India-Pakistan, venti di guerra
di Guido Rampoldi - 27/12/2008
A UN MESE dall`attacco terroristico contro Mumbai, India e Pakistan sono da ieri impegnate in un nuovo round di gesticolazioni minacciose, in teoria innocue.
Ma potenzialmente in grado di suscitare, di qua e di là del confine, quella pericolosa so- vreccitazione perla quale anche un incidente futile diventa una sfida irrevocabile all`onore nazionale.
Nessuno dei due governi ha il minimo desiderio di rischiare una guerra, per giunta una guerra tra due potenze nucleari; e un attrito militare non è certo negli auspici di cinesi e americani, che infatti in queste ore raddoppiano gli sforzi per sedare le tensioni.
Ma tanto nel fondamentalismo pachistano quanto nell`estremismo induista, ciascuno coni suoi interlocutori in apparati militari, non mancano "partiti della guerra" cui tornerebbe assai utile uno stato di mobilitazione permanente, se non addirittura un conflitto armato.
La presenza di questi spettri vieta di liquidare come vuoti e irrilevanti i gesti teatrali delle ultime ore. La sequenza è piuttosto enigmatica. Dopo l`esplosione di bombe a Lahore e a Multan, i servizi segreti pachistani hanno fatto sapere di aver arrestato un presunto agente del Raw, lo spionaggio indiano.
Quindi lo stato maggiore ha spostato alcune brigate dal confine con l`Afghanistan al confine con l`India. E il governo ha avvertito che il Pakistan avrebbe risposto ad ogni attacco indiano, affermazione del tutto ovvia ma in quel contesto inevitabilmente minacciosa. A sua volta il premier indiano Manmohan Singh hariunito lo stato maggiore per ascoltare la relazione dei generali sulle misure adottate per far fronte «alla minaccia di attacchi convenzionali». Il governo ha chiesto ai cittadini indiani di evitare il Pakistan. E il ministro degli Esteri ha accusato Islamabad di montare un`isteria bellica per sottrarsi alla richiesta della comunità internazionale:
arrestare gli «elementi dal Pakistan» che «un`ampia evidenza» porta a considerare responsabili dell`attacco a Mumbai.
Quest`accusa è ragionevole.
Spostare truppe dal confine afgano al confine indiano è il modo classico col quale lo stato maggiore pachistano ricorda all`Occidente il proprio potere contrattuale: se le pressioni americane ed europee fossero eccessive, Islamabad potrebbe sollevare le sue truppe dal com- ` pito di arginare lafflusso di Taliban pachistaniinAfghanistan. E le difficoltà per la Nato aumenterebbero.
Ma quanto è affilata questa minaccia? Se è vero che in alcuni distretti afgani già ora più dellametàdeiTalib an ha nazionalità pachistana, come affermano comandi Nato, ne risulta che l`esercito di Islamabad non è in grado di arrestare quel flusso. Del resto non controlla ampi territori alconfine conl`Afghanistan, come dimostra la progressiva talibanizzazione di intere province, per esempio lo Swat, dove il divieto alle bambine e alle ragazze di andare a scuola, pena la morte, di fatto è applicato. Infine non sono soltanto gli occidentali, ma anche gli alleati storici sauditi e cinesi, a chiedere al Pakistan di liquidare organizzazioni terroristiche che fino a ieri erano parte del sistema di difesa nazionale, e forse tuttora mantengono relazioni con apparati militari del Paese.
Mentre la rupia precipita e la crisi alimentare incalza, Islamabad avrebbe tutto l`interesse a dimostrare con gesti eclatanti un certo ravvedimento operoso.
Ma se il governo pare disponibile, non altrettanto sembrano i generali. II risultato è un immobilismo molto pericoloso, perché potrebbe convincere definitivamente gli occidentali a credere a quei diplomatici indiani che affermano: il Pakistan è uno Stato fallito, una causa persa, un caos irrisolvibile nel quale galleggia una governo irrilevante.
In realtà il Pakistan è malmesso ma non è affatto condannato.
Il governo esercita un`autorità relativa sullo stato maggiore, ma il suo desiderio di concludere una pace definitiva con l`India è autentico (e coraggioso, considerando i rischi personali che comporta). Infine onestà richiede che si finisca di considerare il terrorismo come un portato esclusivo delle dittature, o una vocazione delle società musulmane.
Già al tempo della guerra del Peloponneso, chi per primo si risolse a sterminare villaggi come metodo di combattimento non fu l`oligarchia spartana ma la democrazia ateniese. Dunque non sorprende se oggi l`esercito della più grande democrazia del pianeta, l`India, ha sostenuto attivamente i Tamil Tigers, che non sono esattamente una filantropica, e combattuto la fazione non-terrorista del secessionismo kashmiro con metodi che tecnicamente ricordano il terrorismo.
Il politico più popolare della destra indiana non può andare a Washington perché gli Usa lo ritengono coinvolto nelle stragi di musulmani avvenuti nel Gujarat, per le quali in patria è impunito. E sull`ottima stampa indiana non è raro imbattersi nel sospetto che la polizia manipoli pesantemente indagini su attentati attribuiti ad organizzazioni islamiste. È abbastanza per guardare senza schemi manichei anche a quest` ultima tornata del conflitto tra India e Pakistan.