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Notizie dal mondo 9-15/2006

di rivistaindipendenza.org - 19/02/2006

Fonte: rivistaindipendenza.org

USA. 9 febbraio. La «guerra globale al terrore», prosegue Dinucci su il Manifesto di oggi, «richiede però diverse altre spese, iscritte nel budget 2007 del Dipartimento di stato: tra queste oltre 5 miliardi di dollari per “l’assistenza militare all’estero” e oltre un miliardo quale finanziamento per la “ricostruzione” dell’Iraq e Afghanistan. Per la “ricostruzione dell’Iraq” il Congresso aveva già stanziato 21 miliardi di dollari, gran parte dei quali è stata però spesa non dal Dipartimento di Stato ma dal Pentagono per le operazioni militari (quindi non per ricostruire ma per distruggere). Vanno poi conteggiati gli interessi passivi netti che gravano sul bilancio federale, 354 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2007 (per un totale di 2.200 miliardi nel prossimo quinquennio), dovuti in gran parte alla crescente spesa militare. La spesa militare diretta e indiretta per il 2007 sale così a circa un terzo del bilancio federale. Per far tornare i conti sono previsti ulteriori tagli alle spese sociali, tra cui 36 miliardi in meno per il Medicare (l’assistenza sanitaria ad anziani e disabili senza copertura assicurativa) nei prossimi cinque anni. Si potranno così spendere, nell’anno fiscale 2007, oltre 110 miliardi di dollari per i militari e 152 per le operazioni delle forze armate. Si potranno spendere oltre 84 miliardi per l’acquisto di armamenti e 73 per la ricerca e sviluppo di nuovi sistemi d’arma. Saranno sicuramente soddisfatti gli azionisti della Lockheed Martin che, solo per lo sviluppo del caccia Joint Strike Fighter (cui partecipa anche l’Italia) riceverà nel 2007 5,3 miliardi, altro acconto su un contratto da 256 miliardi di dollari. Saranno soddisfatti anche gli azionisti della Boeing che, avendo acquisito la McDonnell Douglas, riceverà nel 2007 altri 3 miliardi di dollari per l’aereo da trasporto militare C-17 e 2,5 per il caccia F/A-18E/F Hornet».

 

USA. 9 febbraio. Le autorità militari USA legano a delle sedie i detenuti che fanno lo sciopero della fame al campo di Guantanamo per nutrirli forzatamente. Lo hanno detto –secondo quanto riferisce il New York Times nella sua edizione elettronica– fonti militari statunitensi.

 

Euskal Herria. 10 febbraio. «Deteniamo più etarras che mai». Lo hanno detto il ministro spagnolo dell’Interno, José Antonio Alonso, e quello della Giustizia, Juan Fernando López, che ieri hanno affermato che «la popolazione penitenziaria di etarras (militanti di ETA, ndr) nelle nostre carceri è la più alta della storia della democrazia, circa 800 in Spagna, oltre 200 in Francia». La loro apparizione congiunta a Madrid si realizza un giorno dopo l’annuncio di voler «costruire nuove imputazioni» contro i prigionieri per tenerli più a lungo in carcere.

 

Israele. 10 febbraio. Aspre critiche in Israele alla decisione di Putin di invitare Hamas per discutere sul futuro del processo di pace israelo-palestinese. Il presidente israeliano, Katsav, ha detto che la mossa di Putin è «un passo assurdo» che può provocare «danni politici». Per Peres, uno degli artefici degli accordi di Oslo, in questo modo «la Russia si fa beffe delle posizioni del Quartetto» e del Tracciato di pace già stabilito. Alla radio israeliana, il ministro israeliano Meir Sheetrit ha definito oggi l’invito di Putin ad Hamas come «una pugnalata alle spalle» ed ha aggiunto che la Russia non «può svolgere alcun ruolo nelle negoziazioni di pace tra israeliani e palestinesi a meno che cambi la sua posizione su Hamas».

 

Palestina. 10 febbraio. Grande interesse stanno riscuotendo nei Territori le indagini sulla corruzione ai vertici dell’Autorità Nazionale Palestinese, che hanno portato a diversi arresti di dirigenti di ministeri, mentre altri sono stati sospesi dai loro incarichi in attesa di far luce sul loro comportamento. Fra gli indagati per corruzione figura il direttore generale della compagnia petrolifera, Sansur. Il procuratore generale al-Mughani ha anche ordinato il congelamento di decine di conti bancari.

