel gran bazaar di Tehran, un giovanotto, alto e slanciato, ci ferma: “Tappeti, signore? Volete tappeti? Ho dei kilim tribali.”
Gli rispondo di no in modo assai sprezzante, ma lui insiste.
“Da dove venite?”, chiede sorridendo.
Ancora incerto su come gli iraniani avrebbero trattato un iracheno, esito, per poi dire: “Il mio amico è italiano”, e, a voce molto più bassa, “e io sono iracheno”.
L’espressione del venditore di tappeti cambia improvvisamente. “Perché?”, chiede subito “Perché è successo? Lo zio di mia madre è stato ucciso in guerra, assieme a tanta altra gente. Perché abbiamo combattuto?”
“E’ stata una stupidaggine”, rispondo. “Nessuno voleva combattere”. Mio padre, due zii, il marito di mia zia, e mio cugino erano stati tutti arruolati.
“Ma in Iraq la gente è istruita. Perché non cercarono di fermare Saddam?”, dice in tono supplichevole.
Perché avevamo paura, voglio rispondere, perché la gente veniva fucilata se solo provava a evitare il servizio militare. Invece, gli fornisco la mia risposta standard: “Saddam era molto brutale.”
“Quando i governi si odiano, è la gente a farne le spese”, dice il venditore di tappeti. “Qui in Iran i mullah dicono che dobbiamo combattere fino a che non avremo raggiunto Karbala [una città santa] e poi ancora, fino a che non libereremo Gerusalemme”. Si ferma, e aggiunge sarcasticamente: “E poi che altro - New York?”.
“Quella fu una stupidaggine”, dice, “e ora il signor Bush sta facendo la stessa stupidaggine.”
Tehran è una vera megalopoli: una popolazione di 17 milioni, strade di 30 chilometri che vanno dai quartieri degli arricchiti a nord a quelli dei poveri a sud, centinaia di cavalcavia che circondano migliaia di orrendi edifici di cemento. E’ anche una megalopoli dove la retorica rivoluzionaria della Repubblica islamica compete con la banalità commerciale della vita quotidiana. Cartelloni e manifesti sui quali sono scritte le frasi dei leader sono fianco a fianco alle pubblicità di TV al plasma, portatili, e cellulari.
I martiri e i vivi condividono la stessa città qui a Tehran. Milioni di persone si sfidano, spingono, suonano il clacson, e guidano come pazzi in strade intitolate ai morti. I martiri più grandiosi, i fondatori della Repubblica, si prendono le grandi autostrade, comandanti e ayatollah le strade, mentre ai combattenti semplici toccano i vicoli pieni di buche. Dagli angoli delle strade e degli edifici, i caduti guardano verso il basso da enormi murali, invitando un certo senso di colpa per essere vivo e sulla strada, invece che morto e sull’edificio, accanto a loro.
Prendiamo la nuova metro fino alla periferia cittadina, dove i martiri riposano in pace nella loro città, il cimitero di Behesht Zahra, dove, fila dopo fila, sono sepolti gli uomini uccisi in guerra. Le tombe sono decorate con piccoli altari di vetro e alluminio che contengono oggetti appartenenti al martire: una copia del Corano, fiori di plastica, una bottiglia di acqua di rose, un pezzetto di stoffa insanguinata con una foto del soldato morto. Nomi dei campi di battaglia – Ahwaz, Kurdistan, Ailam, Shalamgah; luoghi nelle paludi del sud dell’Iraq, nelle montagne kurde, e cittadine di confine iraniane – sono inscritti sulle lapidi. Sono diventati nomi familiari sia per gli iracheni che per gli iraniani.
Dopo ogni offensiva, il nostro televisore a Baghdad mostrava immagini dei morti maciullati. Al telegiornale delle 20, il conduttore con il baffone, alla Saddam, ci parlava delle migliaia di aggressori massacrati dai nostri eroi. Nel frattempo, i vicoli della città erano coperti su entrambi i lati da migliaia di volantini funebri che annunciavano la morte dei nostri giovani, “Nel nome di Allah, il Misericordioso, il Compassionevole”.
Quando, l’anno scorso, sono andato nella provincia di Amara [Maysan NdR], teatro di molte battaglie sul confine iracheno, non rimaneva nulla se non bobine di filo spinato, elmetti arrugginiti semisepolti nella sabbia, e la torretta occasionale di un carro armato affondato. Potevo sentire i fantasmi dei “martiri”; il loro sangue si era asciugato da molto ormai, ma il loro ricordo ancora ci tormenta - iracheni e iraniani.
