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Ultime notizie dal mondo

di redazionale - 12/12/2008

 

a) USA / Africa. Alla Cina che accresce la propria penetrazione nel Continente nero (1), gli Stati Uniti hanno risposto con la creazione del comando militare Africom (1), che coinvolge anche l’Italia (30). Secondo alcuni analisti sarà proprio in Africa che Washington proverà a riaffermare la propria egemonia globale: si auspica che, bloccando i rifornimenti africani di materie prime ed energia, si spinga Pechino a dirottare le proprie attenzioni sull’Asia Centrale, intromettendosi pesantemente nella sfera d’influenza di Mosca (1): e tra i due litiganti….. L’elezione del “democratico” e “nero” Obama (4, 6) non sembra dunque destinata a portare pace in  un continente che negli ultimi secoli è stato devastato dagli appetiti dalle grandi potenze (2).

 

b) Russia. Missili a Kaliningrad (5, 9, 14) in risposta allo “scudo” USA, riforma del sistema finanziario mondiale (5), intese economico-politiche con Pechino (7), pressioni sull’Unione Europea (13), progetti per una base militare in Abkhazia (15): Mosca continua a farsi sentire sulla scena internazionale, ricevendo sostegni sicuramente interessati come quello di Berlusconi (12). Intanto perfino l’OCSE dà ragione alla Russia sulla dinamica della guerra in Ossezia (8).

 

c) Afghanistan. Mentre Roma, che lamenta mancanza di fondi quando si parla di spesa sociale, manda velivoli militari per rafforzare la sua dotazione in Afghanistan agli ordini di Washington (24), fuori dalla capitale e dalle principali città del Paese –dove l’autorità del governo Karzai è puntellata della NATO– i talebani dettano legge (12, 25). E addirittura il fantoccio Karzai chiede la fine dell’occupazione (26).

 

 

Sparse ma significative:

 

  • India. Primi commenti sull’attentato di Mumbai. C’è chi vi intravede la mano di servizi segreti stranieri (29, 30). 

 

  • Palestina. La candidata premier israeliana Livni ribadisce ad Obama: «ci pensiamo noi ai palestinesi» (14). Cosa significa lo mostra l’attualità. Nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, la Striscia di Gaza, procede nel silenzio massmediatico l’embargo umanitario israeliano nei confronti della popolazione palestinese (18). Indignazione e sgomento verso la guerra permanente israeliana esprime anche l’ebrea italiana Paola Canarutto (30).

 

 

Tra l’altro:

 

  • Francia (2, 14 e 26 novembre)
  • Iran (9, 21, 24, 26, 27, 28 e 29 novembre)
  • Ucraina (13 e 14 novembre)
  • Paraguay (13 e 23 novembre)
  • Bolivia (14 novembre)

 

  • Cina / Africa. 1 novembre. Alla conquista del Continente nero. Così come per l’imperialismo USA ed il colonialismo francese, anche per la Cina “comunista” l’Africa si configura come serbatoio di risorse e manodopera a basso costo e mercato di sbocco per le proprie merci. Il volume degli scambi commerciali è cresciuto nel periodo 2000-2006 a un ritmo del 33% annuo, e per il 2008 è prevista un’ulteriore impennata. Nel 2006 le esportazioni cinesi in Africa hanno raggiunto il valore di 22,9 miliardi di dollari, facendo della Cina il secondo partner commerciale del continente dopo gli USA. Le importazioni in Cina nello stesso anno sono state di 2,9 miliardi di dollari di valore, costituite principalmente da petrolio e gas naturale (62%), minerali (17%) e materie prime agricole (7%). Nelle esportazioni un ruolo di spicco lo rivestono piccole e medie imprese cinesi, sulla spinta della politica del Plenum del Partito Comunista Cinese che già ai tempi del decimo piano quinquennale (2001-2005) proclamava la volontà di favorire la crescita di gruppi industriali competitivi nel mercato internazionale. L’esplorazione di risorse è affidata invece a poche grandi imprese statali appoggiate dal governo centrale. Attualmente un terzo delle importazioni di petrolio in Cina proviene dall'Africa, con in testa fornitori quali Angola, Sudan, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale e Nigeria. Fra le maggiori compagnie cinesi che operano nel campo delle risorse naturali, la CNPC ha investimenti in otto paesi africani, con prevalenza in Sudan; SINOPEC investe in petrolio e gas in sei paesi; CNOOC ha recentemente firmato un accordo da 2,3 miliardi di dollari per l'acquisto del 45% del pozzo di Akpo in Nigeria, e un contratto per lo sfruttamento di un pozzo al largo della Guinea Equatoriale.

 

  • Cina / Africa. 1 novembre. Dopo essersi lasciata alle spalle Francia e Inghilterra, la Cina intende scalzare anche gli Stati Uniti e diventare il primo partner economico del continente nero. Dalle ricchezze minerarie del Congo al controllo del petrolio in Sudan, Angola, Gabon e Guinea Equatoriale, allo sfruttamento di buona parte del legname del Mozambico, al monopolio sull’estrazione del rame dello Zambia, è senza freni l’appetito cinese. La strategia di Pechino sembra basarsi sulla creazione di Stati vassalli legati da rapporti di dipendenza e da assumere sotto la propria benevola protezione. Sudan, Zimbabwe e Nigeria hanno stretto alleanze militari con Pechino e se i regimi dei primi due paesi sono ancora in sella nonostante le condanne internazionali è solo perché Hu Jintao e compagni continuano a bloccare ogni iniziativa volta a neutralizzarli. Pechino comunque non bada a spese, almeno per il momento. Invece dell’austerità economica veicolata dall’FMI, la Cina offre consistenti crediti e prestiti a tassi agevolati, costruzione di infrastrutture, annullamento dei debiti. Insomma, il confronto Washington-Pechino lo sta vincendo quest’ultimo in virtù di politiche più efficaci: meno interesse al piano politico e del dominio, molto più pragmatismo economico e finanziario. La Cina ottiene così in cambio il via libera per installare uomini e mezzi. I cinesi si portano infatti tutto da casa: macchinari, know-how, supervisori, tecnici, a volte persino manodopera non qualificata. Costruiscono le loro scuole, i loro ospedali, i loro centri commerciali, piantando le loro bandiere come se si trattasse di un terreno vergine.