 

Iraq. 10 febbraio. La lista unita sciita irachena vince, ma non ha la maggioranza assoluta. Dopo quasi due mesi dalle elezioni nell’Iraq occupato, l’Ufficio elettorale iracheno ha comunicato i risultati. Confermata la vittoria dell’Alleanza Irachena Unita alle legislative del 15 dicembre scorso. Secondo i dati definitivi, la formazione sciita ha ottenuto 128 dei 275 seggi. A questi potrebbero essere sommati altri due di una lista patrocinata dall’esponente sciita Moqtada al-Sadr, che ha negoziato il suo appoggio alla lista unitaria. Confermati anche i risultati della coalizione curda (PUK e PDK), con 53 seggi (lontana dai 75 ottenuti nelle precedenti elezioni). Il sunnita Fronte Iracheno per la Concordia ottiene 44 seggi, la lista dell’ex primo ministro (un passato –e forse ancora un presente– di agente dichiarato della CIA, servizio segreto statunitense) Iyad Allawi 25 ed il sunnita Fronte Iracheno per il Dialogo Nazionale 11. Il resto dei seggi è andato a piccoli gruppi.

 

Cina. 10 febbraio. La Cina ha un piano di rilancio del settore ricerca che porterà il paese a investire nel 2020 il 2,5% del PIL, il doppio di adesso. In termini assoluti, la spesa complessiva sarà pari a 90 miliardi di euro. Secondo il ministro per la scienza e tecnologia, la Cina non è ancora diventata una potenza economica «per la sua scarsa capacità di innovazione». Il piano prevede più investimenti in 16 settori, tra cui software, semiconduttori, telecomunicazioni, biotecnologie e ricerca spaziale.

 

USA / Giappone. 10 febbraio. Proseguono alle Hawaii non senza difficoltà le trattative tra Stati Uniti e Giappone per il riallineamento di truppe e mezzi USA nel territorio nipponico. La conclusione è prevista da Donald Rumsfeld e Nukoga Fushikiro, direttore generale della National Defense Agency, per la fine di marzo. Le difficoltà, evidenziate dalle testate Asahi Shinbun, Daily Yomiuri, Japan Times e Asia Times, riguardano soprattutto la presenza militare statunitense nell’isola di Okinawa, dove è concentrato il 75% della basi USA in Giappone. La forte resistenza delle autorità locali e della popolazione ha avuto riscontro anche nelle dichiarazioni dei tre candidati a sindaco della città di Nago, tutti contrari al piano, anche se il vincitore Shimabukuro Yoshikazu, candidato del LDP di Koizumi, ha posizioni più possibiliste. Approssimativamente il governo statunitense ha previsto per il 2012 il completamento di tutte le operazioni.

 

USA / Giappone. 10 febbraio. Il riallineamento delle forze USA in Giappone non è stato l’unico argomento trattato dalle delegazioni statunitense e nipponica alle Hawaii. Si è deciso anche il rafforzamento e la sempre maggiore coesione tra i rispettivi sistemi di difesa, in particolare l’integrazione dei sistemi antimissilistici. Tre le consistenti novità in tal senso. La prima riguarda la ricerca congiunta per realizzare un nuovo missile intercettore imbarcato. Il nuovo missile intercettore sarà operativo prevedibilmente per il 2015 e vedrà l’industria giapponese impegnata nella realizzazione dell’ogiva di protezione del sensore a infrarossi e del motore del secondo stadio, mentre quella statunitense realizzerà il sensore a infrarossi e la testata (kinetic warhead). La seconda novità consiste nell’adozione per la fine del 2010 di 124 unità del sistema anti-missile Patriot Advanced Capability (Pac-3) ultima generazione del sistema Patriot. La terza e ultima novità riguarda i sistemi radaristici. La condivisione delle informazioni provenienti dai sistemi di avvistamento giapponesi e statunitensi consentirà di instaurare un sistema di pronto-allarme per il territorio dei due Stati. Il senso del sistema di difesa nippo-statunitense è perfettamente racchiuso in una frase del primo ministro nipponico Koizumi: «Gli Stati Uniti sono l’unica nazione che guarda a un attacco al Giappone come ad un attacco sul proprio territorio».