Nel mezzo dell’oceano di fotografie a Behesht Zahra, ci troviamo di fronte alle tombe della famiglia Qassim. Il padre aveva 40 anni, la madre 27, i bambini, Sumaiya, tre, Mariam, due, e Abbas, uno, quando furono uccisi da un raid aereo iracheno, parte di quella che divenne nota come la “Guerra delle Città”. Ricordo molto bene questa guerra. O, piuttosto, la versione irachena: il conduttore televisivo baffuto che dichiara che i nostri coraggiosi piloti hanno inflitto le più pesanti perdite al “malvagio nemico persiano”. Ricordo, anche, la nostra casa che tremava quando un missile iraniano cadde a meno di un miglio, a Karrada, uccidendo una famiglia intera.
Lasciamo il cimitero con le lacrime agli occhi, e torniamo a farci largo a spintoni nella città dei vivi.
Arrivando a Tehran, gli anni di demonizzazione dell’Iran che avevo vissuto sotto il sistema dell’istruzione ba’athista erano stati integrati dalla retorica anti-iraniana e dalle dimostrazioni di forza dell’Amministrazione Bush. “Risveglio sciita guidato dall’Iran” è diventato il nuovo mantra. L’Iran viene percepito come una potenza oscura e minacciosa, che appoggia le milizie sciite in Iraq, Hamas a Gaza, e gli Hezbollah in Libano. La paranoia si è impossessata dei Paesi arabi sunniti confinanti – che gli americani conoscono anche come i “Paesi arabi moderati”. Tutti questi Paesi ora si trovano in un’alleanza di fatto con Israele, nel tentativo di trovare modi per contrastare “l’influenza iraniana” nella regione. “La prima cosa da cercare dopo un incidente d’auto a Beirut sono gli agenti iraniani che ci sono dietro”, mi aveva detto un amico giornalista, scherzando solo a metà. Tutto ciò ricorda il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, dopo la fine del colonialismo, quando la gente pensava che dietro a qualunque cosa succedesse in Medio Oriente ci fossero agenti britannici.
Un altro giornalista, in Qatar, ha un’altra opinione del dilemma che i Paesi arabi si trovano ad affrontare. “L’Iran è un grosso problema in tutti i casi. Se gli americani lo attaccano, è un problema enorme - gli iraniani potrebbero, come rappresaglia, colpire gli interessi americani nel Golfo. Ma se invece gli americani si riappacificano con l’Iran, abbiamo un problema più grosso”. Vale a dire, che l’Iran consoliderebbe ulteriormente il suo dominio nella regione.
La cattiva reputazione dell’Iran è stata in parte favorita dalle presunte profezie apocalittiche del suo presidente, Mahmud Ahmadinejad. Sotto la minaccia di attacchi Usa e israeliani, l’atmosfera a Tehran e in altre città iraniane è diventata simile a quella di Baghdad negli anni ‘90, durante i lunghi anni delle sanzioni economiche che precedettero il rovesciamento di Saddam: ansie per una guerra incombente, preoccupazioni per la prossima risoluzione delle Nazioni Unite, e un interrogativo fisso nella mente delle persone: “Ci attaccheranno?”
Le somiglianze e le differenze tra Iran e Iraq sono impressionanti. A volte, l’Iran mi è sembrato come il cibo di mia zia – quasi identico a quello di mia madre, ma più speziato. Un amico iracheno, tornato da poco da Tehran, era sorpreso da quanto la teocrazia dei mullah assomigliasse al regime ba’athista iracheno. “Sono come dei ba’athisti col turbante: stesse bugie, stessa oppressione, e stessa corruzione.”
Come in molti altri luoghi del Medio Oriente, un tipo particolare di repressione claustrofobica aleggia sulla città. I giovani vengono arrestati per tagli di capelli “anti-islamici”, “hijab insoddisfacenti”, o vestiti indecenti. Ogni scrittore, musicista, e regista deve orientarsi in un labirinto di tabù e dogmi per produrre arte “moralmente accettabile”. Chiedendo a un musicista assai noto se le restrizioni l’avessero effettivamente aiutato a “creare”, mi sono sentito rispondere: “No, sarebbe bello avere tutta la libertà che desidero”.
La libertà è un concetto molto relativo in Medio Oriente. Nonostante l’atmosfera oppressiva e la polizia religiosa, l’Iran resta un posto più sicuro e meglio organizzato dell’Iraq post invasione – per non parlare di quello di Saddam Hussein..
