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Nella Chiesa cresce la fronda pro Palestina

di Giacomo Galeazzi - 09/01/2009

 

 


L’equiparazione tracciata dal cardinale Renato Martino tra Gaza e i campi di concentramento ha rinfocolato la polemica ebraica con il Vaticano «antisionista» e ha suscitato la sdegnata protesta del governo israeliano: «La Santa Sede fa propaganda per Hamas». In realtà, nei Sacri Palazzi, il ministro di «Giustizia e Pace» non è l’unico a ritenere che non ci sarà pace in Terrasanta «finché non lo vorranno i padroni ebrei della finanza e della politica Usa, come dimostra mezzo secolo di veti sul Medio Oriente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu». Riprendono voce i protagonisti del dialogo «sotto traccia» con la galassia palestinese («in primis» l’arcivescovo Michel Sabah), anche se in Segreteria di Stato assicurano che «le buone relazioni con l’ebraismo sono una priorità e una conquista da cui non recedere». In Vaticano il ministro degli Esteri, Dominique Mamberti e il cardinale Walter Kasper lavorano per bilanciare le spinte più critiche verso Israele, anche in vista del viaggio papale di maggio. I principali interlocutori del «partito cattolico pro-palestinesi» sono la «Piattaforma delle Ong italiane per la Palestina», le associazioni di volontariato come «Donne in nero», il Coordinamento nazionale enti per la pace e gli enti promotori della marcia della pace Perugia-Assisi.  I documenti ufficiali dei movimenti cattolici più vicini alle «ragioni del popolo palestinese» convergono nell’individuare la causa della devastante crisi in quella «politica d’aggressione che ha portato il governo israeliano a raddoppiare gli insediamenti in territorio arabo». Toni analoghi al «J’accuse» del cardinale Martino per «le orribili condizioni che a Gaza costringono la gente a vivere in un enorme lager, contro ogni dignità umana». La Chiesa, osserva il teologo Gianni Baget Bozzo, «parla il linguaggio delle proprie comunità locali e non può restare estranea alle sofferenza dei propri fedeli palestinesi». Un conto è il confronto teologico con l’ebraismo «mai così avanzato come oggi», sottolinea don Baget Bozzo, un altro è «accogliere e far proprie le legittime rivendicazioni dei cristiani di Terrasanta nei confronti di Israele». La «sproporzionata» offensiva di Israele nella Striscia ha fatto riemergere la predilezione palestinese di movimenti pacifisti («Beati i costruttori di pace», Pax Christi), parroci di frontiera come don Albanesi e don Ciotti, cattolici no-global della Rete Lilliput, terzomondisti di «Nigrizia» e del «Centro nuovo modello di sviluppo», congregazioni missionarie (soprattutto Saveriani e Comboniani), comunità di base, ma anche gerarchie e settori importanti della diplomazia pontificia.  
Epicentro dell’avversione verso Israele è il Patriarcato latino di Gerusalemme, mentre ciò che unisce un arcipelago tanto composito di sigle, personalità, orientamenti e «scuole» ecclesiastiche è l’idea-chiave, ovvero che la radice di tutte le violenze vada ricercata nell’occupazione militare israeliana dei Territori palestinesi. Una rete di solidarietà ecumenica che unisce a Roma anche le chiese greco-ortodossa e armena nella condanna della politica di potenza d’Israele. Gli uomini di punta del «partito palestinese» sono il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal e il vicario apostolico di Beirut, Paul Dahdah, che ieri ha gridato allo «sterminio», accusando l’Onu di «non essere imparziale». Peccato, poi, se quando a Roma sfilano manifestanti anti-Israele vestiti da kamikaze e bruciano le bandiere dello Stato ebraico, non manca mai nel corteo l’arcivescovo Hilarion Capucci, espulso da Gerusalemme ed «esiliato» nel quartiere Eur a causa del suo sostegno non solo spirituale ai «patrioti palestinesi».