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C’è molta mitologia da demolire. Intervista a Noam Chomsky

di Noam Chomsky - Simone Bruno - 14/02/2009

  
 
Di fronte al recentissimo dibattito sull’attuale crisi, volevamo conoscere l’interpretazione che di essa dà Noam Chomsky, una delle voci statunitensi più autorevoli nell’analizzare criticamente la situazione del proprio Paese e del mondo in genere. Ecco cosa ci ha detto.

Vorrei che parlassimo della crisi attuale. Come si può spiegare il fatto che, pur essendo stata prevista da molti, governanti ed economisti non vi fossero preparati?

Le previsioni si possono fare riguardo alle basi della crisi. Un fattore insito nella liberalizzazione finanziaria è il verificarsi di crisi frequenti e profonde. Effettivamente, da quando si è dato corso alla liberalizzazione finanziaria - circa 35 anni fa – le crisi si sono presentate con crescente regolarità, crisi sempre più gravi, oltretutto. Le ragioni sono intrinseche e conosciute: esse hanno fondamentalmente a che vedere con le ben note inefficienze dei mercati. Se lei e io facciamo una transazione, ad esempio se lei mi vende una macchina, possiamo fare un buon affare per noi stessi, però non teniamo in considerazione l’effetto sugli altri. Se io acquisto una macchina da lei, aumenta il consumo di benzina, aumenta l’inquinamento, aumenta il traffico, eccetera. Ma di questi effetti non teniamo conto. Questi fattori sono ciò che gli economisti chiamano esternalità, e vengono trascurate nei calcoli del mercato. Le esternalità possono essere enormi. Nel caso delle istituzioni finanziarie, esse sono particolarmente grandi. Il compito di un’istituzione finanziaria è quello di assumere dei rischi. Un’istituzione finanziaria gestita bene, come Goldman Sachs, considererà i rischi per se stessa, ma il nocciolo della questione è proprio quel hper se stessa h. Se la Goldman Sachs ha una perdita sostanziale, non considererà i rischi sistemici, i rischi per l’insieme del sistema. Ciò significa che tali rischi vengono sottovalutati. Si assumono più rischi di quanti se ne dovrebbero assumere in un sistema efficiente che tenga conto di tutte le implicazioni. Inoltre, questo computo erroneo dei prezzi viene semplicemente integrato quale parte del sistema di mercato e della liberalizzazione delle finanze.

In conseguenza della sottovalutazione dei rischi, questi ultimi finiscono per esser più frequenti, e quando si verificano dei tracolli, i costi sono più alti del previsto. Anche le crisi si fanno più frequenti, e la loro entità aumenta di pari passo con la portata e la gamma delle transazioni finanziarie. Naturalmente, tutto questo viene ulteriormente amplificato dal fanatismo dei fondamentalisti del mercato, che hanno smantellato l’apparato regolatore e hanno permesso la creazione di strumenti finanziari insoliti e non trasparenti

E’ fondamentalismo irrazionale, perché è chiaro che l’indebolimento dei meccanismi regolatori in un sistema di mercato implica il rischio di una crisi disastrosa. Si tratta di atti senza alcun senso, a parte l’interesse a breve termine dei signori dell’economia e della società. Le corporations finanziarie possono mietere – e l’hanno fatto – enormi guadagni a breve termine, intraprendendo azioni estremamente rischiose (soprattutto nel campo della deregulation), che danneggiano l’economia generale, ma non le corporations stesse - perlomeno a breve termine, il termine che orienta la loro pianificazione. Non era possibile predire l’arrivo preciso di una crisi grave, né si poteva predire l’esatta portata della crisi, ma era ovvio che una crisi si sarebbe verificata.