 

  • Cina / Africa. 1 novembre. Ovviamente la merce più ricercata da un paese affamato d’energia è il petrolio. Nel 2006 le aziende cinesi controllavano già il 9% di tutto il greggio africano e lo utilizzavano per soddisfare un terzo dei propri consumi. Molto spesso la valuta più apprezzata per l’acquisto dell’oro nero sono le armi. Pechino avrebbe infatti conquistato il controllo del 60% del petrolio del Sudan fornendo armi al regime di Khartoum. E ad aprile di quest’anno ha inviato al despota dello Zimbabwe Robert Mugabe una nave piena di armi, bloccata solo da una denuncia dei lavoratori portuali sudafricani. In Zambia Michael Sata, il leader dell'opposizione, che proprio ieri ha accusato il governo di Lusaka di aver truccato le presidenziali per impedire la sua elezione, da tempo denuncia l’invasione cinese e la spoliazione degli immensi giacimenti che fanno dello Zambia il maggior produttore di rame. «I cinesi vengono qui non per investire, ma per invaderci, portano idraulici, muratori, carpentieri e ai lavoratori dello Zambia resta solo il lavoro più pericoloso, più degradante, il lavoro pagato con salari da schiavitù». La conquista del rame di Lusaka è iniziata con la promessa di cancellare il credito di Pechino e di creare all’interno della cosiddetta “cintura del rame” una moderna zona di sviluppo economico dotata d’infrastrutture sportive, scuole, ospedali e un centro di cura per la malaria. In cambio di quegli investimenti Pechino ha di fatto assunto il totale controllo della zona e delle sue miniere. La “cintura del rame” si è così trasformata in un territorio d’oltremare dove valgono solo i regolamenti e i metodi di lavoro imposti dalle nuove aziende colonizzatrici. E dove i caduti sul lavoro sono irrilevanti incidenti di percorso. A Chambishi nessun operaio ha dimenticato la cinica indifferenza dei nuovi padroni di Pechino di fronte alle 54 vittime rimaste sepolte sotto le macerie di una fabbrica di esplosivi cinesi saltata in aria nel 2005. «In Cina per cinquemila morti nessuno manco si volta, qui per 54 vittime tutti piangono», spiegarono i dirigenti.

 

  • USA / Cina / Africa. 1 novembre. Il contrasto dell’espansione cinese in Africa sarà una priorità strategica per la prossima amministrazione USA. Bush lascerà in eredità al suo successore la creazione del comando militare AFRICOM, pienamente operativo dal 1 ottobre 2008, un consorzio di tutte le branche militari e di difesa statunitense, pubbliche e private (come i famigerati “contractors”, società come Blackwater, DynCorp, MPRI), un comando composto anche da esperti del tesoro, del dipartimento di Stato, del commercio estero. La sua funzione dichiarata è coordinare le relazioni militari con 53 nazioni africane ma la sua missione è anche economica e diplomatica. Obiettivo: contenere l’espansione cinese in Africa, economicamente e militarmente. In precedenza, le attività militari statunitensi erano condotte da tre comandi separati: il Comando Europeo, che si occupava di gran parte del continente; il Comando Centrale, che copriva l’Egitto e la regione del corno d’Africa, insieme al Medio Oriente e all’Asia centrale; e il Comando del Pacifico, che sovrintendeva alle operazioni in Madagascar e nelle isole dell’Oceano Indiano. Nessuno di questi comandi si occupava esclusivamente dell’Africa, poiché il continente nero era considerato una regione di scarsa importanza strategica, sia durante la guerra fredda che nel decennio successivo.

 

  • USA / Cina / Africa. 1 novembre. In un discorso all'International Peace Operations Association (Associazione per le Operazioni di Pace Internazionali) tenuto a Washington il 27 ottobre, il Comandante di AFRICOM Generale Kip Ward ha così definito la missione del comando: condurre, «di concerto con altri organi governativi degli Stati Uniti e con i partner internazionali, (…) programmi di cooperazione militare, attività promosse dall'esercito e altre operazioni militari dirette a favorire un ambiente africano stabile e sicuro a sostegno della politica estera statunitense». Come dichiarano apertamente diverse fonti di Washington, l'AFRICOM è stato creato per contrastare la crescente presenza della Cina nel Continente nero. Peter Pham, consulente per i Dipartimenti di Stato e della Difesa degli Stati Uniti, ha dichiarato che tra gli scopi del nuovo AFRICOM c'è quello di «proteggere l'accesso agli idrocarburi e ad altre risorse strategiche che l'Africa possiede in grande abbondanza (...) compito che prevede la salvaguardia dalla vulnerabilità di quelle ricchezze naturali e far sì che terze parti come la Cina, l'India, il Giappone o la Russia non ottengano monopoli o trattamenti preferenziali».

 

  • USA / Cina / Africa. 1 novembre. Nella sua testimonianza (2007) al Congresso a favore della creazione di AFRICOM, Pham, strettamente legato alla neo-conservatrice Foundation for Defense of Democracies (“Fondazione per la Difesa delle Democrazie”), ha dichiarato: «Questa ricchezza naturale rende l’Africa un obiettivo allettante per la Repubblica Popolare Cinese, la cui economia, che ha registrato una crescita media annua del 9% negli ultimi vent'anni, ha una sete quasi insaziabile di petrolio e una necessità di altre risorse naturali per sostenerla. La Cina sta attualmente importando 2,6 milioni di barili di greggio al giorno, circa la metà del suo consumo; più di 765.000 di quei barili –all'incirca un terzo delle sue importazioni– vengono da fonti africane, soprattutto il Sudan, l'Angola e il Congo (Brazzaville) (…) Lo scorso anno il regime cinese ha pubblicato il primo libro bianco ufficiale in cui si elaboravano le linee guida della sua politica africana. Quest'anno prima del suo tour di dodici giorni in otto nazioni africane –il terzo viaggio di questo tipo da quando ha assunto l'incarico, nel 2003– il presidente cinese Hu Jintao ha annunciato un programma triennale da 3 miliardi di dollari in prestiti preferenziali e vasti aiuti per l'Africa. Questi stanziamenti si aggiungono ai 3 miliardi in prestiti e i 2 miliardi in crediti all'esportazione annunciati da Hu nell'ottobre del 2006 all'apertura dello storico summit di Pechino del Forum China-Africa Cooperation che ha portato nella capitale cinese quasi cinquanta capi di Stato e ministri africani (…) Molti analisti si aspettano che l'Africa –soprattutto gli Stati della costa occidentale, ricca di petrolio– diventi sempre più un teatro di competizione strategica tra gli Stati Uniti e il loro unico vero concorrente quasi alla pari sulla scena mondiale, la Cina».

