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Rivoluzione boliviana

di Alessandro Marmiroli - 08/02/2009

    

È passata in sordina sui media la vittoria dei sì nel referendum consultivo sulla nuova costituzione boliviana. Il trionfo di Evo Morales e degli indios, stretti alleati del “cattivo” Chavez, deve aver seccato non poco i nostri commentatori, sinistre comprese.
Nel paese ove fino a non molti anni fa gli indios (circa il 50% della popolazione, senza contare i meticci) non potevano camminare su certe piazze, con l'approvazione a larga maggioranza della nuova carta, non a caso definita “indigenista”, non assistiamo ad una vittoria per la conquista di diritti politici per una classe emarginata, ma a un trionfo del principio di autodeterminazione dei popoli. Assai benvenuto in un periodo ove le aggressioni “umanitarie” di chi non si omologa al modello unico vanno per la maggiore.
L’obbiettivo è dare alle comunità indigene il ruolo che le spettano nella vita del Paese, con la speranza di metter fine alla polarizzazione estrema della ricchezza, concentrata nelle mani di una elite bianca che fino alla vittoria di Morales nel 2005 ha dominato la vita del paese, con il suo strapotere economico e politico (17 famiglie possiedono terreni grandi come il Belgio e il controllo dei media, oltre che di gruppi paramilitari).
I contenuti della riforma spaziano poi dalla possibilità di nazionalizzare industrie e risorse svendute a imprese straniere per decenni alla limitazione del latifondo sulla cui dimensione massima i boliviani sono stati chiamati a esprimersi.
Raramente si è assistito, da parte di una popolazione, ad una simile presa di coscienza della propria condizione, che è sfociata in un periodo di accesi scontri agli inizi del millennio nelle regioni nord-occidentali del paese (contro la gestione ladresca dei servizi privatizzati) ed è arrivata in pochi anni a dare il più alto esempio di vera democrazia forse mai vistosi.
“Semplicemente”, le etnie da sempre emarginate si sono unite sotto un unico leader proveniente dalle loro file, il campesino Evo Morales, che ha iniziato la sua “carriera” politica come sindacalista cocalero. Con lui le masse indigene, forti del loro numero e delle organizzazioni sociali e sindacali che hanno permesso la diffusione delle nuove idee nonostante l’assenza di mass media in appoggio, hanno, con un semplice voto, scardinato in pochi anni la tradizionale spartizione del potere tra le oligarchie bianche sostenute dagli Stati Uniti, che fin dall’inizio hanno avversato il nuovo venuto (l’ambasciatore Usa minacciò il blocco alle esportazioni boliviane verso gli States in caso di vittoria del candidato indigeno; la democrazia, si sa, è bella solo se vincono gli amici).
Ancora oggi il personale dei ministeri viene dalla borghesia istruita (secondo il ministro dell’economia, intervenuto in un convegno a Modena alcuni mesi fa, 250 dei 300 dipendenti del ministero sono antigovernativi e sabotano i lavori), i nuovi funzionari e politici indios, che girano per uffici e parlamento in poncho, sono disprezzati dagli incravattati politici bianchi, per un certo razzismo strisciante sembra presente nel paese.
Le province più ricche sono attraversate da tentativi secessionisti da parte delle classi conservatrici che hanno perso il potere centrale e sognano di staccarsi dal resto della Bolivia per non cedere nulla della loro ricchezza, e aumentano voci le voci su scontri armati tra milizie autonomiste (o forse semplicemente al soldo di qualche signorotto locale) lì costituitesi. Una grande base statunitense al confine tra la regione di Santa Cruz (secessionista) e il Paraguay solleva poi ovvie e storicamente giustificate preoccupazioni, a cui i rivoluzionari hanno risposto con l’indigenizzazione delle forze armate.
La nascita della nuova Costituzione segna quindi un punto fondamentale per il rivoluzionario processo di riforma sociale in corso nel paese, il governo e il programma godono di amplissimo sostegno popolare, dei sindacati campesinos e dei movimenti sociali che tanta importanza hanno avuto nelle conquiste indigene degli ultimi anni.