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La crisi di Gaza e l'asse euromediterraneo

di Franco Cardini - 09/01/2009

La crisi di Gaza è pervenuta a una straordinaria gravità: prima di pensare alle responsabilità e, soprattutto, ai rimedi, bisogna rendersi conto di questo. Il primo errore commesso al riguardo – da tutti: Israele, i dirigenti palestinesi, gli Stati Uniti che della politica israeliana sono garanti unilaterali da circa un quarantennio, la comunità internazionale – è stato il tollerare che si arrivasse a tanto.

Per troppo tempo abbiamo accettato una situazione inaccettabile sotto il profilo del diritto internazionale e delle concrete condizioni di vita che essa imponeva: il perpetuarsi senza limiti reali di tempo dell’occupazione militare israeliana sui territori palestinesi che avrebbero dovuto essere sgombrati fin dal 1967; il rinvio sine die della nascita d’un vero stato palestinese; il graduale trasformarsi della causa palestinese da nazionale (com’era secondo al-Fatah) in religiosa (com’è diventata con Hamas che negli Anni Settanta, al suo sorgere, è stata favorita – non dimentichiamolo – dalle autorità israeliane le quali ritenevano allora la religione musulmana meno pericolosa del nazionalismo arabo); il mancato rispetto della volontà dei palestinesi dopo aver consentito loro libere elezioni nel 25 gennaio 2006 e l’acritico appoggio al golpe di Abu Mazen; la costruzione del “muro” e l’impianto degli insediamenti di coloni israeliani sui territori palestinesi; il lungo embargo a Gaza, ormai protrattosi da un anno e mezzo, che si è trasformato in un autentico assedio e le condizioni del quale, durante la tregua scaduta alla fine del dicembre scorso, non sono state per nulla alleviate.

Sul “Corriere” del 7 gennaio, Bernard-Henry Lévy sostiene la tesi che i palestinesi siano “ostaggi” di Hamas, e che sarebbe quindi opportuno liberarli. D’accordo: il punto è capire chi li abbia indotti ad accettare quella tutela. Gran parte dei palestinesi ha accettato nei mesi scorsi il messaggio fondamentalista ed estremista di Hamas perché a ciò trascinata dalla disperazione e dall’esasperazione. E' appunto quel che Israele, gli Stati Uniti e la comunità internazionale avrebbero dovuto evitare. Oggi, infierire su Gaza con l’obiettivo – evidente, per quanto non esplicitamente dichiarato – di costringere i suoi abitanti a “liberarsi” dei dirigenti che si sono scelti (come? A che prezzo?) significa causare altri lutti e quindi assecondare proprio il disegno delle ali estreme della società palestinese: le quali sono convinte che il martirio del loro popolo gioverà al radicarsi della loro causa, screditerà definitivamente l’ANP e obbligherà il resto del mondo arabo e musulmano a intervenire allargando il conflitto. Questo è cio che vogliono e che bisogna evitare; qui sta il nucleo terroristico del loro progetto politico, che bisogna battere. E i bombardamenti, i massacri, non lo ostacolano: al contrario, lo stanno aiutando. Essi non disarmano i terroristi; anzi, procurano loro nuovi adepti. A parte le generiche minacce di al-Quada, impossibili a valutarsi, dal Libano sta già arrivando la risposta concreta che i fautori dello scontro – dall’una e dall’altra parte – si aspettavano e si auguravano. Quale potrebb’essere il nuovo passo, verso quali obiettivi potrebbe puntare la strategia del coinvolgimento? La Siria? L’Iran? E poi? Non scherziamo: il momento è gravissimo e il tempo che ci rimane è forse molto meno di quanto non si creda.

Il presidente Obama si è finalmente mosso, “preoccupato” per le vittime civili del conflitto e per quello che, con molta indulgenza, si potrebbe definire un “eccesso di legittima difesa”. Ma qui non siamo dinanzi solo a una rappresaglia troppo dura: ancora una volta, non dimentichiamo il diritto internazionale, che regola anche il diritto di rappresaglia, il quale prescrive anche che, quando una potenza occupa militarmente un territorio straniero, essa sia la responsabile principale di tutto quel che vi avviene. L’unico governo democratico del Vicino Oriente, proprio perché è tale e nella misura in cui lo è, non può ignorare queste precise responsabilità.

Ma Obama evidentemente non basta. Perché è soltanto alla soglia della presa di potere, perché deve tener conto di troppo forti condizionamenti interni, perché la sua vittoria ha segnato la fine dell’unilateralismo in politica internazionale. Ecco perché il dato sul serio nuovo è l’asse euromediterraneo disegnatosi quasi per caso, e affermatosi sulla perentoria base dell’emergenza, tra la Francia di Sarkozy e l’Egitto di Mubarak. Questa è la strada da percorrere: ma è necessario che i due protagonisti dell’iniziativa non siano lasciati soli e non vengano affiancati solo da potenze che il mondo arabo-palestinese potrebbe a torto o a ragione ritenere esclusivamente “filoccidentali”. E' necessario rivolgersi anzitutto agli altri paesi europei e arabi, quindi alla Russia e alla Cina. E' necessario non escludere dai contatti la Siria ed evitare un atteggiamento di chiusura assoluta e pregiudiziale nei confronti dell’Iran. La diplomazia basata sulla demonizzazione degli “stati-canaglia”, cara al non compianto Bush, non ha portato a nulla di buono. Solo a queste condizioni sarà possibile a Obama scendere sul serio in campo e assumere appieno il ruolo che obiettivamente gli spetta.

Soprattutto, i palestinesi debbono capire che la via del terrorismo porta solo all’instaurarsi di una spirale di violenza che schiaccerebbe loro per primi. E gli israeliani debbono capire che la loro sicurezza – un bene primario, che è caro a tutti noi – non passa attraverso la repressione militare del terrorismo, bensì attraverso la soluzione politica dei problemi di tre milioni e mezzo di palestinesi. Una soluzione politica equa, che la società civile internazionale attende ormai da un sessantennio e che è la sola a poter porre le basi anche per una soluzione economica: che a sua volta, attraverso un minimo dignitoso livello di benessere, potrebbe disarmare il vero Missile Qassam che gli israeliani temono. Quello della crescita demografica dei loro vicini.