 

  • USA / Cina / Africa. 1 novembre. Occhio dunque all’Africa. È presumibile che proprio qui si concentrerà la strategia della futura presidenza Obama. Secondo alcuni analisti, l’elezione di Obama l’Africano consentirebbe, donando al mondo un’immagine degli Stati Uniti di faro democratico e luogo di accoglienza e tolleranza (capace di far dimenticare il disastro Bush), di dare piena copertura politica a un vasto piano strategico volto a disgregare le potenze della Cina e della Russia. Non dimentichiamoci che uno dei più ascoltati consulenti di Obama è Zbigniew Brzezinski, fondatore della Trilateral Commission ed ex consulente per la sicurezza nazionale sotto la presidenza Carter, che in diversi suoi libri, il più significativo dei quali può essere considerato “The Grand Chessboard” (1977) sosteneva che la priorità per gli Stati Uniti debba essere prendere il controllo del “cuore” dell’“Eurasia”, in particolar modo delle risorse energetiche dell’Asia Centrale. Secondo alcune fonti, la sua strategia si concentrerebbe sul ricercare un accordo con Teheran (il cui isolamento è un vantaggio non indifferente per Mosca, dato che con le ricche riserve di gas iraniano fuori mercato la Russia può esercitare pressione in Europa, creando anche forti divisioni all’interno della NATO) per ricomprenderla in un’alleanza antirussa e anticinese (oltre che respingere il rafforzamento dei talebani in Afghanistan, che anche non è vista di buon occhio) e soprattutto sullo scacciare i cinesi dalla presa sulle risorse africane. Le tensioni e guerre in Congo, Sudan e Zimbabwe, nonché nel Corno d’Africa, a prescindere dal merito, sono da collegare alla conflittualità globale USA-Cina. Per tali circoli strategici USA, una sconfitta della Cina in Africa costringerebbe Pechino a concentrarsi sull’Asia centrale per l’accaparramento di risorse. Questo la porrebbe però in forte conflittualità con Mosca, facendo paventare addirittura l’affondamento dell’Organizzazione di Shanghai (Shanghai Cooperation Organisation, SCO), l’organizzazione intergovernativa per la cooperazione economica e la sicurezza fondata il 14 giugno 2001 dai capi di stato di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Russia e appunto Cina. Il Continente africano sarà dunque, assieme al Medio Oriente e all’Asia centrale, il principale terreno di confronto con l’antagonista imperialista cinese. In questo confronto gli Stati Uniti si affideranno sul piano dell’immaginario ad Obama, avvertito e salutato in Africa come uno di loro, un uomo in cui si ripongono aspettative di riscatto ma che in realtà servirà a dare copertura ad ulteriori guerre e massacri.

 

  • USA / Cina / Africa. 1 novembre. Nell’ottobre 2007, l’allora senatore Obama sosteneva che l’Africom «dovrebbe servire a coordinare e sincronizzare le nostre attività militari con i nostri altri obiettivi strategici in Africa. (…) Ci saranno situazioni in cui gli Stati Uniti dovranno lavorare insieme ai loro partner africani per combattere il terrorismo. (…) Avere un comando unificato in Africa faciliterà questa azione». Queste dichiarazioni, insieme a quelle sul bisogno di intensificare lo sforzo militare in Afghanistan e sul diritto da parte degli USA di attaccare militarmente i gruppi di presunti terroristi in Pakistan, dimostrano che Obama è convinto della necessità di una “guerra globale al terrorismo”. È quindi probabile che la nuova amministrazione prosegua il complesso delle operazioni militari in Africa, inclusa l’ingerenza nella politica interna dei vari paesi e l’uso di truppe statunitensi per intervenire nei conflitti del continente. Tuttavia alcuni membri del Congresso USA stanno esaminando minuziosamente l’operazione Africom e sembrano piuttosto scettici sulla sua missione e sulle sue operazioni, appoggiate da grandi gruppi industriali e compagnie petrolifere, oltre che dal Pentagono. Inoltre, esiste un’estesa campagna contro il nuovo comando militare (Resist Africom Campaign), nata dall’unione di diverse organizzazioni e individui in Africa e negli Stati Uniti. Secondo questo movimento di opposizione, l’Africom mira a soddisfare gli interessi capitalistici USA senza considerare gli effetti della sua presenza sulla popolazione africana. Ad esempio, una delle funzioni primarie del comando consiste nell’addestrare ed equipaggiare nuove truppe di soldati africani, quando già in passato queste operazioni, che comportano un grande afflusso di armi, hanno reso possibili devastazioni e violenze.

 

  • Francia / Africa. 2 novembre. Riunione a Quebec dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia (OIF), che riunisce trentatre Stati africani. L’influenza culturale è una delle armi con cui Parigi prova a mantenere nella sua orbita le proprie ex colonie africane, anche se viene fatto notare come, nonostante gli sforzi erogati, solo il 15% della popolazione di questi Stati parla francese, dato che corrobora l’idea per cui l’idea stessa di “Francofonia” è più un progetto tendente a legare a sé determinate elites politiche locali che non l’insieme della popolazione. L’Africa rimane al centro degli interessi capitalistici di Parigi. Determinate materie prime estratte nel continente africano sono imprescindibili per mantenere la capacità industriale dello Stato francese, così come il mercato africano è sbocco di prima importanza delle merci francesi e dei propri investimenti diretti. La Francia ha fronteggiato le lotte per l’autodeterminazione degli Stati africani adottando una strategia volta a mantenere la dipendenza economica, politica e militare delle sue ex colonie verso Parigi. Vari accordi di cooperazione monetaria le hanno permesso di controllare ferreamente la politica finanziaria e monetaria delle sue ex colonie africane. In ambito militare lo Stato francese, sempre attraverso accordi di cooperazione bilaterali, spesso segreti ed ancora in vigore, hanno fornito assistenza militare ai propri “alleati”/subalterni, non mancando di intervenire direttamente se le circostanze lo richiedessero. Dal 1962 si sono registrate circa venti interventi militari francesi in Africa (ricordiamo ad esempio quello in appoggio al dittatore dello Zaire Mobutu Sese Seko), ovviamente a sostegno di dirigenti africani «amici di Parigi» o semplicemente per difendere i propri interessi capitalistici. Parigi mantiene inoltre una presenza militare di più di 12.000 effettivi, dislocati tra Gibuti, Ciad, Repubblica Centroafricana e Costa d’Avorio.

 

  • Iraq. 3 novembre. Le elezioni USA non riscuotono interesse a Baghdad. Per gli iracheni, la scelta tra Obama e Mc Cain è un evento che sembra tra i più lontani. L’agenzia di stampa Apcom ha rilevato che sulla stampa non è apparso alcun titolo, se non dei trafiletti nelle pagine interne. Tra i politici, silenzio assoluto. In tv neanche un servizio, se non alcune notizie d'agenzia. Afferma Khalid, un giovane venditore di succo di melograno nel bazar di al Shorjah: «che importanza ha per noi chi vince tra questi due (…) entrambi i candidati seguiranno la stessa linea che è quella di sfruttare le risorse del nostro Paese».

 

  • USA. 4 novembre. Il senatore Barack Obama è diventato il 44° presidente USA, il primo afroamericano (figlio di una americana bianca del Kansas e di un nero africano del Kenya). Egli ha ottenuto una percentuale del 52%, pari a 62 milioni di voti, contro i 55 del rivale repubblicano, il senatore John McCain. Si tratta di una vittoria che non è esagerato definire epocale: nel secondo dopoguerra solo Lyndon Johnson, nel 1964 (probabilmente anche sfruttando l’ondata emotiva dell’assassinio di John Kennedy) aveva fatto meglio.