Ali mi viene a trovare nell’appartamento dove alloggio a Tehran. E’ basso, dinamico, e in gran forma. Beviamo del tè, e divoriamo le tortine rosa al pistacchio che ha portato. Parla educatamente e a bassa voce dell’Iran, dell’Iraq, e degli americani.
E’ difficile immaginare Ali incarcerato, eppure ha passato diverse settimane nel famigerato carcere di Evin, a Tehran, per aver partecipato a una manifestazione studentesca. “Durante gli ultimi giorni in prigione, avevo letteralmente iniziato a sbattere la testa al muro”, mi dice. “Pensavo al suicidio. Mi chiedevo se sarei mai uscito di lì.”
Durante i tre giorni di interrogatorio, Ali era stato picchiato e insultato, e, per intimidirlo ulteriormente, era stato messo in una piccola cella con tre condannati a morte. Anche dopo il suo rilascio – dice - è stato importunato e seguito. Ma rimane posato: “Non abbiamo bisogno di un’altra rivoluzione. Voglio dire: abbiamo bisogno di un cambiamento, ma il cambiamento dovrebbe arrivare attraverso delle riforme, non la violenza. Ci sono voluti 30 anni per arrivare a una sorta di stabilità. Un’altra rivoluzione distruggerebbe la nostra società”.
La priorità in questo momento, dice Ali, è educare la gente sui diritti che possiede. “Ci vorrà del tempo”, dice. “Io so che questo regime cambierà, ma sfortunatamente si porterà via la mia gioventù. Dovrei partire, andare per un po’ all’estero. Quando sei qui, sei isolato. Però è possibile che quando vedrò cosa vuol dire essere liberi, forse mi piacerà così tanto che non vorrò più tornare in Iran.”
Più tardi incontro un altro studente attivo nelle organizzazioni politiche studentesche, e che, come Ali, mi parla di una situazione dura. “Le autorità usano il pugno di ferro contro i movimenti studenteschi, ora molto più di prima”, dice. “Con [l’Ayatollah] Khatami erano quasi tollerati; ora vengono espulsi dalle università e i membri vengono incarcerati.” Esattamente come in Iraq ai tempi delle sanzioni, maggiore è la pressione internazionale sotto la quale si trova il governo, più questo può giustificare la repressione interna, come un mezzo per “compattare il fronte interno”.
Mentre siamo seduti a bere il tè, chiedo allo studente se è spaventato. Con un gran sorriso, risponde: “Non abbiamo paura - abbiamo speranza, e sono ancora giovane. Ho ancora tanto tempo da passare in prigione.”
Per molti iraniani, la rivoluzione ha preso una piega assai orwelliana. Una rivoluzione iniziata con il rovesciamento di un re corrotto e tirannico ha prodotto un regime la cui priorità è imporre regole sul vestiario, mentre i tamburi di guerra battono sempre più forte e l’inflazione arriva oltre il 10%.
Vado con Ali, appassionato di storia, al palazzo del vecchio Shah. Lo sfarzo ottocentesco non potrebbe essere più agli antipodi della spoglia moschea dove l’Ayatollah Khomeini viveva, predicava, e governava dopo la rivoluzione. “All’inizio, erano puritani”, dice Ali. “Dicevano che l’elettricità e il carburante sarebbero stati gratis. Erano persone molto semplici, per questo la gente li amava. Ora, se dici qualsiasi cosa contro il governo, sei contro Allah e il Corano.
“Quando vedo i vecchi video di Farah [la moglie dello Shah] che visita un villaggio, la gente si comporta nello stesso modo adesso con Khamenei, con salti e canti. Dovremmo smettere di adorare i potenti.”
Durante il mio soggiorno in Iran, ho incontrato Kamal, Reza, e Sultan, che erano giovani al tempo della rivoluzione. Le loro vite, come quelle di molti iraniani, sono state decise dagli eventi di quella primavera del 1978.
Su una montagna che domina la città di Shiraz, dove è sepolto il grande poeta iraniano Hafez, c’è un piccolo ristorante dentro una grande tenda in stile turcmeno. E’ qui che incontro Kamal. Con il gran baffo bianco, pantaloni neri, camicia nera, e giacca lunga e, ovviamente, nera, sembra un burocrate russo uscito da un romanzo di Pushkin. E’ a lutto per la morte di un cugino, spiega.
