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La classe politica prenda ad esempio Giulio Andreotti

di Massimo Fini - 14/01/2009

 

Giulio Andreotti ha compiuto novant’anni. Confesso che sono un po’ affezionato al «divo Giulio», come a Mike Bongiorno o a una vecchia zia, perché erano già su piazza quando io ero bambino e finché esistono posso ancora illudermi d’essere un ragazzo. Ma ci sono ragioni più solide per cui nutro simpatia e una sincera stima per Giulio Andreotti.
L’ho incontrato due sole volte. La prima fu per un’intervista. Correvano i primi anni Ottanta ed io, dopo essermi dimesso dall’Europeo, lavoravo per un piccolo mensile, «Pagina». Poiché eravamo quasi un samizdat avevamo difficoltà a intervistare politici anche di seconda schiera. Volevamo fare una grossa inchiesta intitolata «Togliere la capitale a Roma», un’intuizione prebossina. E fra le persone da sentire ci sembrava essenziale l’onorevole Andreotti, romano per giunta. Telefonai, senza molte speranze, alla sua segretaria, la mitica Enea che mi chiese l’argomento dell'intervista, i miei tempi e quanto avrei tenuto occupato Andreotti. Risposi che il discorso era complesso e che avevo bisogno di un’ora. L’Enea disse che mi avrebbe dato una risposta nel giro di mezz’ora. E così fu. Mi disse che Andreotti mi avrebbe incontrato a Milano, in un centro cattolico a due passi dall’aeroporto e che poteva darmi solo quaranta minuti perché subito dopo doveva partire per Roma. Stupii. Se fosse stato un giornalista tedesco o scandinavo sarebbe stato normale perché in quei civili Paesi si fa proprio così: si telefona alla segretaria del ministro e in un’ora si ha una riposta. Ma sono un giornalista italiano e so che per intervistare anche politici di mezza tacca bisogna prima strusciarsi a una pletora di portaborse.

Ci incontrammo all’ora fissata. Andreotti era seguito da una sua piccola corte. Entrammo in una grande sala vuota occupata solo da un tavolo e due sedie. La corte rimase rispettosamente sulla porta, aperta. Poi il «divo Giulio» fece un cenno, la porta si richiuse e rimanemmo soli. In quel momento pensai che avrei potuto uccidere Andreotti. Di tutti gli uomini politici che ho incontrato, anche della vecchia leva (e ci sono personaggi come Fanfani, Nenni, Amendola, Malagodi) che era molto più preparata e colta dell’attuale, Andreotti è quello che conosce meglio la macchina dello Stato, i meccanismi istituzionali, la burocrazia, l’amministrazione oltre che la storia e lo dimostrò anche in quella piacevolissima conversazione.

Il secondo incontro fu più bizzarro. Mi trovavo all’ippodromo delle Capannelle e camminavo a testa china leggendo «Il Cavallo», quando mi scontrai con un uomo che stava facendo la stessa cosa. Gli caddero gli occhiali, li raccolsi e glieli porsi. Rialzandomi mi accorsi che era l’onorevole Andreotti. Solo. Senza scorta. Probabilmente l’avrà anche avuta ma non si vedeva. E anche questa è una lezione di stile agli scalzacani che oggi girano con al seguito eserciti privati, intesi come status simbol.

Andreotti avrebbe anche potuto essere il mandante dell’omicidio Pecorelli (è stato assolto) ma in ogni caso ha dimostrato sempre di avere senso dello Stato e di essere classe dirigente. Sottoposto a un logorante procedimento penale durato sette anni si è difeso nel processo e non ha mai detto di essere vittima di un «complotto» della magistratura. Perché una classe dirigente che ha senso di se stessa non delegittima le Istituzioni. Perché sa che sono le «sue» Istituzioni. A differenza degli avventurieri e degli uomini «après moi le deluge».
Ma il capolavoro di Andreotti è stato in politica estera. In tempi in cui, a differenza di oggi, l’alleanza con gli Stati Uniti era obbligata, per contenere «l’orso russo», è riuscito a fare una politica relativamente autonoma dagli americani, soprattutto nei confronti dei Paesi arabo-musulmani che noi, a differenza degli Usa, abbiamo sull’uscio di casa. Una politica intelligente, e rischiosa, i cui frutti cogliamo ancora oggi.

In un altro Paese europeo Giulio Andreotti sarebbe stato un grande uomo di Stato. Da noi ha dovuto arrangiarsi, compromettersi, avere anche, prima del 1980, rapporti ambigui con la mafia. Ma in quegli anni li avevano tutti, compresi (vedi Gunnella) i repubblicani dell’integerrimo Ugo La Malfa.
Per cui, onorevole Andreotti, io l’assolvo dei suoi peccati, se li ha, e le auguro di arrivare a cent’anni. Ma sono sicuro che lei mi risponderebbe come quel Papa: «Non mettiamo limiti alla Divina Provvidenza».