 

  • Russia. 5 novembre. Missili a Kaliningrad (l’enclave russa a cavallo tra Lituania e Polonia) contro lo scudo antimissile USA. È questo il “messaggio di benvenuto” che il presidente russo Medvedev indirizza al neo presidente statunitense Barack Obama. Secondo l’ambasciatore russo alla NATO Dmitry Rogozin, lo schieramento di missili Iskander a Kaliningrad renderebbe inefficace lo “scudo” USA in Europa centrale. La risposta russa allo scudo statunitense sarà «poco costosa ed efficace», ha affermato Rogozin. Lo schieramento dei missili Iskander, capaci di essere dotati anche di testate nucleari, permetterebbe alla Russia di tenere sotto tiro l'intero territorio della Polonia e della Lituania, nonché parte della Germania e della Repubblica Ceca. 

 

  • Russia. 5 novembre. Mosca chiede una riforma del sistema finanziario mondiale. Il Presidente russo Medvedev lancia una radicale riforma del sistema finanziario sulla base di "principi" diversi. «In primo luogo, occorre aumentare i poteri delle istituzioni finanziarie mondiali, cioè rafforzare le basi legislative delle loro attività», afferma nel corso della riunione di preparazione al vertice del G20 di Washington, «un processo che deve derivare da un’intesa tra Stati. In secondo luogo occorre stabilizzare il sistema finanziario internazionale moltiplicando le valute di riserva ed i centri finanziari mondiali. Infine il sistema di gestione dei rischi deve essere regolamentato da norme internazionali. Mi riferisco, dunque ad un sistema armonizzato, diverso da quello che esiste attualmente», ha precisato il Presidente russo. Questi dunque propone di elaborare norme uniche ed applicabili in ogni Paese indipendentemente dalle leggi che disciplinano le economie nazionali, accanto all'emanazione di norme di comportamento del mercato finanziario mondiale. Ritiene inoltre che il rafforzamento dei centri finanziari consente di elevare sempre più l'interdipendenza generale, che sarà la forza dei mercati emergenti e l’agente assicurativo contro i rischi dell'espansione del mercato finanziario di ogni economia. «Qualsiasi paese deve adottare un comportamento onesto, adeguato, ponderato e motivato. Certamente, la formazione di un nuovo sistema finanziario internazionale richiederà anni, ma dobbiamo cominciare immediatamente», afferma Medvedev

 

  • Russia. 5 novembre. Dinanzi al divampare della crisi finanziaria anche nell’economia russa, il Presidente Dmitri Medvedev ha chiesto l'immediata applicazione di misure per stabilizzare l'impatto della crisi finanziaria mondiale sulla Russia. Un pacchetto di norme volte a ridurre al massimo le conseguenze della crisi in Russia, a risanare il sistema bancario e a sostenere alcuni settori dell'economia, sbloccando lo stesso apparato burocratico al fine di far arrivare i fondi richiesti alle piccole attività economiche operanti nel settore agricolo, delle costruzioni meccaniche, dell'edilizia e delle società d'armamento. Allo stesso tempo, chiede alle istituzioni finanziarie russe di accelerare il passaggio al rublo nel pagamento delle esportazioni di petrolio e di gas, al fine di rafforzare il ruolo della valuta nazionale come moneta di regolamento degli scambi a livello internazionale. Inoltre, chiede di incentivare la collocazione dei nuovi titoli d'emissione denominati in rubli sia sul mercato russo che all'estero, in maniera tale da fare della valuta un punto di riferimento all'interno del mercato regionale.

 

  • Russia. 5 novembre. «Siamo pronti ad apportare il nostro contributo, non soltanto intellettuale ma anche materiale grazie alle riserve finanziarie che la Russia ha accumulato». Lo ha affermato il capo della diplomazia russa Sergei Lavrov, in visita a Tokio. Secondo Lavrov la Russia dispone di riserve di valute dal volume comparabile a quelle del fondo monetario internazionale (FMI), che Mosca non mancherà di far pesare politicamente. Lavrov ha aggiunto che una massa impressionante di risorse finanziarie è concentrata oggi nelle mani dei Governi dell’emisfero orientale del mondo, e questo pone la regione fra i principali attori della Comunità internazionale per riformare l’architettura finanziaria mondiale. Sono segnali che Mosca intende rafforzare il suo ruolo in campo internazionale ed arrivare ad un accordo con gli Stati Uniti volto a stabilire un nuovo ordine non solo economico, ma anche politico con la divisione delle proprie “sfere d’influenza” (dai Balcani al Vicino Oriente, dal Caucaso al Mediterraneo, all’Asia centrale).

 

  • USA. 6 novembre. Si chiudono le urne negli USA e si accendono i riflettori sul nuovo Presidente Barack Obama. Molte le speranze suscitate in tutto il mondo dall’elezione del primo presidente “nero”. In Kenya, il paese di origine della famiglia di Barack è in festa e la gente balla e canta per le strade. Circola un'euforia incontrastata per le speranze che Obama presidente significhi l’avvento di politiche 'illuminate' in America e nel mondo. Viva Obama, il mondo cambierà, è il coro.
  • Ma la domanda sorge spontanea: che farà in concreto Obama? Ritirerà le truppe dall’Iraq (un ritiro vero, non la farsa del richiamo di truppe spicciole lasciando però sul terreno le più sofisticate basi militari USA al mondo) e dall’Afghanistan? Lascerà libero il Medioriente? Ritirerà il proprio sostegno agli eccidi israeliani in Palestina? Abolirà l’embargo economico contro Cuba? Porrà fine alla repressione in Colombia ed ai progetti di destabilizzazione dell’America Latina? Rivedrà gli accordi di libero scambio commerciale che stanno uccidendo masse di posti di lavoro negli USA mentre creano posti di lavoro da schiavi nei Paesi aderenti? Provvederà a demilitarizzare gli USA e le altre nazioni colonizzate? Rispetterà le regole del Trattato di Non proliferazione nucleare, della convenzione sulle armi chimiche, eccetera, o delle Convenzioni di Ginevra e dell'Habeas Corpus? Porrà un argine al dominio delle multinazionali USA? Proverà a creare un sistema finanziario funzionale alla produzione sociale, combattendo l’avidità di Wall Street e l’esplosione della finanza speculativa fuori controllo che tiene oggi tutto il Pianeta sotto la spada di Damocle di 540 mila miliardi di dollari in prodotti derivati? Limiterà l’estensione del diritto alla proprietà sugli organismi viventi? Prenderà seri provvedimenti contro gli OGM e gli “agro-combustibili” e per la salvaguardia dell’ecosistema? Annullerà le ristrettissime norme liberticide “anti-terrorismo” varate sotto le amministrazioni Bush? Si impegnerà per la garanzia della sovranità alimentare? Si dedicherà allo sviluppo e alla distribuzione di energia rinnovabile non inquinante? Si adopererà per la realizzazione di un sistema fiscale più giusto? Ridurrà il budget per la difesa, che rimane di 700 miliardi di dollari l'anno? Combatterà l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e la sempre crescente povertà (scandalosa per il Paese più ricco del mondo) negli USA? Restituirà protezione ai 44 milioni di cittadini statunitensi che invocano un sistema sanitario nazionale gratuito basato sulla tassazione pubblica? Un’attenta lettura del suo programma, dalla sanità alla politica estera, dall'economia alla scuola, sono una serie di proclami talmente generici da lasciare un senso di vuoto e molti interrogativi.