In effetti, durante questo periodo di crescente deregulation si sono registrate crisi serie e ripetute, solo che finora esse avevano colpito soprattutto il terzo mondo, ma mai in maniera particolarmente dura il centro della ricchezza e del potere. Vediamo il caso degli Stati Uniti. Gli Usa sono un Paese ricco, ma per la gran maggioranza della popolazione, probabilmente gli ultimi 30 anni sono stati tra i peggiori della storia economica nordamericana. Non ci sono state crisi imponenti, guerre importanti, depressioni, ecc., tuttavia, da 30 anni per la maggioranza delle persone i salari reali restano praticamente invariati. Per l’economia internazionale, l’effetto della liberalizzazione finanziaria è stato abbastanza dannoso. Sulla stampa potremmo leggere che negli ultimi 30 anni, quelli del neoliberismo, s’è assistito al maggior calo della povertà di tutta la storia mondiale, a una crescita enorme, ecc., e in questo c’è del vero, ma bisogna precisare che il calo della povertà e la crescita si sono verificati in Paesi che hanno lasciato perdere le regole neoliberali. I Paesi che hanno osservato le regole neoliberali hanno gravemente sofferto. Così c’è stata una grande crescita nell’Asia orientale, ma senza l’osservanza delle regole. In America Latina, dove le regole sono state osservate rigorosamente, è stato un disastro.

In un recente articolo, Joseph Stiglitz ha scritto che quest’ultima crisi segna la fine del neoliberismo, e Chàvez in una conferenza stampa ha affermato che essa potrebbe essere addirittura la fine del capitalismo. Chi crede si avvicini di più alla verità?

In primo luogo, dobbiamo renderci conto che il capitalismo non può finire, in quanto non è mai cominciato. Il sistema in cui viviamo deve essere definito capitalismo di Stato, e non semplicemente capitalismo. Nel caso degli Stati Uniti, l’economia si sostiene con gran forza sul settore statale. Per il momento, c’è molta preoccupazione riguardo al fatto che l’economia possa venire socializzata, ma si tratta solo di uno scherzo di cattivo gusto. L’economia avanzata, l’alta tecnologia e consimili sono sempre dipese ampiamente dal settore dinamico dell’economia statale. E’ il caso dell’informatica, di Internet, degli aerei, delle biotecnologie, quasi tutti i settori più in vista. Il MIT (Masachussetts, da cui le sto parlando, è una specie di imbuto, in cui il pubblico versa il denaro, e da cui esce la tecnologia del futuro, che sarà consegnata al potere privato perché produca guadagni. Quindi abbiamo un sistema di socializzazione dei costi e dei rischi e di privatizzazione del beneficio, e questo non solo nel sistema finanziario, ma in tutta l’economia avanzata.

Di modo che, per il sistema finanziario, il risultato sarà probabilmente più o meno come lo descrive Stiglitz. E’ la fine di una certa epoca di liberalizzazione finanziaria condotta dal fondamentalismo di mercato. Il Wall Street Journal si duole che Wall Street, così come l’abbiamo conosciuta, sia sparita con il crollo della banca d’investimento. Ci saranno alcuni passi verso la regulation, questo è certo, tuttavia, le proposte che vengono formulate, per quanto possano essere estese e severe, non cambiano la struttura delle istituzioni di base sottostanti. Non esiste nessuna minaccia al capitalismo di Stato. Le sue istituzioni fondamentali continueranno ad essere le stesse, forse addirittura senza terremoti. Possono esserci vari aggiustamenti, alcuni conglomerati potranno assorbirne altri, alcuni potrebbero perfino essere blandamente seminazionalizzati, senza che ciò vada a toccare ulteriormente il monopolio privato delle scelte decisionali. Nonostante tutto, stando così le cose, le relazioni di proprietà e la distribuzione del potere e della ricchezza non muteranno in maniera significativa. Detto en passant, nessuno sa quanto questa crisi sarà grave. Ogni giorno porta nuove sorprese. Alcuni economisti stanno predicendo una vera e propria catastrofe. Altri pensano che si possa rimediare con modesti fastidi e con una recessione che probabilmente sarà peggiore in Europa che negli Stati Uniti. Ma nessuno lo sa.