Verso la metà degli anni 70, Kamal studiava a Perugia, in Italia. Essendo di sinistra, si dava da fare nelle file dell’opposizione iraniana, partecipando a manifestazioni davanti all’ambasciata iraniana, e contestando i funzionari governativi iraniani in visita in Italia. “Lo Shah era un assassino”, dice, “era un pessimo governo.”
E allora, perché è tornato? “Perché il mio Paese aveva bisogno di me. C’era molto da fare, la rivoluzione stava iniziando. Quando ci fu finalmente la rivoluzione, noi studenti iraniani in Italia morivamo di fame, non c’erano soldi che arrivassero dall’Iran, mangiavamo uccelli – catturavamo i piccioni e li mangiavamo. Ma sapevo che sarei dovuto tornare.”
Gli chiedo della situazione dell’epoca – doveva essere un vero caos con l’ondata improvvisa dei fondamentalisti islamici, progressisti, comunisti, nazionalisti, e democratici. Era stato un sostenitore di Khomeini? “All’inizio non c’erano fondamentalisti islamici – vennero più tardi e presero il controllo del Paese. Iniziarono a incarcerarci e a farci quello che lo Shah ci faceva prima.”
Come molti altri idealisti delusi, Kamal restò a guardare la rivoluzione scivolare via. Dopo aver combattuto per due anni la guerra contro l’Iraq, nelle paludi del sud dell’Iraq, andò a lavorare come muratore in Giappone, nel tentativo di evitare una ondata repressiva contro i progressisti. “Mi piace Allah, ma mi piace anche la birra”, mi dice allegramente. “Se vuoi pregare in piedi, fallo, se vuoi pregare seduto, siediti. Ognuno dovrebbe avere la propria libertà finché non si invade quella altrui. Qui la rivoluzione è stata monopolizzata dalla religione. Ho visto persone molto meno qualificate di me superarmi solo perché erano religiose.”
Reza, invece, è vestito secondo l’abbigliamento ufficiale rivoluzionario iraniano: un completo grigio di poco prezzo, camicia bianca senza cravatta, capelli corti e curati, e una barba sottile. Ha un sorriso affascinante, ma anche una brutta tosse. Gli chiedo di come si vive a Tehran. “Khob neest [non bene]”, dice. “Questo governo non va bene”.
Questa non me l’aspettavo: una persona evidentemente religiosa e filo-governativa che critica il governo. Reza continua: “Guarda gli hijab per strada: non va bene, è troppo permissivo; le donne stanno dimenticando i valori islamici, e questo governo non fa niente. E l’economia non va bene: i prezzi sono troppo alti, e ci sono troppi mustazafin [parola araba che significa i deboli, gli oppressi, e di cui la rivoluzione si è appropriata per indicare i poveri].”
Era meglio con Khatami? “No, no, Khatami non andava bene: con lui, gli hijab erano pessimi, la rivoluzione era andata perduta. Ma l’economia funzionava meglio. Ora Ahmadinejad sta cercando di mettere le cose a posto. Sta facendo leggi a favore dei lavoratori, e che diano più soldi ai mustazafin.”
Batte la mano sul petto, e dice: “Gas chimico, Halabja”. Reza è stato colpito dal gas quando gli iracheni utilizzarono armi chimiche contro le forze kurde e quelle iraniane nella cittadina di Halabja, nel 1988. Poi dà un colpo alla gamba destra, e il suono che esce è metallico: nella stessa battaglia, ha perso l’arto.
La storia di Reza è tipica della prima generazione di rivoluzionari iraniani. Nel 1978 entra nella milizia islamica; a 17 anni gira per strada per imporre l’ordine; due anni dopo si offre volontario per andare in prima linea a combattere gli iracheni. “Ho fatto 63 mesi di guerra”, dice. In Iran, gli uomini dovevano prestare servizio solo per 24 mesi, a meno che non si offrissero volontari per combattere ancora, mentre in Iraq erano obbligati a rimanere per tutta la durata della guerra.
La cosa più importante è Twakul ala Allah”, dice, “avere fede in Dio e negli imam.”
Gli dico che ciò è esattamente quello che dicono i combattenti Hezbollah in Libano. “Lo so”, dice Reza con un gran sorriso. “Ero lì, nel 1982. Ci offrimmo volontari per andare in Libano a combattere Israele. Abbiamo addestrato gli Hezbollah, e sono rimasto due anni nella Beqa’a. Poi, quando i nostri fratelli erano forti, ce ne siamo andati e siamo tornati in Iran per continuare a combattere contro Saddam.”