 

 

  • USA. 6 novembre. Non possiamo rimuovere il dato che è stato eletto un presidente degli Stati Uniti d'America, che è la potenza imperialista dominante in guerra permanente –sui fronti militari, economici e diplomatici– per la propria sopravvivenza come tale. Dalla fine della Guerra Fredda e dalla dissoluzione dell’URSS gli USA sono rimasti sul palcoscenico internazionale come l’unica superpotenza e la loro supremazia si è più volte tradotta in una puntuale tutela dei propri interessi strategici e nell’ostacolare l’emergere di possibili antagonisti imperialisti come la Russia e la Cina, anche prendendo scelte meno condivise con gli “alleati” / subalterni, a differenza di quanto accadeva all’epoca del conflitto est-ovest. L’unilateralismo non è nato con Bush jr.: fu l’ex negoziatore clintoniano degli accordi di Dayton, Richard Holbrooke, a dire che sin dai tempi di Roosevelt gli USA avevano agito in modo multilaterale quando possibile e unilaterale quando necessario. Obama con i neri d’America, col loro colore, stile di vita, linguaggio e condizione sociale ha ben poco in comune. Appartiene a quel Partito Democratico che storicamente ha rappresentato la continuità dell'imperialismo all'estero e della guerra ai poveri interna propria dei Repubblicani. Basti pensare alla politica del mito Democratico di John Fitzgerald Kennedy. Fu sotto la sua amministrazione e quella del successore Lyndon B. Johnson che fu dato il semaforo verde alla dittatura militare in Brasile. con la cacciata del democratico Goulart (1964), inaugurando una pratica che negli anni a seguire (vedasi il “Piano Condor”) soffocherà nel sangue e nella camere di tortura gran parte dell'America latina nelle decadi successive. Nei files segreti dell'epoca, oggi desecretati e disponibili presso i National Security Archives di Washington, si possono leggere le euforiche parole dell'ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del Democratico Kennedy, che definì il golpe dei torturatori «una grande vittoria per il Mondo Libero» e «un punto di svolta per la Storia». Prima ancora, Kennedy e i suoi più stretti consiglieri Mc Namara, Gilpatric, Lemnitzer, non si erano fatti scrupolo di lanciare una campagna di terrorismo contro Cuba mirata alla sua popolazione civile. In un file segreto del Joint Chiefs of Staff, datato 13 marzo 1962, l'amministrazione Democratica fa uso specifico della parola 'terrore' come strumento da impiegare innanzi tutto contro i rifugiati cubani in cerca di asilo politico negli Stati Uniti per poi incolpare Castro delle conseguenti atrocità, con lo scopo finale di suscitare scandali da prendere a pretesto per un'invasione militare di Cuba. Non dimentichiamoci infine che la famosa crisi dei missili di Cuba (iniziata il 15 ottobre 1962 e durata 13 giorni), considerata il più alto rischio di degenerazione della “guerra fredda” tra USA ed URSS, si ebbe proprio sotto Kennedy. Un anno dopo la rivoluzione cubana di Castro e Che Guevara, Kennedy approvò un piano di invasione dell’isola definito dal precedente governo Eisenhower addestrando e appoggiando gli esuli cubani, che sbarcarono nella baia dei porci. L'operazione fallì e Cuba, vistasi minacciata, chiese e ottenne da Mosca l’installazione di batterie di missili nucleari sul proprio territorio. Quando gli aerei spia americani li scoprirono, Kennedy ordinò il blocco navale dell'isola. Dopo giorni di tensione, Krusceev ordinò il ritiro dei missili in cambio della promessa dell’indipendenza dell'isola dagli Stati Uniti e dello smantellamento delle basi missilistiche USA in Turchia.

 

  • USA. 6 novembre. Ancora prima, però, l’11 ottobre 1961, Kennedy aveva disposto l’invio nel Vietnam del Sud dello squadrone aereo "Farmgate", composto da 12 aerei particolarmente equipaggiati per l’antiguerriglia (bombardieri T-28, S.C.-47 e B-26). In un primo tempo quei velivoli vennero autorizzati a «compiere missioni coordinate con piloti locali a sostegno delle forze di terra vietnamite». Il 16 dicembre di quello stesso anno, il segretario alla Difesa McNamara autorizzò la loro partecipazione diretta ad operazioni di combattimento. Furono i primi passi verso il coinvolgimento diretto di forze USA nei bombardamenti ed in altre operazioni di guerra nel Vietnam del Sud a partire dal 1962, cui si accompagnarono missioni di sabotaggio nel Nord. Ricordiamo che in quegli anni un fragile regime fantoccio reggeva quello che si chiamava 'Vietnam del Sud'. Privo del sostegno popolare, il regime ricorse al terrore su larga scala, suscitando alla fine una resistenza che non poté più controllare. Quando Kennedy arrivò al potere, intensificò la guerra, convinto che l’uso della violenza avrebbe portato la guerra a conclusione. Verso la metà del 1963, la repressione sembrò avere avuto successo nelle zone rurali; solo nelle città c'era un forte movimento di protesta. Inoltre, in quegli anni, il regime filo-americano di Saigon chiese agli USA di ridurre la loro presenza, se non di ritirarsi del tutto, ed avviò trattative con il Nord in vista di una soluzione diplomatica. L'amministrazione Kennedy allora decise di rovesciare il governo sud-vietnamita a favore di un regime militare interamente dedito ad una vittoriosa soluzione militare. Ciò avvenne con il golpe del primo novembre 1963, che portò ad un'ulteriore disintegrazione del Vietnam del Sud e ad una tardiva consapevolezza che i rapporti sui successi militari non avevano alcuna base reale.