Pensa che assisteremo a qualcosa di simile alla Depressione, con i disoccupati, negli Usa e in Europa, che faranno la coda per i generi alimentari,? E se sì, assisteremo anche a una grossa guerra per rimettere in sesto le economie, o a una terapia di shock, o a cos’altro?

Non credo che la situazione sia paragonabile al periodo della Grande Depressione, sebbene ci siano alcune somiglianze con quel periodo. Anche gli anni Venti erano un periodo di speculazione selvaggia e di enorme espansione del credito e dei prestiti, col prodursi di un’enorme concentrazione di ricchezza in un piccolo settore della popolazione, e con la distruzione del movimento sindacale. In questo ci sono somiglianze con l’attuale periodo. Ma ci sono anche molte differenze. Ora esiste un apparato di controllo e di regolamentazione molto più stabile, che è frutto del New Deal e sebbene esso sia andato deteriorandosi, gran parte di esso rimane intatta. Inoltre, c’è la consapevolezza che alcuni tipi di politica ritenuti estremamente radicali nel periodo del New Deal ora invece risultano praticamente normali. Così, ad esempio, nel recente dibattito presidenziale, John McCain, il candidato della destra, per far fronte alla crisi degli alloggi ha proposto misure prese dal New Deal. Quindi c’è la consapevolezza che il governo debba assumere un ruolo importante nella gestione dell’economia e di fatto hanno 50 anni di esperienza in questo senso per i settori avanzati dell’economia.

Molto di ciò che si legge al proposito è pura mitologia. Per esempio, ora viene attaccata la fede appassionata di Reagan nel miracolo dei mercati, visto che a Reagan è stato assegnato il ruolo di Gran Sacerdote della fede nei mercati. Effettivamente, Reagan è stato il presidente più protezionista della storia economica statunitense del dopoguerra. Ha aumentato le barriere protezioniste più di tutti i suoi predecessori messi assieme. Ha esortato il Pentagono a sviluppare progetti per addestrare gli amministratori nordamericani rimasti indietro rispetto ai metodi giapponesi avanzati di produzione. Ha operato uno dei più grandi salvataggi bancari di tutta la storia nordamericana, e ha formato un conglomerato a base statale per cercare di rivitalizzare l’industria dei semiconduttori. Effettivamente, Reagan credeva in un governo potente, che intervenisse radicalmente nell’economia. Quando dico “Reagan” mi riferisco alla sua amministrazione; quello che lui personalmente credeva su tutto questo - se poi credeva qualcosa - non possiamo veramente saperlo, e del resto non è essenziale.

C’è molta mitologia che dobbiamo smantellare, compreso tutto quello che si dice sulla grande crescita e sulla riduzione della povertà. Negli stessi Usa, nella misura in cui sono state applicate le regole neoliberiste, esse sono risultate abbastanza dannose per la maggioranza della popolazione. Guardando aldilà della mitologia, possiamo accorgerci che un’economia capitalista di Stato, la quale, soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale, è dipesa assai fortemente dal settore statale, ora sta tornando a dipendere dallo Stato per la gestione di un sistema finanziario a pezzi. Per ora, non ci sono segnali che possa verificarsi qualcosa di simile al crollo del 1929.

Allora, non pensa che ci stiamo incamminando verso un cambiamento nell’ordine mondiale?

