In un’attenta analisi, Tim mcGirk si interroga sulle motivazioni che hanno indotto Israele ad attaccare il movimento islamico Hamas a Gaza e sulla difficoltà di uscire dall’impasse che da diversi decenni determina l’instabilità della regione. Secondo l’autore, Israele si è sentito in obbligo di dimostrare di poter reagire al lancio di missili di Hamas e Hezbollah, interrompendo contemporaneamente il flusso di aiuti finanziari e i militari provenienti dall’Iran. Tuttavia, proprio la violenza degli attacchi potrebbe allontanare gli Stati arabi moderati da Israele. Il secondo fattore determinante sarebbe la consapevolezza israeliana che le sorti della bilancia demografica pendono da parte degli arabi e che quindi, per conservare il carattere ebraico dello Stato, è necessario rinunciare all’idea sionista di un grande Israele.
Mentre le truppe israeliane circondano Gaza, i loro comandanti devono risolvere un doloroso dilemma: fino a che punto avanzare in quel micidiale labirinto di baracche e campi profughi in cui li aspettano le mine e i cecchini di Hamas. Ogni giorno che passa, l’utilità dell’offensiva è sempre meno evidente di fronte ai suoi costi, e la guerra contro Hamas diventa sempre più una minaccia per l’immagine di Israele, per la vita dei civili palestinesi e per le speranze del mondo di veder risolto un conflitto che ha radici lontane. In questa guerra combattuta anche in tv, gli israeliani vorrebbero assistere a una resa incondizionata: una scena in cui i militanti di Hamas strisciano fuori dai bunker sotterranei con le mani alzate. Invece c’è il rischio che le immagini più emblematiche della guerra siano quelle dei quaranta civili uccisi nella scuola delle Nazioni Unite in cui si erano rifugiati, a nord di Gaza. I politici e i generali israeliani sanno che per eliminare i leader militari di Hamas potrebbero servire settimane, e non è detto che ci riescano. Più realisticamente, il risultato dell’offensiva sarà una tregua insoddisfacente ottenuta grazie a una mediazione. Questo lascerebbe Hamas ferita ma ancora viva e in grado di rigenerarsi, e Israele solo provvisoriamente al sicuro dai suoi attacchi. [...] La minaccia di Hamas è solo la sfida più immediata che Israele deve affrontare. Altre gettano delle ombre pesanti sulla possibilità di sopravvivenza a lungo termine di uno stato ebraico democratico. L’offensiva a Gaza può danneggiare Hamas e ridurre la sua capacità di colpire il sud di Israele. Ma, come è successo nel 2006 con Hezbollah, l’uso della forza non sarà sufficiente contro il fanatismo ideologico dei militanti islamici. Il sentimento di rabbia nei confronti degli israeliani che si sta diffondendo nella regione rende più difficile per i paesi arabi unirsi a Israele nel tentativo di affrontare l’Iran, che finanzia e protegge sia Hamas sia Hezbollah, e i cui leader hanno giurato di cancellare Israele dalla faccia delle terra possibilmente con le armi nucleari.
Il sogno Come molti altri paesi, Israele nasce da un sogno: dare una casa agli ebrei nella terra dei loro antenati. Questo sogno è stato in buona parte realizzato, perché Israele è diventato lo stato più moderno e democratico del Medio Oriente e un alleato affidabile degli Stati Uniti. Per Washington è importante che Israele sia uno stato forte e sicuro, ma anche che viva in pace con i suoi vicini, che collabori con gli arabi per affrontare le minacce comuni e, soprattutto, che trovi una soluzione giusta e duratura al conflitto con i palestinesi. Per ottenere tutto questo Israele e i suoi alleati dovranno rispondere a una serie di domande: come fare la pace con chi non sembra volerla? Come vincere una guerra quando l’avversario è convinto che il tempo sia dalla sua parte? Come si può vivere al sicuro circondati da vicini ostili? In Medio Oriente non esistono risposte facili. Ma oggi più che mai Israele deve cominciare a cercarle.