 

Euskal Herria. 11 febbraio. Batasuna critica il «cinismo» di Mosca e Madrid, in occasione della visita in Spagna del presidente russo Vladimir Putin. In relazione al compromesso ispano-russo di «rispetto dei diritti umani», Batasuna ha denunciato il «cinismo» dei due Stati che, nel corso della storia, «hanno violato il diritto umano all’autodeterminazione» e «hanno praticato il terrorismo di Stato». Espressioni di solidarità, infine, alla «giusta ed onorevole» lotta del popolo ceceno: «la soluzione, come in Euskal Herria, passa per il suo riconoscimento come popolo».

 

Catalogna. 11 febbraio. Con il compromesso al ribasso di CiU, «finisce il sogno democratico di definire la Catalogna per quel che siamo, una nazione». Lo ha detto il presidente dell’ERC, Josep-Lluís Carod-Rovira, con riferimento all’accordo raggiunto sullo Statuto. Disaccordo con Artur Mas (CiU), artefice del nuovo progetto, che ha parlato di «un grande giorno» per la Catalogna e per la Spagna. Secondo l’esponente dell’ERC la situazione resta «uguale come da 27 anni».


Kosovo. 11 febbraio. Il presidente kosovaro dice che l’indipendenza è «innegoziabile». Il recentemente eletto presidente del Kosovo, Fatmir Sejdiu, ha detto ieri che la rivendicazione dell’indipendenza da parte della comunità albanokosovara è «innegoziabile». Il Parlamento ha eletto Sejdiu alla terza votazione per occupare il posto di Ibrahim Rugova, morto lo scorso mese. Sedjiu, 54 anni, è sulle stesse posizioni del suo predecessore. Il Kosovo, dopo la guerra nel giugno 1999, è sotto protettorato ONU-NATO. Le conversazioni tra Kosovo e Serbia sono previste per il 20 a Vienna.

 

Russia. 11 febbraio. Hamas, ostracizzata dall’Occidente ma non dalla Russia di Putin, potrebbe mandare una sua delegazione a Mosca entro fine febbraio. «È del tutto possibile. La delegazione sarà probabilmente guidata da Khaled Meshaal, capo del dipartimento politico di Hamas», ha detto Kalughin, inviato speciale russo per il Medio Oriente. Dopo l’invito ufficiale di Putin, il ministero degli Esteri russo «è già impegnato a coordinare le date e il livello della visita», ha spiegato Kalughin.

 

Turchia. 11 febbraio. La Turchia continua a vietare il suo suolo per attacchi contro paesi confinanti. Lo ha ribadito, in un’intervista al quotidiano Hurriyet, il ministro degli Esteri, Abdullah Gul, con riferimento d’attualità all’Iran. Ricorda Gul che «la nostra frontiera con l’Iran data dal 1639, una frontiera molto più antica della storia degli Stati Uniti e dei vari paesi d’Europa». Ankara non consentì agli Stati Uniti di usare il suo territorio come retroguardia terrestre nella sua invasione dell’Iraq nel 2003. Dal canto suo il quotidiano turco Milliyet ha informato di un’operazione congiunta tra CIA (servizio segreto statunitense) e servizi segreti turchi (MIT) per il blocco alla frontiera di tre grandi contenitori di alluminio con destinazione Iran. Per il suo «possibile doppio uso (nucleare civile e/o militare, ndr)», ha detto l’Istituto Turco di Energia Atomica, uno degli organismi che ne ha esaminato il contenuto, «non potevamo lasciare che passasse in Iran».

 

Turchia. 11 febbraio. Il ministro turco degli Esteri, Abdullah Gul, lancia un chiaro messaggio di benvenuto al movimento palestinese Hamas. Gul ha detto che «sono stati eletti democraticamente e debbono comportarsi democraticamente. Ci sono segnali che lo stiano facendo. Per Israele, è buono avere un socio forte. La pace si fa con soci forti, non con gruppi senza radici né appoggio popolare».

