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Un mondo senza giornali

di Andrew Sullivan - 15/12/2008

 
 
Negli Stati Uniti tutti gli occhi sono puntati sui giganti del settore automobilistico. Finalmente qualcuno si è accorto di quanto sono stati incompetenti. Per fortuna le probabilità che il governo decida di salvarli sono poche, perché in caso contrario anche altre industrie colpite dalla crisi pretenderebbero di ricevere lo stesso aiuto.

Per esempio, l'industria dei giornali. Sono anni, ormai, che la stampa vacilla sotto i colpi dei nuovi media. Nell'ultimo decennio la diffusione complessiva dei giornali statunitensi si è ridotta di circa il 2 per cento all'anno. E il 2008 è stato un banco di prova importante.

I giornali si sono trovati tra le mani una notizia senza precedenti: una campagna per le presidenziali così intensa e appassionante da poter essere definita storica. Eppure il crollo delle vendite non si è fermato. Tra marzo e settembre, i cinquecento principali quotidiani hanno registrato un calo medio delle vendite del 4,6 per cento. Il che equivale a un calo di quasi il 10 per cento all'anno.

Dopo questo scivolone è quasi certo che molte città grandi e piccole d'America non avranno più un giornale. E rischiano di sparire anche alcuni grandi quotidiani. Il Los Angeles Times nel 2000 aveva una tiratura di un milione e 200mila copie, oggi è arrivato a 739mila. E ha dovuto licenziare la metà dei suoi dipendenti.
In questi dodici mesi il Chicago Tribune ha visto crollare dell'8 per cento la sua diffusione nei giorni feriali.

Il Christian Science Monitor era un quotidiano ed è diventato un settimanale, scommettendo sul suo sito web. I margini di profitto realizzati anche dai giornali più noti, come il Washington Post e il New York Times, sono così esigui che il futuro si presenta molto incerto. Il calo delle vendite è stato accompagnato da una diminuzione della raccolta pubblicitaria.

Internet ha sottratto ai giornali buona parte degli inserzionisti, e la recessione sta facendo il resto. A questo si aggiunge un circolo vizioso per effetto del quale acquisizioni e tagli brutali del numero dei dipendenti hanno colpito il giornalismo di qualità: proprio quello che spinge i lettori a comprare i quotidiani.

E internet? Dicevano che la salvezza sarebbe venuta da lì. E per la verità, dopo un inizio in sordina, i siti dei giornali hanno fatto grandi passi avanti. Quello del New York Times è uno dei migliori del mondo.

Il Washington Post ha infiocchettato il suo sito e l'ha riempito di blog. Il problema, però, è che la pubblicità online sta crescendo, ma non abbastanza rapidamente da compensare le perdite di quella stampata. La nave della carta stampata che affonda è troppo distante dalla scialuppa di salvataggio online.

I dati economici della situazione sono spietati. La stampa, la carta e il trasporto su gomma sono troppo costosi in confronto al modem o a un telefonino su cui leggere le notizie in treno o in autobus ogni mattina.

Un unico blogger che lavora da casa può raggiungere lo stesso numero di lettori di un grande giornale, senza dipendenti, senza spese e senza costi di produzione a parte l'abbonamento alla banda larga. Questo enorme vantaggio competitivo dipende dall'evoluzione tecnologica ed è inevitabile.

Io ho cominciato a scrivere il mio blog (andrewsullivan.the atlantic.com) otto anni fa. Quest'anno a ottobre, grazie alla campagna elettorale, ho avuto 23 milioni di contatti. Confrontiamo ora il traffico del mio piccolo blog con il Baltimore Sun, una grande testata con una grande reputazione.

In ottobre il Baltimore Sun ha registrato 17 milioni e mezzo di contatti; il Dallas Morning News 12 milioni; l'Atlanta Journal-Constitution 14 milioni. Il blog che io metto insieme quasi interamente lavorando da casa mia ha raggiunto molti più lettori online di alcuni dei più grandi giornali del paese.

L'economia non conosce rimorsi: più le notizie si spostano sulla rete, e meno il modello economico dei giornali riesce a sopravvivere. Se la raccolta pubblicitaria seguirà l'andamento dei contatti, tra non molto la carta stampata si troverà in un vicolo cieco.

Ma c'è un problema grave: il blog realizzato da un'unica persona non può produrre in nessun modo gli articoli approfonditi (e ad alta intensità di manodopera) che un buon giornale propone. Un mondo in cui le notizie sono ridotte al minimo e le opinioni diventano sempre più superficiali e retoriche non è un mondo sano per la democrazia.

Forse qualche ricco filantropo deciderà di finanziare dei centri di giornalismo senza fini di lucro che producano inchieste e analisi di politica estera da pubblicare su blog e siti. Forse i blogger-reporter cominceranno a fare concorrenza agli opinionisti come me, e tutto avrà più senso.

Forse i giornali riusciranno a dimagrire abbastanza da produrre una versione stampata di lusso e un prodotto online che funziona. In fondo, la fame di notizie c'è sempre. In ogni caso godetevi la carta stampata dei quotidiani: è destinata a sparire molto prima di quanto quasi tutti gli esperti prevedano.

Andrew Sullivan è un giornalista britannico che vive negli Stati Uniti. Ha diretto il settimanale New Republic. Questo articolo è uscito sul Sunday Times.