Il problema di Hamas La tragedia di Gaza è da giorni sulle tv di tutto il mondo. Finora sono morti più di novecento palestinesi, molti dei quali civili. Ma c’è qualcosa di tragico anche nella situazione di Israele: in ogni battaglia contro i suoi nemici, questo paese sembra destinato a sbagliare sia se agisce sia se non lo fa. Tutti i politici israeliani sembrano convinti che fosse impossibile non rispondere alla continua provocazione dei razzi di Hamas, anche se la proporzione tra la minaccia dei razzi e la reazione di Israele è quanto meno discutibile. Forse l’aspetto più pericoloso è che i razzi hanno sollevato molti dubbi sulla capacità di deterrenza di Israele, che è fondamentale per tenere a bada i suoi vicini. Quella capacità era già stata mes- sa seriamente in discussione nel 2006 in Libano, quando Hezbollah era riuscito a resistere e a imporre una tregua. Questo ha sicuramente incoraggiato Hamas, che ha continuato a lanciare razzi contro il sud di Israele e alla fine ha costretto gli israeliani a reagire con la forza. Come ha scritto l’editorialista Nahum Barnea sul quotidiano israeliano Yedioth Aharonoth: “Un paese che ha paura di affrontare Hamas non sarà in grado né di scoraggiare l’Iran né di difendere i suoi interessi nei rapporti con la Siria, l’Egitto, la Giordania e l’Autorità Nazionale Palestinese”. Ma la dura realtà è che prima o poi Israele potrebbe aver bisogno non tanto di affrontare Hamas quanto di trovare un accordo con i suoi capi. Il primo ministro Ehud Olmert ha dichiarato che non vuole rovesciare il governo di Hamas; sa che Israele non sarebbe in grado di riempire il vuoto di potere che si creerebbe a Gaza. E non potrebbe riempirlo neanche Abu Mazen, il leader palestinese preferito da Israele, che in Cisgiordania sta perdendo potere. Israele sostiene di volere solo due cose: che Hamas smetta di lanciare razzi, e che una forza internazionale controlli il confine con l’Egitto per impedire l’arrivo di nuove armi attraverso i tunnel sotterranei. Hamas sostiene che accetterà una tregua solo se Israele si ritirerà da Gaza allentando il blocco economico che strangola un milione e mezzo di palestinesi in questa striscia di terra affacciata sul Mediterraneo. [...] E poi? Come fece Hezbollah, anche Hamas dichiarerà di aver vinto. Non solo perché sarà sopravvissuto a un attacco da parte di una potenza militare molto più forte, ma anche perché avrà liberato gli abitanti di Gaza dalla tirannia israeliana. Senza contare il fatto che una ripresa economica della Striscia farebbe entrare molti soldi nelle sue casse. Allo stesso tempo Israele otterrebbe un po’ di respiro e costringerebbe Hamas a dimostrare che è veramente in grado di governare e di mantenere la stabilità a Gaza senza dare la colpa dei suoi fallimenti allo stato ebraico. [...] L’obiettivo più generale della guerra di Gaza, sostengono gli esperti di sicurezza israeliani, era inviare un messaggio al protettore di Hamas, l’Iran. Non c’è dubbio che l’attacco ha interrotto i canali che permettevano all’Iran di inviare armi e fondi ai militanti islamici. Ma uccidendo centinaia di palestinesi, Israele potrebbe aver vanificato la sua speranza di costruire un fronte comune con gli stati arabi sunniti per frenare le ambizioni nucleari degli sciiti iraniani. L’offensiva a Gaza ha indebolito la posizione dei pochi alleati arabi di Israele. I paesi più moderati, che sembravano propensi a riconoscere Israele, dopo l’uccisione di tanti palestinesi si stanno tirando indietro. In Egitto le manifestazioni a favore di Gaza si sono trasformate in attacchi neanche troppo velati contro il governo di Hosni Mubarak, che ha collaborato all’embargo. Forse le pressioni popolari costringeranno Mubarak a sostenere una tregua che comporti la riapertura delle frontiere tra Gaza e l’Egitto, come chiede Hamas. Ma è improbabile che il presidente egiziano ammorbidisca le sue posizioni nei confronti dell’organizzazione palestinese, che ha stretti contatti con gli estremisti islamici egiziani e con il regime iraniano. Ora non è più chiaro quanto gli stati arabi saranno disposti a cedere per raggiungere la pace. Il piano saudita, che offriva a Israele la pace con 22 stati arabi in cambio del ritiro entro i confini del 1967, è ancora in piedi e aspetta di essere preso in considerazione dal primo ministro israeliano. Perino la Siria, che è una delle principali sostenitrici di Hamas, nel 2008 ha partecipato ai colloqui con Israele mediati dalla Turchia. Ma per il momento li ha interrotti, quindi non c’è più nessuna possibilità che Damasco faccia pressione sui leader di Hamas in esilio.