 

Iran. 11 febbraio. L’Iran potrebbe rivedere la sua adesione al Trattato di Non-Proliferazione nucleare se vedrà calpestati i suoi diritti in questo campo. «Cercate di non farci perdere la pazienza», ha detto il presidente Ahmadinejad. «Fino ad ora abbiamo fatto i nostri sforzi per dotarci della tecnologia nucleare nella cornice dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) e del TNP (Trattato di Non-Proliferazione). Ma se vediamo che, usando questi regolamenti, volete calpestare i diritti della nostra nazione, allora la nostra nazione farà un riesame della sua politica». Parlando ieri a Teheran, in piazza Azadi (Libertà), davanti a «milioni di persone» in una grande dimostrazione di forza, nel 27° anniversario della Rivoluzione Islamica (­11 febbraio 1979), Ahmadineyad ha anche affermato che il vero Olocausto è quello che si sta producendo in Palestina e in Iraq. Con chiaro riferimento ad Israele, Ahmadineyad ha aggiunto che «ci sono paesi che non sono membri dell’AIEA e non hanno firmato il Trattato di Non-Proliferazione ed hanno armi nucleari, ed anche così siedono all’AIEA a decidere sul futuro del nostro popolo (...). Pare che quelli che non sono membri dell’AIEA e non hanno firmato il TNP abbiano più diritti».

 

Israele. 11 febbraio. Il Centro Simon Wiesenthal intende costruire un Museo della Tolleranza sul cimitero musulmano più antico di Gerusalemme. I palestinesi hanno avviato una battaglia legale per fermare i lavori di costruzione del museo il cui obiettivo è promuovere «l’unità ed il rispetto tra gli ebrei e tra i popoli di ogni fede». Archeologi e promotori israeliani stanno scavando e raccogliendo resti di persone sepolte nel cimitero nel corso di almeno mille anni. Il progetto è stato lanciato in una cerimonia nel 2004 da un gruppo di personalità politiche tra i quali l’attuale primo ministro in funzione, Ehud Olmert, ed il governatore della California, Arnold Schwarzenegger. Ikrema Sabri, il mufti di Gerusalemme e massimo dignitario musulmano della città, vuole l’arresto degli scavi nel luogo che è passato sotto il controllo isareliano dopo la guerra del 1948, ed ha aggiunto che le autorità religiose musulmane non sono state consultate prima dei lavori. Il cimitero è stato usato per 15 secoli, sostiene, ed amici del profeta Maometto sono qui sepolti; è «un luogo sacro per i musulmani e deve esserci una cessazione completa dei lavori». Per la legge israeliana si tratta di una «proprietà assente»: dopo essere stato controllato dalla Waqf, l’autorità religiosa islamica­, fu espropriata dalla Custodia della Proprietà Assente, dopo il 1948.

 

USA / Marocco. 12 febbraio. Il capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, è giunto stasera a Rabat, proveniente dall’Algeria, per una visita di due giorni in Marocco. Rumsfeld affronterà due temi in particolare: la cooperazione militare bilaterale e la lotta contro il “terrorismo”. Il segretario di Stato statunitense sarà ricevuto domani da re Mohammmed VI a Ifran, poi incontrerà alcuni ministri e ufficiali dell’esercito marocchino.

 

USA / Iran. 12 febbraio. Gli strateghi del Pentagono studiano piani per «bombardamenti devastanti appoggiati da attacchi con missili balistici lanciati da sottomarini» contro siti nucleari iraniani. Lo scrive oggi il domenicale britannico Sunday Telegraph. «L’azione militare», scrive l’inviato del Telegraph a Washington, Philip Sherwell, «potrebbe causare frizioni tra USA e Gran Bretagna, dato che quest’ultima teme gli effetti che i bombardamenti avrebbero in tutto il Medio Oriente». L’articolo in prima pagina dice che gli USA stanno identificando obiettivi e lavorano sulla logistica in vista di un’operazione. «È più della semplice valutazione militare standard» ha detto un alto consigliere del Pentagono. L’attacco contro le centrali iraniane potrebbe avvenire, secondo il Telegraph, con i bombardieri B2, in partenza direttamente dalle basi del Missouri, e riforniti in volo da aerei cisterna. I sottomarini in navigazione nell’Oceano Indiano potrebbero appoggiare l’azione con i loro missili.