  • USA. 6 novembre. Il suo successore Lyndon Johnson non volle essere da meno, e poco dopo aver ricevuto dal Congresso a maggioranza Democratica il via per la sciagurata aggressione al Vietnam, gettò tutto l’appoggio della sua amministrazione, aiuti militari inclusi, per il genocidio dei contadini indonesiani perpetrato dal generale Suharto a partire dal novembre 1965, che riempì le fosse comuni dell'arcipelago con più di un milione di morti. I dispacci top secret che Johnson ricevette allora fanno rabbrividire: telegramma A-527 da Jakarta, «La stima del bilancio dei morti a Bali è di 80.000, le stragi continuano e non se ne vede la fine». E poi: «Francamente non sappiamo se il vero numero di morti (in Indonesia) è di 100.000 o di 1.000.000… ma crediamo che sia meglio stare sulla stima più bassa, specialmente nel rispondere alle domande della stampa». Telegramma riservato 1326 del 4 Novembre 1965: «E' stato detto chiaramente che sia l'ambasciata americana che il governo degli Stati Uniti condividono e ammirano quello che l'esercito sta facendo». Questa 'illuminata' tradizione del Democratic Party sarà poi trasmessa ai loro futuri presidenti fino a oggi, includendo il Nobel per la Pace Jimmy Carter. Questo democratico autorizzerà tra l’altro, a partire dal 1978, ingenti forniture d'armi al genocida Suharto nella sua nuova impresa contro l'isoletta di Timor Est, a un prezzo di 250.000 vite di civili inermi. Carter è anche l'uomo che all'inizio del 1978, di fronte agli eccidi di Pol Pot e dei suoi Khmer Rossi, decise il famoso 'spostamento verso la Cina' (The Tilt towards China) che di Pol Pot era il principale sponsor e armatore. Quando poi il Vietnam invase la Cambogia, ponendo fine all'incubo sanguinario dei Khmer Rossi (1979), il Democratico Carter diede ordine alla sua amministrazione di appoggiare presso le Nazioni Unite la permanenza del "legittimo" seggio del governo cambogiano cacciato dai vietnamiti, cioè di Pol Pot, incoraggiando le agenzie umanitarie dell’ONU nell’aiuto ai sanguinari guerriglieri Khmer dispersi nella foresta al confine con la Thailandia. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, Zbigniew Brzezinski, ammise più tardi il suo ruolo: «Ho incoraggiato i cinesi a sostenere Pol Pot (…) Siccome Pol Pot era un abominio, noi non avremmo mai potuto aiutarlo, ma la Cina sì».

  • USA. 6 novembre. In quegli anni Brzezinski, in tandem con il segretario alla difesa James Schelsinger, lanciò l'addestramento dei mujaheddin afghani in funzione anti sovietica. Nell’80, dopo l’invasione sovietica, si fece fotografare alle frontiere dell’Afghanistan: un monito che le cose sarebbero cambiate. Intanto nel 1979 un certo bin Laden si era avvicinato alla causa dei Mujaheddin, organizzando alcuni anni dopo (1984) un nuovo fronte, chiamato Maktab al-Khidmat (MAK), con il compito di convogliare –con il sostegno dei servizi segreti USA, pakistani e dell'Arabia Saudita– denaro, armi e combattenti per la guerra afgana. Il MAK ricevette finanziamenti anche dalla CIA che –sempre secondo lo stesso Consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Carter, Zbigniew Brzezinski– intervenne direttamente ed indirettamente (attraverso i servizi segreti pakistani) nel finanziamento, nella fornitura di armi (inclusi i missili contraerei spalleggiabili Stinger), nella preparazione e nell'assistenza logistica ai guerriglieri afgani, allo scopo di provocare un intervento sovietico nel paese asiatico e dunque mettere in difficoltà il Cremlino sul piano politico internazionale e far dissanguare l'Armata rossa sulle montagne dell’Afghanistan.

 

  • USA. 6 novembre. Ai giorni nostri, una figura democratica che passerà alla storia è Madeleine Albright, che da ambasciatrice statunitense all'ONU (successivamente Segretario di Stato di Clinton) descrisse la morte di centinaia di migliaia di bambini iracheni causata direttamente dalle sanzioni ONU contro l'Iraq come un fatto tutto sommato accettabile. Accadde durante un’intervista di Lesley Stahl, reporter del celebre programma 60 Minutes del network CBS, nell’ambito di un approfondimento intitolato Punishing Saddam. La Stahl ad un certo punto chiese alla Albright: «Ci è giunta voce che mezzo milione di bambini iracheni sono morti. Sono di più di quelli che morirono a Hiroshima. Mi dica, ne è valsa la pena?» L'ambasciatrice guardò la giornalista e rispose: «Penso che questa sia una scelta molto dura, ma il prezzo, pensiamo che il prezzo ne valga la pena». Bill Clinton merita un capitolo a sé. L'euforia che oggi pervade tanti in Italia e in Europa nell'attesa di una nuova era Democratica e progressista made in Obama, copia fedelmente quella vissuta nel 1992-3 quando i tre interminabili mandati Repubblicani di Reagan e Bush padre finirono nel trionfo del giovane Bill Clinton. Egli è stato il pioniere della dottrina cosiddetta "Full Spectrum Dominance" (dominio a tutto campo) elaborata dal Pentagono sotto la sua amministrazione, fatta propria anche dai “neoconservatori” di Bush in questi anni di devastante unilateralismo armato. L'idea che gli USA avessero il diritto di esportare la propria supremazia in tutto il mondo, fu egregiamente illustrata dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Clinton, Anthony Lake, con le seguenti parole: «In un mondo in cui gli USA non devono più quotidianamente preoccuparsi della minaccia atomica sovietica, la questione del dove e quando interverremo in Paesi esteri è sempre più una nostra scelta».

  • USA. 6 novembre. Negli anni di Clinton sono uscite due delle più sciagurate iniziative rivolte al continente africano, l’African Growth and Opportunity Act e l’African Crisis Response Initiative. Nel primo è sancito il tentativo di incatenare sempre più Stati africani ai cosiddetti accordi bilaterali di libero scambio, che già hanno affamato e devastato ambientalmente una sfilza di Paesi dell'Emisfero Occidentale (Centro America e Caraibi); il secondo è un piano segreto di "programmi di assistenza militare" (leggi vendita illegale di armamenti) a Stati africani in miseria come il Niger, il Mali, il Chad, l'Uganda, il Benin, il Senegal o il Malawi. L'uomo prescelto dal Democratico Bill Clinton per gestire questi loschi affari si chiamava Nestor Pino Marina, un colonnello esiliato cubano già arruolato nel fallito golpe dello Sbarco della Baia dei Porci a Cuba del 1961, in seguito agente speciale nelle 'operazioni sporche' dell'esercito USA in Laos e Vietnam, e consigliere dei Contras nella loro guerra di terrore contro il Nicaragua nei primi anni '80 (che costò a Washington una condanna per 'terrorismo' da parte della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja nel 1986). E per rimanere nell'America Latina, l''illuminato' Clinton decise di aumentare considerevolmente gli aiuti militari alla Colombia impegnata nella cosiddetta 'guerra alla droga', che altro non è se non un paravento per la repressione, la tortura e l'assassinio di chi in quel Paese lotta per la giustizia sociale e i diritti umani. Amnesty International ha più volte denunciato le atrocità di Stato colombiane, testimoniando che in realtà le forze armate addestrate dagli Stati Uniti collaborano con le squadre della morte e con gli stessi narcotrafficanti in una campagna di terrore contro sindacalisti, attivisti per i diritti umani, studenti di sinistra, e per reprimere i contadini in rivolta contro i latifondisti.