I pericoli interni Anche se circondato da nemici, è possibile immaginare che Israele – sicuro della sua forza militare – possa andare avanti per anni in una situazione che non sia di guerra aperta ma neanche di vera pace, sempre pronto a scontri aspri ma limitati, come quelli in Libano e a Gaza. La forza militare, però, potrebbe rivelarsi inutile contro la minaccia che incombe all’interno dei suoi confini. Oggi tra i 7,1 milioni di abitanti di Israele ci sono 5,4 milioni di ebrei e 1,6 milioni di arabi. Ma se si considerano anche quelli di Gaza e della Cisgiordania, gli arabi sono già in leggera maggioranza e, dato che il loro tasso di natalità è più alto, lo scarto aumenterà rapidamente. Questo spostamento demografico ha spaventato anche i falchi come l’ex primo ministro Ariel Sharon, in coma dal 2006, che hanno dovuto rinunciare al sogno biblico del Grande Israele, dal fiume Giordano al Mediterraneo. Come ha dichiarato recentemente Olmert, “se vogliamo mantenere il carattere ebraico e democratico dello stato di Israele, dobbiamo inevitabilmente rinunciare, con grande dolore, ad alcune zone della nostra patria”. In altre parole, se Israele rimarrà aggrappato a Gaza e alla Cisgiordania, come vorrebbero molti sionisti, alla fine gli ebrei diventeranno una minoranza. Non solo Israele smetterà di essere uno stato ebraico, ma se non concederà una fetta di potere agli arabi, non sarà più neanche uno stato democratico. [...] Ma il cambiamento demografico sottolinea una semplice realtà: per Israele mantenere lo status quo non è una soluzione a lungo termine. La via per un accordo di pace ragionevole, con uno stato palestinese e uno stato israeliano entrambi all’interno di confini riconosciuti dalla comunità internazionale, è nota. Uno dopo l’altro molti leader israeliani e palestinesi si sono rifiutati di imboccarla. Gli israeliani dubitano che i loro avversari possano garantire la pace. Mentre i palestinesi, a parte le loro divisioni, non hanno mai rinunciato alla richiesta del diritto al ritorno per i profughi, una condizione che il governo israeliano non accetterà mai. Visto che in Israele si avvicinano le elezioni politiche, e i sondaggi indicano che probabilmente il prossimo primo ministro sarà il falco Benjamin Netanyahu, bisognerebbe riprendere subito i colloqui. Una road map per la sopravvivenza I leader israeliani devono riconoscere che se Hamas non può essere battuto militarmente, dev’essere coinvolto a livello politico. Questo significa accettare l’idea di trattare con una sorta di governo di unità palestinese di cui faccia parte anche Hamas. Un’alleanza tra Hamas e Abu Mazen è essenziale per il futuro dello stato palestinese e per moderare l’estremismo del movimento islamico, che diciotto mesi fa cacciò gli uomini di Al Fatah da Gaza. Oggi sostiene di essere disposto ad allearsi con il presidente Abu Mazen solo se, insieme alla comunità internazionale, riconoscerà che con le elezioni del gennaio del 2006 i militanti islamici sono andati legittimamente al potere. [...] Alla fine Israele dovrà ritirarsi entro i confini del 1967 e smantellare molti degli insediamenti che sono in territorio palestinese, anche se i partiti ultraortodossi protesteranno. Solo allora i palestinesi e gli altri stati arabi negozieranno una pace duratura. È molto semplice. Ma da sessant’anni, in terra santa, c’è sempre il solito divario tra cos’è semplice e cos’è realizzabile. |
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