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Le vere cause della strage di Gaza

di Miguel Martinez - 05/01/2009

La differenza tra persone pensanti e buonisti sta nel capire che le guerre non sono come gli tsunami, una roba che scoppia e fa Vittime e Vittimi e noi mandiamo gli SMS di solidarietà.

No, le guerre richiedono un'interazione di un gran numero di uomini adulti e vaccinati che fanno scelte precise e pianificano per mesi o per anni. E spendono, o meglio fanno spendere, anche cifre inimmaginabili. Le guerre, a differenza delle risse tra scimpanzé o tra skinhead e militanti dei centri sociali, hanno quindi dei perché.

Perché Israele ha compiuto, e continua a compiere, la
strage di Hanukkah?

La giustificazione formale sono i razzi che Hamas ha permesso che altri gruppi lanciassero in risposta alle grandi operazioni militari israeliane dell'inizio di novembre; e che lo stesso Hamas si era offerto di fermare, in cambio di un'estensione della tregua alla Cisgiordania e la fine dell'embargo.

Ran HaCohen e altri critici israeliani sottolineano l'imminenza delle elezioni in Israele, dove in effetti il vacillante Ehud Barak sta godendo di un'improvvisa popolarità. Se quello che è tecnologicamente uno dei primi eserciti del mondo non è riuscito a battere un gruppo di guerriglieri nel minuscolo Libano, dovrà dimostrare almeno di riuscire a schiacciare un campo profughi come Gaza.

Ma qui siamo ancora nell'ambito della micropolitica. Molto più interessanti sono due analisi che affrontano nel complesso la questione del Medio Oriente. Analisi diverse ma non contrastanti.

La prima è di Abu Al-Sous (Salah Mansour), fondatore del sito PalestineRemembered.com .

Salah Mansour ci riporta a un tema che avevamo già discusso qui, parlando delle oligarchie arabe. Per quanto la Palestina sia una realtà piccola, si tratta del primo paese arabo in cui si sia potuto votare liberamente. Salah Mansour, che non è affatto un simpatizzante di Hamas, riconosce comunque il dato ovvio:
"Il controllo dei regimi arabi 'moderati' sul potere si fonda su un sostegno popolare molto limitato (in genere imposto ai popoli arabi dalle potenze occidentali); essi percepiscono quindi il messaggio di democrazia, speranza, resistenza, stato di diritto e soprattutto di accountability e trasparenza come una minaccia esistenziale al loro governo vacillante e poco democratica; hanno paura che questo messaggio di speranza possa andare oltre Gaza".
Ma esiste un contesto ancora più vasto, che viene analizzato in grande e affascinante dettaglio da Adam Hanieh, ricercatore di scienze politiche all'università di Toronto, in due lunghi articoli (prima parte  e seconda parte) tradotti dal sito di Resistenze.

In questi mesi, nei microscopici frammenti del territorio palestinese sotto il controllo di Abu Mazen, si sta implementando un "Piano di Riforma e Sviluppo Palestinese" (PRDP), che consiste nel
"formalizzare una rete spezzata di cantoni sotto controllo palestinese e zone industriali associate, dipendente dall’occupazione israeliana, ed attraverso la quale una massa di lavoro palestinese a basso costo viene sfruttata da gruppi di capitalisti israeliani, palestinesi ed altri regionali."
Il Piano ha aspetti catastrofici per la popolazione palestinese. Già gli israeliani si lamentano di vivere in un paese piccolo; ma in pratica il regime di Abu Mazen può contare su meno del 10% di tutta la Palestina, in zone prive di risorse e dove la stessa acqua viene dirottata in massima parte verso Israele; mentre Israele ha sostituito la forza lavoro palestinese con una massiccia immigrazione dall'est europeo e dall'estremo oriente.


Inevitabile quindi che la Palestina campi di lavori pubblici e sussidi statali, e in ultima istanza di aiuti (che Israele scarica soprattutto sui paesi europei). Adesso Abu Mazen si è impegnato a tagliare i posti statali, a congelare gli stipendi e a togliere le sovvenzioni alle bollette dell'acqua e dell'elettricità.

Allo stesso tempo, come documenta Hanieh, c'è una strategia statunitense molto più ampia,
"finalizzata allo sviluppo del libero flusso di capitali e beni (ma non necessariamente della forza lavoro) in tutta la regione del Medio Oriente. I mercati della regione saranno dominati da importazioni statunitensi, mentre la forza lavoro a basso costo, concentrata in "libere" zone economiche possedute dal capitale regionale ed internazionale, produrrà beni a buon mercato destinati ad essere esportati nei mercati di Stati Uniti, Unione Europea, Israele e del Golfo.