Israele / Iran. 12 febbraio. Anche il governo israeliano ha allo studio possibili interventi “chirurgici” contro le centrali iraniane. Gli israeliani compirono una missione simile nel 1981 contro la base di Osirik, in Iraq. Ma gli iraniani hanno imparato la lezione che fu data allora al loro arcinemico, Saddam Hussein, e hanno distribuito le centrali in varie zone del Paese, nascondendole sotto terra. Non solo: l’aviazione militare iraniana è molto preparata e agguerrita, e non si farebbe infinocchiare come quella irachena. Come ha detto un alto ufficiale israeliano a Newsweek: «Andare a bombardare le centrali non è la parte difficile. La parte difficile è tornare. Noi non crediamo in missioni kamikaze».

 

Palestina. 13 febbraio. Hamas non cambia su Israele: la resistenza armata –avverte– cesserà soltanto se Israele si impegnerà al ritiro da tutti i territori occupati. In un’intervista a un quotidiano russo, il capo dell’Ufficio politico del movimento, Khaled Meshal, ribadisce che «Israele è un Paese nemico che svolge nei nostri confronti una politica di aggressione». «La Road Map», aggiunge, «è priva di senso, dopo che 14 modifiche volute dallo stato ebraico l’hanno trasformata nel piano Sharon».

 

Siria. 13 febbraio. La Siria ha annunciato che passerà dal dollaro all’euro per tutte le sue transazioni internazionali. La decisione del primo ministro Mohammad Naji Otari indica un ulteriore irrigidimento della tensione politica tra la Siria e gli Stati Uniti. Secondo il presidente della Banca Commerciale serve evitare ogni possibile ostacolo che le banche all’estero potrebbero incontrare in caso di sanzioni commerciali alla Siria.

 

Iran. 13 febbraio. 10mila civili morti. Questo il calcolo dei «danni collaterali» di un eventuale massiccio attacco statunitense contro i siti nucleari iraniani, secondo le stime di Thomas Harding, giornalista del Telegraph. I primi a perire sarebbero «centinaia di tecnici e scienziati che lavorano nelle strutture nucleari» del paese del Golfo (le principali: Bushehr e Natanz). Harding cita in proposito uno studio dell’Oxford Research Group, che «conferma un altro studio realizzato dal Pentagono stesso», e che avverte delle «conseguenze di un attacco all’Iran: una guerra lunga, con coinvolgimento di Israele e Libano, e forse di altri Stati del Golfo».

 

Iran. 13 febbraio. L’Iran avvierà la produzione di uranio arricchito su scala industriale nel suo impianto di Natanz «sicuramente prima del 6 marzo». Lo ha detto oggi un portavoce del governo. L’avvio di questa attività è stato deciso come ritorsione alla risoluzione approvata il 4 febbraio scorso dall’AIEA, che ha deciso di trasmettere il dossier nucleare iraniano al Consiglio di Sicurezza ONU. Teheran ha inoltre deciso il rinvio dei negoziati con la Russia previsti per il 16 febbraio.

 

USA. 13 febbraio. La Commissione per i diritti umani dell’ONU accusa gli USA di abusi su prigionieri a Guantanamo, in alcuni casi equivalenti a torture. L’accusa, dopo un’indagine durata 18 mesi, è contenuta in un rapporto della Commissione non ancora pubblicato, ma anticipato da Los Angeles Times. Tra le accuse al Pentagono, il nutrimento forzato dei detenuti in sciopero della fame, l’uso di violenza eccessiva nel trasferimento dei prigionieri e tecniche di interrogatorio equivalenti alla tortura. A Guantanamo, il campo di prigionia statunitense a Cuba nel quali sono detenuti prigionieri islamici senza processo, il Pentagono usa metodi «che sono sulla soglia della tortura e che a volte si spingono oltre».

 

Germania / Iran. 14 febbraio. «L’opzione militare contro Teheran non è più tabù nemmeno per Berlino», titola trionfante Il Foglio di oggi. «Nel partito trasversale che insegue il dialogo con l’Iran e il suo dossier nucleare s’insinuano crepe vistose: ha ceduto il fronte degli indecisi guidato dall’India e dal Giappone ed è franato l’ottimismo fiducioso della troika europea. L’intervento del Consiglio di Sicurezza è invocato da tutti, come ha ricordato ieri anche il nostro ministro degli Esteri, Gianfranco Fini». E anche la Russia starebbe cominciando a «perdere la pazienza». Decisivo, per il mutamento di rotta tedesco, sarebbe stato l’allinearsi del Ministro degli Esteri SPD Steinmeier sulle posizioni del neo-cancelliere, Angela Merkel: «Incrinati già da mesi i rapporti con Londra, per Teheran è cambiata la musica anche a Berlino, sull’onda della leadership di Angela Merkel. Dopo aver più volte ribadito che la questione iraniana va risolta con la diplomazia e la diplomazia soltanto, il ministro degli Esteri tedesco, Frank Walter Steinmeier, ha cambiato rotta e sposato la linea del cancelliere».

