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Azioni USA e reazioni islamiche

di Piero Visani - 21/02/2006

Fonte: lineaquotidiano.it


Fino a qualche settimana
fa, lo scontro in atto
fra una certa visione
dell’Occidente e una certa
visione dell’Islam è sempre
stato un confronto impari,
perché i seguaci dell’islamismo,
in particolare quelli della
sua interpretazione più
radicale, hanno impostato la
lotta sugli aspetti più propriamente
militari, trascurando
tutto il resto. In termini di
guerra asimmetrica e volendo
(…) esclusivamente la parola
alle armi, e per di più alle armi
del terrore, è una strategia senza
futuro. L’impatto iniziale –
è vero – è molto forte e con
mezzi modestissimi si posso
ottenere risultati politicamente
eclatanti, ma poi si deve subire
una reazione pesante e violentissima,
che non si esaurisce
certo sul piano militare, ma
punta direttamente alla conquista
“delle menti e dei cuori”,
vale a dire dell’immaginario
collettivo, entro la cui cornice
si procede alla delegittimazione
dei “cattivi”.
Si può a buon diritto sostenere,
a questo proposito, che l’America
di George W. Bush ha
fatto ben poco per conquistare
l’immaginario collettivo del
mondo islamico, anzi ha fatto
di tutto per alienarselo. Allo
stesso tempo, tuttavia, si deve
riconoscere che ha fatto invece
parecchio per mantenere uno
stretto controllo sull’immaginario
collettivo occidentale,
come al solito mediante i
media, il cinema, le fiction
televisive.
La novità che si sta delineando,
sia pure in forma ancora
embrionale, è che il mondo
islamico ha compreso la lezione
e sta tentando di contrastare
questa egemonia metapolitica
con mezzi uguali e contrari,
avendone finalmente percepito
le straordinarie capacità di
persuasione e di generazione
di consenso. Molti sono gli
esempi che si possono addurre
in questo senso e il primo e
più importante concerne – fatto
ancora più significativo –
non il radicalismo islamico più
esasperato, ma un Paese come
la Turchia, da sempre schierato
a fianco degli Stati Uniti.
Qui è appena uscito nelle sale
cinematografiche un kolossal
da 10 milioni di dollari, il film
più costoso mai realizzato nella
storia del cinema turco, intitolato
La Valle dei Lupi: Iraq.
Prendendo lo spunto da una
vicenda vera, accaduta nel
luglio 2003 e riferita – superfluo
sottolinearlo – ai metodi
lievemente rudi che gli americani
sono soliti riservare anche
agli alleati, se solo hanno
qualche difficoltà ad identificarli
come tali (ed a quanto
pare capita spesso), la pellicola
in questione utilizza tutti gli
stereotipi della cinematografia
hollywoodiana per delineare
un mondo manicheo, dove tutti
i “buoni” sono turchi e tutti i
“cattivi” statunitensi. Trionfale
successo nelle sale e preoccupate
reazioni in Occidente,
dove nessuno appare gradire
più di tanto che gli ingredienti
dell’egemonia metapolitica
americana su scala planetaria
vengano copiati e destrutturati
da qualcuno deciso a farne un
uso di segno uguale e contrario.
E non è tutto, poiché la lotta
per la conquista delle “menti e
dei cuori” viene spinta molto
più in là nell’Islam più radicale,
basti pensare alle iniziative
del presidente iraniano Ahmadinejad
intese a sottolineare
l’impiego strumentale da parte
occidentale, per fini di politica
spicciola, di una problematica
come quella dell’Olocausto,
spesso tirata in ballo esclusivamente
per coprire realtà
sgradevoli di oggi.
Lo stesso contenzioso apertosi
sulle vignette danesi critiche
nei confronti del profeta Maometto
è stato risolto dai soliti
stolti con attacchi alle ambasciate
e l’incendio di qualche
bandiera, ma ha provocato
pure reazioni meno isteriche,
come quelle di coloro che, nel
mondo islamico, hanno avuto
l’accortezza di sottolineare che
anche nel mondo cristiano esiste
uno “zoccolo duro” di persone
che non sono particolarmente
disponibili ad accettare
a cuor leggero critiche e sberleffi
contro Gesù Cristo, e che,
comunque, l’irriverenza contro
la religione dominante disturba
– proprio come nell’Islam -
molte coscienze.
Pare dunque essersi aperta una
fase nuova, in cui “i cattivi”
non si rassegnano ad accettare
il ruolo che è stato assegnato
loro da gran parte dei media
occidentali, ma provano a
riscrivere le sceneggiature, ad
operare una loro “costruzione
di realtà”, a fare il loro ingresso
nel delicato e al tempo stesso
cruciale campo della strategia
mediatica, a non lasciare
all’avversario il monopolio
della metapolitica. Per il
momento, per entrambi i campi
la grande discriminante è
rappresentata dal fatto che le
rispettive strategie sono ancora
autoreferenziali: gli americani
pensano al dominio metapolitico
del mondo occidentale
occidentale
e, nella migliore delle ipotesi,
a quello dei Paesi che, in
questo “scontro di civiltà”,
sono o si considerano neutrali;
l’universo islamico pensa
soprattutto a ribadire il senso
della propria battaglia e ad
inquadrarla finalmente in una
storia di riferimento, in un
contesto di legittimazione che
non sia (o non sia soltanto)
politico, ma metapolitico,
emotivo, addirittura psicologico.
E tale autoreferenzialità
trova un ulteriore e gravissimo
limite nel fatto che, da un lato,
realtà come quelle di Abu
Ghraib, Guantanamo o delle
violenze gratuite di militari
assai poco sensibili alle modalità
vere con cui si vincono le
guerre, minano alla radice i
buoni propositi, le dichiarazioni
di intenti e gli sforzi per
costruire loro un’adeguata
cornice di legittimazione;
mentre, dall’altro lato, le violenze
estremistiche e gli atti di
terrorismo impediscono di
evidenziare correttamente la
legittimità di una battaglia
indipendentista e identitaria.
La fase successiva – quella
decisiva – sarà la fase della
ricerca di un consenso eteroreferenziale,
basato cioè sulla
capacità di far convergere le
opinioni di una quota significativa
degli attuali avversari
su una parte almeno del proprio
sistema di valori. Per il
momento, stretti come siamo
tra “esportazione a mano
armata della democrazia” e
terrorismo, questa fase appare
ancora lontana, ma nessuno
dei due contendenti ignora che
intorno ad essa si gioca la partita
decisiva. Sempre di conquista
si tratta, ma “delle menti
e dei cuori”, non certo del
territorio.