Be’, nell’ordine mondiale ci sono davvero dei cambiamenti molto significativi e forse questa crisi darà il suo contributo. Ma essi sono in atto già da tempo. Ad uno dei cambiamenti maggiori nell’ordine mondiale stiamo assistendo proprio adesso in America Latina. Dell’America Latina si usa dire che è il cortile sul retro degli Usa, i quali la manipolano da molto tempo. Ma le cose stanno cambiando. Solo poche settimane fa, verso metà settembre, se n’è avuta una drammatica dimostrazione. Il 15 settembre c’è stata una riunione di UNASUR, l’Unione delle Nazioni Sudamericane, a cui sono accorsi tutti i governi sudamericani, compresa la Colombia, Stato favorito degli Usa. La riunione ha avuto luogo a Santiago, Cile, altro favorito degli Usa. La riunione è terminata con una dichiarazione molto contundente in sostegno al boliviano Evo Morales, respingendo in compenso gli elementi quasi secessionisti della Bolivia, che contano sull’appoggio degli Stati Uniti. In Bolivia si sta svolgendo una lotta molto importante. Le élites si mobilitano per l’autonomia, forse per la secessione, fino a toccare forti livelli di violenza, con l’evidente indulgenza degli Usa. Ma le repubbliche sudamericane hanno assunto una ferma posizione di appoggio al governo democratico. La dichiarazione è stata letta dalla presidente del Cile Bachelet, altra favorita dell’Occidente. Evo Morales ha risposto ringraziando i presidenti per il loro sostegno, facendo notare, molto correttamente, che per la prima volta nel corso di 500 anni l’America Latina aveva preso in mano il proprio destino senza l’interferenza dell’Europa né, tantomeno, degli Usa. Questo è il simbolo di un mutamento molto significativo in corso, definito a volte marea rosa. La vicenda è stata talmente importante che la stampa statunitense non ne ha parlato. Qua e là nella stampa c’è un discorsetto dove si annota che qualcosa è successo, ma il contenuto e l’importanza di quello che è successo vengono completamente taciuti.

Questo fa parte di un processo a lungo termine: il Sudamerica sta cominciando a superare i suoi enormi problemi interni e anche la subordinazione all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti. Anche il Sudamerica sta diversificando le sue relazioni con il mondo. Il Brasile ha relazioni sempre più intense col Sudafrica e con l’India, e soprattutto con la Cina, che è sempre più coinvolta in investimenti e scambi con i Paesi latinoamericani. Sono processi estremamente importanti, che adesso iniziano ad estendersi anche all’America Centrale. L’Honduras, per esempio, è la classica repubblica delle banane. E’ stato il campo base per le guerre del terrore di Reagan perpetrate nella regione ed è stato totalmente subordinato agli Usa. Ma, di recente, l’Honduras si è associato all’ALBA, l’Alternativa Bolivariana per i Popoli d’America, con base in Venezuela. E’ un piccolo passo, ma non per questo meno significativo.

Lei pensa che queste tendenze in Sudamerica, come ALBA, UNASUR e i grandi avvenimenti del Venezuela, della Bolivia e di altri Paesi, potrebbero essere toccati da una crisi economica delle dimensioni di quella che stiamo fronteggiando adesso?

Be’, saranno toccati dalla crisi, ma per il momento, non al livello dell’Europa e degli Stati Uniti. Se si guarda la Borsa in Brasile, essa è crollata molto rapidamente, ma le banche brasiliane non sono affatto a pezzi. Anche in Asia, le borse stanno scendendo a picco, ma i governi non stanno assumendo il controllo delle banche, cosa che invece accade in Inghilterra, negli Usa, e in buona parte d’Europa. Queste regioni, Sudamerica e Asia, in qualche modo si sono isolate dalle calamità dei mercati finanziari. Quello che ha scatenato l’attuale crisi sono stati i prestiti subprime per attivi costruiti sulla sabbia, che, chiaramente, stanno in mani statunitensi, sebbene, a quanto pare, la metà si trovi presso banche europee. Il fatto di possedere attivi tossici basati su ipoteche ha coinvolto molto rapidamente i Paesi occidentali in questi avvenimenti – e inoltre essi hanno le proprie “crisi degli alloggi”, soprattutto la Gran Bretagna e la Spagna. L’Asia e l’America Latina sono risultate molto meno esposte, per il fatto di aver mantenuto strategie di credito molto più caute, soprattutto dal tracollo neoliberista del 1997/98. Di fatto, una grande banca giapponese, la Mitubishi UFG, ha appena acquistato una fetta sostanziosa della Morgan Stanley negli Usa. Finora non sembra dunque che né l’Asia né l’America Latina saranno colpite tanto gravemente quanto gli Usa o l’Europa.

