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"Da Kabul aspettatevi molti morti"

di Bob Schieffer - 26/01/2009

 

Joe Biden ha concesso la sua prima intervista da vicepresidente alla Cbs. Ne pubblichiamo alcuni estratti.

Signor vicepresidente, con grande scelta simbolica la scorsa settimana il presidente Barack Obama ha detto che intende chiudere Guantanamo entro la fine dell’anno. Ma dentro quel carcere ci sono persone realmente pericolose. Molti senatori hanno sottolineato il problema. Possiamo portare queste persone nelle prigioni degli Stati Uniti, ma poi un giudice può decidere, se non ci sono prove sufficienti contro di loro, che vanno rilasciate, qui, all’interno degli Stati Uniti.

La domanda allora è: che cosa faranno di loro gli Stati Uniti d’America?
«Prima di tutto, nessuna di queste persone sarà rilasciata negli Stati Uniti perché nessuno, tranne uno, è cittadino americano. Guantanamo verrà chiuso, punto. Queste persone saranno processate nei tribunali americani, nei tribunali militari o saranno rispedite nei loro Paesi».

Ma alcuni Paesi dicono che le vogliono indietro.
«Be’, è vero. Comunque, valuteremo caso per caso. Stiamo cercando di capire quello che c’è là dentro. Mantenere aperto Guantanamo, con il valore simbolico che ha e le conseguenze nel mondo, ha fatto crescere il terrorismo, non l’ha combattuto».

Lei è appena tornato da alcune zone del mondo più toccate dal terrorismo: Pakistan, Afghanistan, Iraq. Due settimane fa un aereo senza pilota americano ha attaccato un gruppo armato di Al Qaeda in territorio pachistano. Il precedente presidente ha dato l’autorizzazione alla Cia e alle forze armate statunitensi di colpire oltre il confine. Obama farà lo stesso?
«Non posso parlare di uno specifico attacco. Ma posso dire che il Presidente degli Stati Uniti ha detto durante la campagna elettorale e nei dibattiti che se ci fosse un obiettivo di alto livello, appartenente ad Al Qaeda, non esiterebbe ad agire e ad affrontarlo. Ma c’è anche una buona notizia. Nel mio ultimo viaggio - sono già stato in Pakistan molte volte - ho trovato una grande, crescente cooperazione con l’esercito pachistano in quelle aree tribali - come il Waziristan - di cui si sente sempre parlare come ingovernabili e infestate da terroristi. È là che si nascondono i cattivi. È là che ci sono i tipi di Al Qaeda. Ora, quello che stiamo facendo è lavorare con il Pakistan per accrescere le capacità delle sue forze anti-insurrezione e abbiamo raggiunto un accordo per controllare meglio i movimenti dei terroristi attraverso il confine con l’Afghanistan».

Lei ha detto però che le cose in Afghanistan andranno peggio prima di andare meglio.
«È vero».

Che cosa intendeva dire?
«Quello che è successo è stata causato - non voglio dire da negligenza - ma dal fallimento nel fornire risorse economiche politiche e militari sufficienti, e dal fallimento nel raggiungere una politica coerente con gli alleati, economicamente politicamente e militarmente. La situazione si è deteriorata di molto. I taleban controllano una notevole parte del Paese, anche in zone che prima non controllavano. E questo è il punto uno. Punto due. Il 95 per cento della produzione mondiale di oppio viene dall’Afghanistan. Abbiamo bisogno di addestrare la polizia locale, la polizia nazionale, forze su cui abbiamo puntato fortemente in Iraq e anche in Bosnia. Ma la corruzione è diffusa, dilagante. Alcuni dei nostri alleati che dovevano addestrare queste forze non l’hanno fatto. Insomma, abbiamo ereditato il caos».

E come se ne esce?
«Prima di tutto dovremo riguadagnare terreno dove l’abbiamo perso. Per questo abbiamo bisogno di altri soldati. Moltiplicheremo gli sforzi nell’addestramento della polizia e dell’esercito afghano. Ciò significa che impegneremo il nemico molto di più, da adesso in avanti».

E vi aspettate maggiori perdite?
«Non lo dico volentieri, ma penso che sarà così. Ci sarà un’escalation. Il comandante in Afghanistan mi ha detto: “Joe, porteremo a termine il lavoro, ma dovremo affrontare il nemico molto più a fondo».

L’Iraq. Come pensa che sia la situazione ora?
«Usando una metafora calcistica, siamo sulla metà campo, dobbiamo arrivare in area. Ma adesso arriva la parte difficile. Il “surge”, l’aumento delle truppe, ha funzionato. Il nostro esercito ha fatto tutto quello che gli avevamo chiesto. Resta da portare a termine la riconciliazione politica dell’Iraq. Ho già detto molte volte che prima di tutto bisogna stabilire se l’Iraq deve avere un sistema federale o un forte governo centrale. Gli iracheni stanno discutendo su questa scelta. Quest’anno ci saranno importanti elezioni locali e nazionali. Il punto finale è arrivare alla riconciliazione politica tra sunniti, sciiti, curdi, turcomanni, arabi. Tutti quanti. Ci sono progressi, ma abbiamo bisogno di un colpo di reni. In fondo è successo lo stesso all’America. Siamo partiti con una blanda federazione e Stati molto forti, poi abbiamo avuto la Costituzione e un governo centrale forte. Le cose vanno così».