  • USA. 6 novembre. La pratica del Democratico presidente Clinton e del suo partito di chiudere entrambi gli occhi di fronte ai crimini più orrendi pur di esportare armi e influenza USA, trovò forse la sua massima espressione nell'assistenza militare alla Turchia. In quel Paese, lungo tutti gli anni Novanta, si verificò una campagna di repressione poliziesca delle minoranze kurde del sudest che, per la ferocia e l'entità dei crimini commessi contro civili innocenti, fu definita dal Ministro turco per i Diritti Umani, Azimet Koyluoglu, "terrorismo di Stato". Era la Turchia del presidente Suleyman Demirel e del premier Tansu Ciller, sotto la cui amministrazione le forze speciali della Jandarma bruciarono 3.600 villaggi, torturarono con metodi inauditi migliaia fra uomini donne e persino adolescenti, uccisero, mutilarono e costrinsero alla fuga sulle montagne due milioni di civili in miseria. Tutto documentato dalle maggiori organizzazioni per i diritti umani, come al solito. Ebbene, Clinton fu colui che nel solo 1997 decretò un aumento degli aiuti militari a quell'esercito criminale di tale entità da superare tutte le forniture statunitensi precedenti dal 1950 ad allora. Fu sempre Clinton e la sua amministrazione Democratica a guidare l'attacco aereo della NATO alla Jugoslavia nel 1999. Sono recenti le rivelazioni fatte in seno al Defence Select Committee britannico dall'allora sottosegretario alla Difesa Lord Gilbert secondo cui negli accordi di pace di Rabouillet, rigettati dal leader serbo, fu segretamente e appositamente inserita una clausola chiamata Annex B che prevedeva l'occupazione militare di tutta la Jugoslavia proprio per causare l'inevitabile rifiuto di Belgrado. Questo perché il Kosovo, Paese immensamente ricco di minerali, doveva divenire terra "ad economia di Libero Mercato" dove era imprescindibile la rapida "privatizzazione di tutti i beni statali", secondo quanto recitano gli articoli 1 e 2 del capitolo 4 di Rambouillet. Ergo i bombardamenti e questo spiega anche perché le forze aeree NATO sotto guida clintoniana distrussero in Kosovo solo 14 carri armati serbi, ma colpirono ben 372 aree industriali statali (nessuna privata o di proprietà straniera). Uno dei primi atti legislativi della nuova amministrazione ONU (Unmik) fu di abolire la legge sulle privatizzazioni del 1997 per svendere i migliori bocconi del Kosovo ad investitori esteri.


  • USA. 6 novembre. Bill Clinton mantenne ferma la posizione degli Stati Uniti come principali fautori delle sanzioni ONU contro l'Iraq di Saddam Hussein, che con la piena consapevolezza dei servizi segreti di Washington costarono la vita di centinaia di migliaia di cittadini iracheni. Un olocausto di innocenti. Sotto l’ex governatore dell'Arkansas si diede il via alla privatizzazione della Difesa (che arriva fino alla gestione di prigioni come quella di Abu Ghraib), dove l'appalto è assegnato dall'alto e senza gara, mentre i costi sono rimborsati alla ditta prescelta semplicemente in base alle sue dichiarazioni di spesa, e senza che alcuna Authority statale possa controllare alcunché. Non parliamo poi della politica interna. Egli ereditò dal Democratico Jimmy Carter una politica economica interna che solo nei proclami risultava innovativa ma che nella pratica era una variante edulcorata del peggior neoliberismo Repubblicano. Al punto che gli indicatori economici dell'era Clinton crollarono ai livelli degli anni '50. Situazioni di degrado sociale spaventose erano la norma negli anni di Clinton. Nel 1997, Bill Clinton arrivò persino a vantarsi del bassissimo livello delle paghe operaie negli Stati Uniti, e l'allora capo della Federal Reserve, l'arcinoto Alan Greenspan, spiegò che si trattava del risultato «dell'insicurezza del posto di lavoro», che aveva impedito un'ondata di aumenti su scala nazionale (per la debolezza contrattuale dei lavoratori). Insicurezza che fu in larga parte il risultato degli accordi di libero scambio commerciale chiamati NAFTA, e stipulati fra Stati Uniti (promotori), Canada e Messico sotto la presidenza democratica nel 1993, accordi che davano di fatto il potere agli industriali di ricattare i loro lavoratori e i sindacati con la minaccia del trasferimento in Messico delle produzioni.


  • Cina / Russia. 7 novembre. Si rafforza l’intesa Mosca-Pechino. La scorsa settimana, a margine del Forum economico Russia-Cina di Mosca, il premier cinese Wen Jiabao e il suo omologo russo Vladimir Putin hanno firmato un accordo in materia energetica che potrebbe influenzare fortemente gli attuali equilibri geopolitici in Estremo Oriente, mettendo fine a una diatriba che si trascinava da almeno sei anni e che coinvolgeva anche il Giappone. I termini dell’intesa energetica sino-russa riflettono il principio ‘petrolio-per-crediti’: la compagnia Transneft (il monopolista statale che gestisce gli oleodotti russi) completerà infatti la costruzione di un oleodotto che collegherà la città siberiana di Skovorodino al hub petrolifero cinese di Daqing, nella provincia del Heilongjiang. La nuova pipeline, che costituirà un tratto della progettata ‘Siberian Pipeline’, sarà lunga circa 60 km e si congiungerà a una già esistente in territorio cinese. La Russia si impegna a consegnare alla Cina dai 300 mila ai 600 mila barili giornalieri di greggio (circa 15 milioni di tonnellate annue, il 4% del fabbisogno energetico cinese). In cambio, Pechino finanzierà per intero il tratto Skovorodino-Daqing del nuovo oleodotto siberiano. La Transneft riceverà un credito a lungo termine di 12 milioni di dollari, mentre 15 milioni saranno destinati alla Rosneft, la compagnia petrolifera di Stato russa. Nei piani di Mosca, la Siberian pipeline dovrà trasportare il petrolio russo fino alle coste del Pacifico. Con la firma dell’intesa, Pechino ha vinto la concorrenza di Tokyo, divenendo la prima opzione della Russia nella sua strategia energetica in Estremo Oriente. Il progetto alternativo, spalleggiato dai giapponesi, prevedeva di completare prima il tratto di oleodotto da Skovorodino a Nakhodka, porto siberiano sul Pacifico dal quale il Giappone avrebbe poi prelevato via mare il greggio.