Pensa che ci sarà una grande differenza tra Obama e McCain come presidente, relativamente ad affari come il Trattato di Libero Commercio e il Piano Colombia? Perché in Colombia, dove vivo io, si sente dire che il presidente e l’establishment sono un po’ spaventati di fronte all’eventuale elezione di Obama. So che lei ha la sensazione che Obama sia come un foglio bianco; ma pensa che ci sarà qualche differenza?

In effetti, Obama si è presentato più o meno come un foglio bianco ma non c’è motivo perché l’establishment colombiano si spaventi della sua elezione. Il Piano Colombia è politica di Clinton e ci sono molte ragioni per supporre che Obama sarà un altro Clinton. A questo proposito, lui stesso si mantiene abbastanza sul vago. Ma quando descrive le varie politiche, esse hanno connotazioni di politiche di centro, come Clinton, che ha modellato il piano Colombia, ha militarizzato il conflitto, ecc.

A volte ho la sensazione che i due mandati di Bush si siano svolti in un contesto di cambiamento dell’ordine mondiale, in un tentativo di mantenere il potere con l’uso della forza, e che in compenso Obama potrebbe rappresentare la faccia buona per rinegoziare l’ordine mondiale. Che ne pensa?

Si ricordi che negli Usa lo spettro politico è abbastanza limitato. E’ una società maneggiata dalle imprese, in linea di massima è uno Stato a partito unico, con due partiti, i democratici e i repubblicani. I partiti presentano alcune differenze, a volte significative, ma lo spettro resta comunque abbastanza limitato. L’amministrazione Bush, tuttavia, si situava ben aldilà del limite dello spettro, con nazionalisti radicali estremi, con estremisti che credevano nel potere dello Stato, nella violenza verso l’esterno, in un’alta spesa governativa. Effettivamente erano tanto al di fuori dello spettro da essere aspramente criticati fin dall’inizio perfino da una parte del mainstream,.

Chiunque assuma il mandato, è probabile che sposti la scacchiera verso la zona centrale dello spettro, Obama forse in misura maggiore. Allora vorrebbe dire che con Obama potrebbe esserci, mutatis mutandis, quasi una rinascita dell’epoca Clinton. Nel caso di McCain tuttavia, la predizione è abbastanza difficile. McCain è un temerario. Nessuno sa quello che potrebbe fare...

Ora che stiamo arrivando alla fine della globalizzazione neoliberista, esiste la possibilità di qualcosa di veramente nuovo, una globalizzazione buona?

Penso che le prospettive siano molto migliori rispetto al passato. Il potere è ancora estremamente concentrato, ma, man mano che l’economia internazionale si diversifica e si fa più complessa, ci sono cambiamenti. Il Sud diventa più indipendente. Ma considerando gli Usa, nonostante tutto il danno compiuto da Bush, la loro economia complessiva continua ad essere la più importante, con il mercato interno più grande, la forza militare maggiore e tecnologicamente più avanzata, con spese annue paragonabili a quelle del resto del mondo messe assieme, e con un arcipelago di basi militari disseminate nel mondo. Queste sono fonti di continuità, anche in un momento in cui l’ordine neoliberista si sta erodendo tanto dentro gli Usa quanto in Europa e a livello internazionale, man mano che l’opposizione a tale ordine cresce. Quindi, ci sono opportunità per un cambiamento reale, ma la loro portata dipende dalla gente, da quello che noi siamo disposti a fare.

A cura di Simone Bruno (giornalista italiano, residente in Colombia)


Traduzione a cura di Cinzia Vidali