 

Afghanistan. 14 febbraio. Almeno quattro soldati statunitensi muoiono in un’imboscata nel distretto di Deh Rahwod, a Uruzgan, provincia del sud dell’Afghanistan. Il blindato Humvee sul quale viaggiavano è saltato in aria in conseguenza di una prima esplosione, seguita da un attacco guerrigliero con RPG, alla fine respinto dopo l’intervento di elicotteri ed aerei da combattimento.

 

Palestina. 14 febbraio. «Israele non si farà ingannare da Hamas», spiega il primo ministro ad interim, Ehud Olmert, incontrando la delegazione del Partito Democratico Europeo guidata dal presidente della Margherita, Francesco Rutelli e dal francese Francois Bayrou dell’UDF. Olmert ha fatto così intendere di non considerare premessa al dialogo la dichiarazione del capo della direzione politica di Hamas, Khaled Meshaal, che in un’intervista al quotidiano russo Nazavissimaia Gazeta, ha dichiarato che «Hamas è disposta a porre fine alla resistenza armata, ma solo quando Israele riconoscerà i nostri diritti e si impegnerà al ritiro da tutti i territori palestinesi occupati».

 

Palestina. 14 febbraio. Ad Abu Mazen continuano a guardare i governanti israeliani. «Tra noi c’è una buona chimica», hanno confidato a Rutelli sia il raìs che Olmert. Proprio ieri il presidente dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), sfidando il parere di Hamas, ha rafforzato i suoi poteri, in particolare all’interno della Corte costituzionale, che ha il potere di bocciare qualunque legge del governo. Questo ha dato l’impressione di venire incontro ai “desiderata” israeliani, esplicitati dal numero due di Kadima, Shimon Peres, che, incontrando Rutelli e Bayrou, ha sottolineato che «Israele non deve cambiare atteggiamento verso il presidente, anche perché nel sistema istituzionale palestinese poteri importanti rimangono nelle sue mani anche in caso di coabitazione con un governo di segno politico opposto». Peres, come prima Olmert e il ministro della Difesa Mofaz, hanno ribadito a Rutelli, i tre punti irrinunciabili per aprire un eventuale dialogo con Hamas: riconoscimento dello Stato di Israele, rinuncia completa alla violenza e adesione agli accordi di Oslo.

 

Palestina. 14 febbraio. Il parlamento palestinese uscente, con metodo e merito fortemente discutibile e a ben vedere anti-democratico, ha conferito nuovi poteri al presidente Abu Mazen, compreso quello di sciogliere il parlamento ed indire nuove elezioni in caso di dissenso politico tra il parlamento stesso ed il suo presidente. Nella legge approvata nella sua ultima seduta, si conferisce al presidente Abu Mazen anche il potere di nominare una nuova corte costituzionale, composta da nove giudici, con il compito di risolvere le contese tra il presidente del parlamento e il governo ed il parlamento stesso. È probabile che i giudici nominati apparterranno a Fatah o agli organismi alleati, e dal momento che questa corte emanerà giudizi inappellabili è evidente che questa nuova legge rafforza il ruolo del presidente Abu Mazen nei confronti di un nuovo governo guidato da Hamas. Ahmed Mubarak, parlamentare di Hamas, ha dichiarato che questa legge è illegale perché il parlamento uscente non ha l’autorità di emanare emendamenti alla costituzione.

