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Ciampi, Scalfari, Romano e i giudici. L' utopia dell'imparzialità

di Carlo Gambescia - 27/02/2006

Fonte: carlo gambescia

 

 

"Giudici siate e apparite imparziali". L'appello di Ciampi ai giudici dell'Associazioni Nazionale Magistrati ha suscitato un interessante scambio di editoriali polemici tra Sergio Romano e Eugenio Scalfari. Che merita una riflessione.
Infatti le posizioni di Romano e Scalfari riassumono in modo esemplare i termini ideologici del dibattito sull'imparzialità dei giudici. E non solo.
Secondo Romano ("Il ritorno all'imparzialità"- 25.2.06 - www.corriere.it) "il magistrato che si esprime nella vita pubblica come cittadino e come elettore perde una parte della sua autorità morale. Se vuole essere rispettato deve rinunciare ad alcune facoltà e licenze, deve essere magistrato anche quando non tratta di affari della giustizia". In pratica il giudice deve "uscire dalla mischia [politica] e parlare soltanto nei tribunali. Un passo -conclude Romano - che gioverebbe alla loro autorità e all'Italia".
Secondo Scalfari ("Le toghe rosse e la guerra dei cent'anni" - 26.2.06 - www.repubblica.it) "un cittadino che decide a un certo punto della sua vita di scegliere la carriera giudiziaria, di partecipare ad un concorso e di vincerlo, da quel momento in poi [dovrebbe se desse ascolto a Sergio Romano] comportarsi come un monaco di clausura, sordo, cieco e muto in tutto salvo che agli articoli delle legge ". Il che però, conclude, suona come "un invito (...) scoperto all'ipocrisia". Si "pretende che il magistrato ne faccia sfoggio riducendosi a un manichino impagliato".
E qui è bene fare chiarezza. Scalfari rappresenta il versante progressista del liberalismo. Mentre Romano ne rappresenta quello conservatore. Le due facce della stessa moneta.
Per il liberismo progressista (che ha origini giacobine) il diritto è uno strumento di intervento sociale, di cui il giudice si serve per cambiare la società e migliorare l'uomo. In questo senso il giudice viene prima delle legge.
Per il liberalismo conservatore (che ha origini utilitaristiche) il diritto è uno strumento per limitare il danno sociale, di cui il giudice si può servire solo nei limiti consentiti dalla legge. In questo senso il giudice viene dopo la legge.
Scalfari vede nella difesa dell'imparzialità dei giudici di Romano, una difesa dello status quo (della società italiana, messa invece a dura prova da Berlusconi...). Mentre Romano vede nella difesa dell'interventismo dei giudici di Scalfari un attacco a quella che nonostante Berlusconi resta la migliore delle società italiane possibili...). Scalfari è dalla parte di Saint-Just, Romano da quella di Bentham e Burke.
Entrambi, per esemplificare si ispirano a due modelli società: con o senza Berlusconi... Perciò esprimono due posizioni assolutamente politiche, segnate appunto dall' interventismo o dall' imparzialità verso Berlusconi. Indicando ai giudici due precisi schemi di comportamento politico.
Da questo punto di vista, piaccia o meno, il diritto rivela di essere sempre politico. Dal momento che è sempre in qualche misura interventista, anche quando si richiama all'imparzialità: il giudice, come lo Stato in economia, "interviene"anche quando si astiene perché "lascia fare" sulle base di norme giuridiche, o economiche, superate o inadeguate ai nuovi bisogni... Perciò l'imparzialità dei giudici è pura e semplice utopia. In certa misura, il più coerente tra i due, è Scalfari, il quale rivendica apertamente l'interventismo dei giudici. E bene fa a parlare di ipocrisia, a proposito delle tesi di Romano.
A questo punto però è corretto continuare ancora a parlare di divisione liberale dei poteri e di indipendenza della magistratura dalla politica? Soprattutto se la si intende come indipendenza da un progetto politico di società? Non è altrettanto ipocrita, come fa Scalfari, rivendicare a un tempo l'interventismo dei giudici (in nome di un progetto politico) e l'indipendenza degli stessi giudici dal potere esecutivo e legislativo, cioè da istituzioni che di fatto e di diritto incarnano un preciso progetto politico? Quello, comunque, rappresentato dalll'unica moneta del pensiero liberale...
La tragedia della teoria liberale dei diritto è appunto questa: se c'è concordanza di progetti tra politica e magistratura si rischia un totalitarismo interventista di tipo giacobino, se non c'è concordanza la "guerra civile" tra politici e giudici (tra conservatori e progressisti, o come sta accadendo tra berlusconiani e antiberlusconiani).
Il vero punto della questione è come uscire dal vicolo cieco liberale. E in definitiva della necessità - anche se l'espressione può apparire paradossale - di una giustizia giusta, nei riguardi di tutti i cittadini. Probabilmente andrebbe rimessa in discussione la divisione liberale dei poteri.
Ma come? Ecco il problema...