 

  • Cina / Russia. 7 novembre. La scelta russa di privilegiare il progetto di Pechino è per i nipponici un chiaro smacco: Tokyo intendeva investire molto per il potenziamento del terminal marittimo di Nakhodka. A far gola alla Russia sono stati i crediti offerti dalla Cina, che si sono dimostrati essere più del doppio di quelli promessi dal Giappone. Putin ha sempre affermato, però, che Mosca «vuole mantenere la sua flessibilità in campo energetico ed evitare i rischi di rimanere vincolata a un solo mercato». La Russia ha infatti interesse che la Siberian pipeline giunga anche a Nakhodka: una prospettiva che rende in parte meno amaro il rovescio subito dai giapponesi. Nella lotta per l’approvvigionamento delle risorse energetiche in Asia, quello conseguito dalla Cina la scorsa settimana a Mosca è il secondo successo in poco più di un anno. L’anno scorso, infatti, di questi tempi, i cinesi battevano la concorrenza indiana per il gas birmano. L’ex ‘Impero di Mezzo’, grande consumatore di energia come Giappone e India, ha un enorme bisogno di ridurre la propria dipendenza dal petrolio mediorientale e da quello africano, che sono trasportati per via marittima a costi piuttosto elevati.

 

  • Cina / Russia. 7 novembre. Gli aspetti economici dell’accordo energetico sino-russo si intrecciano naturalmente con quelli geopolitici. Per molti osservatori, Cina e Russia sono strategicamente complementari, in quanto hanno entrambe la necessità di controbilanciare il peso degli Stati Uniti in Asia. La diarchia Putin-Medvedev deve rispondere alle pressioni atlantiche per la sua politica nel Caucaso (e in Asia Centrale) e Pechino rimane la migliore carta a disposizione: il petrolio russo dovrà servire a stemperare la freddezza cinese di fronte alle imprese belliche del Cremlino in Georgia. In questa ottica, la scelta tra una Cina alleata nella Shanghai Cooperation Organization e un Giappone pedina chiave del sistema di sicurezza USA nel Pacifico era sin troppo scontata. Per la Cina è fondamentale rompere ogni ipotesi di accerchiamento nei propri confronti, in particolare dopo che l’accordo nucleare indo-USA è divenuto operativo e dopo che Giappone e India hanno siglato lo scorso mese un accordo in materia difensiva di portata storica. A parte il Trattato di sicurezza nippo-americano, Tokyo ha infatti sottoscritto una intesa del genere solo con l’Australia: Pechino guarda con timore a una possibile alleanza quadripartita tra Austrialia, Giappone, India e USA.

 

  • Ossezia. 8 novembre. Guerra in Caucaso, rapporto OCSE avvalora versione russa: fu la Georgia ad attaccare. A tre mesi esatti dall'inizio della guerra nel Caucaso, «nuovi resoconti dai osservatori militari indipendenti sullo scoppio del conflitto tra Georgia e Russia mettono in dubbio le asserzioni di Tbilisi, che sostiene di avere agito per difendersi da un'aggressione dei separatisti e della Russia». Lo scrive il New York Times. In un lungo e dettagliato articolo in prima pagina, il quotidiano USA, letti gli sviluppi dell'indagine –non ancora conclusa– di un team internazionale all'opera con mandato OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa), riporta che«i resoconti suggeriscono che l'inesperto esercito georgiano attaccò la capitale separatista Tskhinvali, isolata, il 7 agosto, aprendo indiscriminatamente il fuoco con artiglieria e missili, mettendo a repentaglio la vita di civili, dei peacekeepers russi e di osservatori indifesi». In pratica il quotidiano avalla la versione russa dei fatti sull'inizio della guerra, facendo notare che la squadra al lavoro comprende un finlandese, un bielorusso e anche un polacco, non facilmente sospettabile di posizioni filorusse.

 

  • Iran / USA. 9 novembre. «Obama sbaglia». Il primo scambio verbale tra le autorità iraniane e il presidente-eletto degli Stati uniti non è incoraggiante. Il presidente del parlamento iraniano, Ali Larijani, figura influente nell'establishment iraniano (è stato il capo negoziatore nucleare e resta un importante membro del Consiglio di sicurezza nazionale, dove rappresenta la Guida suprema) ieri ha criticato le parole di Barack Obama durante la sua prima conferenza stampa dopo la vittoria elettorale quando aveva dichiarato, testualmente, «credo che sia inaccettabile che l'Iran sviluppi armi nucleari». «Ripetere le obiezioni al programma nucleare dell'Iran sarebbe fare un passo nella direzione sbagliata», ha detto Larijani alla radio iraniana, e ha fatto appello a Obama a mantenere la promessa di cambiare profondamente la politica estera americana.

 

  • USA / Russia. 9 novembre. Scudo, «decisione USA da cambiare». Il giorno stesso dell'elezione di Obama, il presidente Dimitri Medvedev ha annunciato che, se gli USA installeranno in Europa lo «scudo anti-missili», la Russia installerà nell'enclave di Kaliningrad (a circa 250 km dalla postazione missilistica dello «scudo» in Polonia) missili da crociera Iskander ed effettuerà operazioni di disturbo elettronico della postazione USA. Assicurando il presidente polacco Lech Kaczynski che il piano statunitense di installare in Polonia missili intercettori dello «scudo anti-missili» proseguirà, Barack Obama ha indirettamente avvertito Mosca che la politica statunitense nei confronti della Russia non cambierà rotta. Un annuncio preoccupante, tantopiù se si considera che a Varsavia considerano lo Scudo più un deterrente contro la Russia che non una risposta strategica all'Iran, come ha finora sostenuto Bush. Il piano prevede che i dieci missili intercettori in Polonia siano collegati a una stazione radar, installata nella Repubblica ceca a 70 Km da Praga. Progetti che riscuotono forte ostilità popolare nei due Paesi. Nei piani del Pentagono, queste dovrebbero essere solo le prime di una serie di installazioni missilistiche e radar che si vuole dislocare in Europa. A Mosca lo considerano invece un tentativo di acquisire un decisivo vantaggio strategico sulla Russia. Hanno quindi da tempo avvertito che prenderanno delle contromisure. Finita la guerra fredda, la presenza USA in Europa non è diminuita, ma ha assunto nuove forme attraverso la ridislocazione delle basi militari (così da poterle meglio usare per la «proiezione di potenza» verso sud ed est) e l'espansione della NATO (e quindi delle forze Usa) fin dentro il territorio dell'ex Unione sovietica.

 

  • Colombia. 10 novembre. Oltre 70.000 morti, 15.000 desaparecidos, tra i tre e i quattro milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case e le proprie terre, 20.000 sequestrati e 10.000 bambini soldato: queste le drammatiche cifre del conflitto in Colombia rese note a fine ottobre da Amnesty International. L’organizzazione ha anche rimproverato i paesi dell'Unione Europea perché non premono a sufficienza sul governo colombiano, per indurlo a por fine a questi crimini di lesa umanità. E dopo lo scandalo dei cosiddetti «falsi positivi", i giovani uccisi dai militari e presentati come guerriglieri caduti in combattimento (servivano ad alimentare le statistiche, comprovando i progressi delle forze armate nella lotta agli insorti), persino gli Stati Uniti hanno espresso disapprovazione Lo scandal