 

Palestina. 14 febbraio. Destabilizzare il governo palestinese. È questo l’obiettivo dell’incontro di alti esponenti dei governi statunitense ed israeliano di cui riferisce The New York Times. Il Piano sarebbe questo: chiusura totale dei finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e creazione di uno stato di indigenza tale da creare scontento nella popolazione verso Hamas, indizione di nuove elezioni e recupero della maggioranza da parte di Fatah. Nayef Rabjoub, portavoce di Hamas nel West Bank meridionale, ha commentato: «Non ci meravigliano questi tentativi di destabilizzazione. Se realmente Israele vorrà impedire l’applicazione della democrazia sarà evidente a tutta la comunità internazionale che Israele è anti-democratico ed è una potenza occupante criminale».

 

Palestina. 14 febbraio. «Tre le priorità» del futuro governo a guida Hamas, «nessuna delle quali è caduca o meno importante delle altre». Le sintetizza così un suo esponente, Moshir Al Masri: «la prima priorità è il rafforzamento dell’unità interna perché è chiaro che è questa unità che protegge il campo palestinese da ogni sviluppo pericoloso. La seconda è il rafforzamento della partecipazione politica, che rappresenta un’opzione in grado di salvare la scena palestinese dall’attuale marasma. Il terzo punto è il rafforzamento del programma della resistenza come scelta strategica del nostro popolo, finché un’occupazione continuerà a pesare sulla nostra terra e finché dura l’aggressione continua contro il nostro popolo. Questa è stata la scelta di tutte le rivoluzioni del mondo, compreso in Europa e in America. Si tratta di una scelta riconosciuta dal diritto internazionale. Noi pensiamo che uno dei principi della democrazia consiste nell’accettazione dei risultati delle elezioni. La nazione non è il monopolio di nessuno, essa appartiene a tutti. Il movimento Hamas ci tiene a rassicurare tutto il mondo, l’Europa, l’America e il mondo intero, così come l’Autorità palestinese: noi non abbiamo alcuna intenzione di prendere il posto di nessuno in queste elezioni, né di contestare nessuno. Noi vogliamo consacrare una nuova tappa, quella della partecipazione politica, per farla finita con l’esclusiva nella presa delle decisioni in Palestina.
Il fatto che Hamas abbia concluso alleanze con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, o con altre organizzazioni, conferma che non si tratta di un movimento settario, né sclerotico, né ripiegato su se stesso. Hamas è un movimento che si afferma come una pagina aperta a tutti, come un movimento pronto ad allearsi con tutti i figli del nostro popolo, per difenderne gli interessi superiori, nel quadro di un cambiamento e di una riforma
reali nell’arena palestinese. Da qui deriva il sostegno dato da Hamas a un candidato di sinistra per il posto di sindaco di Ramallah, un sostegno che non costituisce affatto un caso isolato, tutt’altro. Noi diciamo a tutti che non vogliamo prendere il posto di nessuno, non vogliamo cacciare nessuno. Vogliamo vivere un’esistenza degna e tranquilla, al riparo da tutti i fenomeni di degrado e corruzione che la scena palestinese conosce da dieci anni. Noi vogliamo accordarci su una strategia ben definita che protegga i diritti del popolo palestinese e conservi le sue conquiste, senza fare considerazioni sulle appartenenze di questi alleati: è sufficiente che siano palestinesi e che vogliano servire la causa del popolo palestinese».


Palestina. 14 febbraio. Sul programma sociale ed economico del futuro governo a guida Hamas, significativo quanto dichiara un altro suo esponente, Al-Zahar. Non saranno imposti né la religione e nemmeno il velo, dice. L’educazione sarà un programma di resistenza. Il turismo non sarà un programma di nudi, alcool e casinò, ma un turismo di resistenza che attirerà musulmani ed arabi. I palestinesi promuoveranno la piccola industria, attireranno investimenti e non avranno dipendenza economica dal nemico israeliano. Per combattere la corruzione verranno soppressi 37mila lavori immaginari nei servizi di sicurezza egemonizzati da Fatah e nessuno potrà usare le armi a scopo di vendetta. I militanti di Fatah e delle altre fazioni, assicura Al-Zahar, non devono avere paura perché non faremo alcuna ingiustizia. Devono sapere che preserveremo la loro vita, denaro ed onore. Per capire il contesto di quest’ultimo passaggio, leggere la notizia successiva.