Un elemento centrale di questa visione è la normalizzazione e l’integrazione di Israele nel Medio Oriente. Gli Stati Uniti prevedono un Medio Oriente fondato sul capitale israeliano ad ovest e su quello del Golfo ad est, che, sorretto dai bassi salari, diventi una zona neoliberale che attraversi la regione. Ciò significa che la storica distruzione da parte di Israele dei diritti nazionali palestinesi deve essere accettata e consacrata da tutti gli stati della regione. Al posto della vera autodeterminazione palestinese (in primo luogo il diritto al ritorno per i rifugiati), sarà fondato uno stato artificiale nominale nelle isole dipendenti del territorio di Cisgiordania e Striscia di Gaza. Quest’obiettivo è un pre-requisito essenziale della strategia degli Stati Uniti nella regione."
Le devastanti misure imposte dal Piano ai palestinesi, oltre a favorire l'emigrazione - che per gli israeliani non guasta - dovranno servire ad avviare i palestinesi verso poli industriali a Jenin, Nablus e Tarqumiyyah, con capitali israeliani e turchi.
"I beni prodotti saranno esportati verso Stati Uniti, Unione Europea e gli stati del Golfo. L’Autorità Palestinese assumerà il ruolo di polizia nei confronti dell’esercito industriale di riserva composto da diversi milioni di lavoratori, chiusi dietro ai muri e ai checkpoints dei territori palestinesi. In cambio, la dirigenza dell’AP maneggerà le leve di uno stato, otterrà per sé i diritti a viaggiare e muoversi liberamente, e guadagnerà una quota degli utili che scaturiscono dalle zone.

In queste zone, le leggi sul lavoro palestinesi ed israeliane, i livelli salariali, le regolamentazioni ambientali, o le altre limitazioni riguardo i luoghi di lavoro non verranno applicate. I movimenti in entrata ed uscita dalle aree saranno controllati dalle forze militari israeliane e da quelle di sicurezza palestinesi."

E' interessante notare che la Turchia, o qualche forma di flessibile agenzia privata di sicurezza turca, dovrebbe garantire la "sicurezza" interna in queste zone.

La grande ristrutturazione prevede anche la conferma degli immensi espropri compiuti da Israele lungo tutta la valle del Giordano, che effettivamente chiudono i palestinesi fuori da ogni contatto con il mondo esterno. Questa zona dovrà diventare un orwelliano "Corridoio per la Pace e la Prosperità" (CPP), dove la grande agro-industria potrà sfruttare la manodopera locale.

In tutto questo, la complicità araba è fondamentale.

Da una parte, gli Stati Uniti tengono in piedi i governi di Egitto e Giordania.

Ci sono poi i sei paesi del "Golfo" (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Oman, Qatar, Emirati - in questi paesi, gli Stati Uniti oggi schierano 100.000 soldati), con le loro immense ricchezze.

Infine, c'è Israele.

I regimi arabi, i paesi del Golfo e Israele insieme, costituiscono i tre pilastri del dominio statunitense in Medio Oriente.

Ovunque, in questi anni, sono state imposte privatizzazioni (in particolare del petrolio) e tagli di spese sociali:
"E quest’anno in Egitto, dove il 22% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà fissato a 1 dollaro al giorno, e con i prezzi degli alimentari che sono più che raddoppiati rispetto l’anno passato, il governo alzò le imposte sui prezzi del combustibile che hanno portato ad un incremento di prezzo di più del 40% in una notte."
Per il 2013, è prevista un’Area di Libero Scambio per il Medio Oriente (Middle East Free Trade Area - MEFTA), che imporrà una politica neoliberista all'intera regione.

In questo contesto, Israele dovrebbe assumere un ruolo centrale, come già avviene con le Qualified Industrial Zones (QIZ) in Giordania ed Egitto: capitali provenienti da Emirati Arabi Uniti, Israele, Cina, Taiwan, e Corea sfruttano la manodopera in condizioni tremende, fornendo prodotti tessili alla grande distribuzione statunitense, prodotti che vengono ammessi senza dazi negli Stati Uniti. A proposito di nuove frontiere della globalizzazione, la manodopera è in massima parte costituita da immigrati dai paesi asiatici.

L'inserimento di Israele in questo circuito dipende in gran parte dall'annientamento della resistenza palestinese: l'ostica Gaza, assieme alla sorda rabbia di decine di milioni di abitanti del  Medio Oriente, è rimasta l'ultimo ostacolo.

Lo hanno capito molto bene le
centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato in Egitto - e ci vuole parecchio coraggio - contro la strage di Gaza.

Non lo hanno fatto solo per solidarietà con i palestinesi, ma perché hanno colto, per forza di cosa, come la questione mediorientale sia unica e come Gaza sia il granello di polvere nell'ingranaggio del dominio.

L'ultima carovana di aiuti a Gaza, che sembra che la polizia di Mubarak non oserà fermare, è stata inviata dai lavoratori in lotta di
Mahalla, proprio una delle Qualified Industrial Zones.