Diventa più riflessivo. “Sai, dopo la guerra sono andato in Iraq per un pellegrinaggio, a visitare i santuari di Karbala e Najaf. Gli iracheni sono come gli iraniani – nessuna differenza – ma le guerre fanno la differenza. La guerra è stata terribile, ma la vita in Iran era migliore durante la guerra. La religione era forte, tutti pregavano, e c’era iethar [spirito di sacrificio].
Sultan si ferma e ci dà un passaggio nella sua vecchia Renault scassata mentre torniamo a piedi da un parco nella zona nord di Tehran. “Mica li trovi i taxi qui”, ci spiega. “Vi lascio al primo incrocio principale.” Ha quasi 70 anni, e un look alla Einstein, con capelli banchi messi in disordine. E’ in perfetta sintonia con la sua macchina. Afferra il volante, il viso vicino al parabrezza rotto.
Aveva vissuto a Tehran quando c’era Khomeini? La casa e la moschea dove Khomeini passava i suoi giorni dopo la rivoluzione sono a poche strade di distanza. “Imam, pfff, quale imam?”, dice Sultan con disprezzo mentre accosta.
Sono scioccato – non avevo sentito nessuno dire nulla contro il venerato Imam; neppure Kamal, il progressista, aveva osato criticarlo.
“L’Imam ha distrutto la mia vita, la mia famiglia, e la mia carriera”. Siamo arrivati all’incrocio principale, ma Sultan continua a parlare. “Lavoravo negli uffici delle linee aeree iraniane nel Regno Unito. Ho vissuto lì due volte: a Londra e a Eastbourne.”
La madre di Sultan era una parente della regina, mi dice, e suo padre un aristocratico. Per molto tempo la famiglia aveva vissuto una vita agiata: molte case sparse nella zona nord di Tehran, buone opportunità di lavoro, e amicizie influenti. Con la rivoluzione, tutto finito. “Dopo la rivoluzione, confiscarono tutte le nostre proprietà e dissero che erano per i mustazafin.”, dice Sultan. “E ora il mustazafin sono io, ma non mi danno niente. Mi hanno obbligato ad andare in guerra. Proprio alla fine della guerra, in Kurdistan – a Halabja – una bomba mi cadde vicino, e una scheggia metallica mi entrò qui” - si indica il fianco. La gamba era orribilmente storta. “Non posso camminare e non posso dormire”.
Penso a Reza e che in qualche modo le guerre sono democratiche nella scelta delle loro vittime: il figlio della rivoluzione e il suo nemico, colpiti alla gamba nella stessa battaglia. Si conoscevano? Erano stati compagni di reparto in ospedale? Avevano parlato della rivoluzione e dell’Imam?
“Dopo la guerra, mi licenziarono dal lavoro”, continua Sultan “Mi dissero: ‘Sei uno dello Shah, vattene’. E ora arriva il signor Ahmadinejad, e i prezzi crescono del 200%, 300%. E io che faccio? Sono stanco di questa vita.”
Prima della rivoluzione, dice Sultan, le ragazze andavano in giro “con gonne lunghe così” - e si indica l’inizio coscia. “Camminavano per strada e nessuno diceva niente. Camminavi cento metri e c’era un bar o un night. Tehran era come Parigi. Poi sono arrivati i mullah, e la vita è finita”. Parla come se fosse ieri.
“Tu di dove sei?”, mi chiede
Esito, quanto vorrei, per la prima volta in vita mia, poter dire di essere inglese o qualcosa del genere. Pronuncio sottovoce il nome del Paese che gli ha rovinato la gamba.
“Iracheno?” Indietreggia sul sedile, con un gran sorriso sul volto. “Davvero? Iracheno? O mio Dio, è brutto quello che sta succedendo al tuo Paese. Mi dispiace. Saddam non c’è più, ma ora ce ne sono altre centinaia uguali a lui. Gli sciiti come me fra un po’ si prendono il governo e diventate un altro Iran. Mi dispiace. Mi dispiace davvero.”
Bisogna ammettere che l’educazione degli iraniani è fuori dal comune.
Nel cimitero di guerra di Behesht Zahra, mi ero fermato di fronte a una tomba per scrivere nel mio taccuino. Rialzato lo sguardo, avevo visto nella scatolina simile a un altare una foto del martire barbuto. Mi guardava dritto negli occhi. Mi ero spostato, e il martire si era spostato con me. Qualche passo indietro, e il mio cuore si era praticamente fermato: stavo fissando la mia immagine riflessa in uno specchio.
The Guardian
(Traduzione di Tommaso Giordani per Osservatorio Iraq)
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