 

Palestina. 14 febbraio. Hamas ha fondati argomenti di aspra critica nei confronti di certa dirigenza di Fatah e particolarmente delle sue figure istituzionali più in vista. È un esponente di Hamas, Moshir Al Masri, a circostanziarli, usando molta accortezza espressiva e manifestando la saggezza politica che Hamas ha sinora adottato per non cadere nel disegno sionista, perseguito da tempo, di provocare una guerra civile tra palestinesi. «La politica verso il movimento Hamas dello scomparso presidente Yasser Arafat», dice Al Masri, «è stata una politica fluttuante, che cambiava da un momento all’altro. Una cosa è certa: nel 1996, l’Autorità palestinese ha condotto una politica di arroganza e arbitrarietà verso Hamas; ha gettato in carcere i suoi militanti e dirigenti, fino a imporre gli arresti domiciliari a Shaykh Ahmad Yassin. Siamo stati pazienti, abbiamo superato le nostre ferite. Non per debolezza, ma per rispetto per il sangue palestinese e per conservare l’unità nazionale. Al contrario, ci sono stati periodi in cui il rapporto tra Hamas e il presidente Arafat era un rapporto solido: c’è stata un’interazione. Questo rapporto, si vede, non era monocolore: al contrario, ha assunto numerosi colori diversi, dei più vari. Per quanto riguarda i nostri rapporti con il presidente Abu Mazen fino a oggi, questi si è dimostrato un debole. Noi ci siamo trovati d’accordo con lui su molti punti, ma le decisioni prese non sono state tradotte concretamente sul campo, e fino ad ora è impossibile fare una vera valutazione della sua politica. Da una parte perché l’esperienza non è abbastanza lunga da permettere tale valutazione, ma soprattutto, d’altra parte, perché Abu Mazen non ha mai realmente applicato alcun progetto sull’arena politica palestinese, per quanto possiamo giudicare. Sugli arresti e gli omicidi “mirati”, bisogna sapere che non avrebbero mai potuto aver luogo senza la collaborazione dei servizi di sicurezza palestinesi con lo Shin Bet (servizio segreto militare israeliano); è evidente che esiste tutta una rete di traditori, che vanno e vengono liberamente in Palestina. Sono loro che giocano un ruolo essenziale e diretto nelle operazioni israeliane di eliminazione. Lo stesso vale per le incursioni e le perquisizioni. Purtroppo, l’Autorità palestinese non è stata all’altezza delle sue responsabilità, in questo campo, e noi non abbiamo voluto assumerci i compiti di ordine pubblico, per non creare dissensi nel campo palestinese, e anche perché non si potesse dire che noi avevamo uno Stato nello Stato. Noi dirigiamo le nostre armi solo contro quelli che ci aggrediscono, e spetta alla giustizia palestinese prendere le proprie responsabilità e risolvere ogni problema interno. È evidente che l’Autorità palestinese si è legata le mani da sola firmando accordi che ci proibiscono di perseguire i traditori che praticano l’omicidio dei nostri concittadini e indicano alle forze di occupazione i luoghi in cui si nascondono i (resistenti, ndr) palestinesi ricercati per essere arrestati o, ancora più spesso, assassinati».

 

Palestina / Venezuela. 14 febbraio. Caracas accetterebbe con piacere una visita dei capi di Hamas. Lo ha fatto sapere il presidente venezuelano Hugo Chávez.

 

Israele. 15 febbraio. Ahmad Ali Ahmad, dirigente di Hamas, eletto deputato alle politiche del 25 gennaio scorso, è stato liberato da Israele. Il neo deputato, eletto nella circoscrizione di Nablus, è stato trasferito dal carcere israeliano nel deserto del Neghev a un posto di controllo militare all’ingresso di Hebron, dove è stato liberato. Nelle carceri israeliane ci sono altri 13 neo-deputati palestinesi. Il più famoso è Barghuti, capolista di Fatah, che sconta una condanna a 5 ergastoli.

 

USA / Iran. 15 febbraio. 75 milioni di dollari per destabilizzare l’Iran dall’interno. Durante un’audizione alla Commissione estera del Senato, Condoleezza Rice, segretario di Stato USA, ha annunciato che il presidente Bush intende chiedere al Congresso di autorizzare una spesa di 75 milioni di dollari per contribuire alla «diffusione della democrazia» in Iran. Lo stanziamento andrebbe ad aggiungersi ai 10 già previsti a tale fine nella bozza di bilancio 2006-07.