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Futurismo e rivoluzione

di Adriano Scianca - 16/02/2009

Provate a immaginare:

«Cantiamo la bellezza del contratto sociale, l’ebbrezza delle primarie sotto arditi gazebo, la follia maestosa dei question time».

Brividi.

Ma ve lo raffigurate, seriamente, un futurismo liberale?

Ve lo immaginate il paludoso mercanteggiare delle aule sorde e grigie elevato al rango di “bella idea per cui si muore”?

Non scherziamo. Il futurismo è rivoluzionario o non è. Il futurismo, per dirla con Mario Verdone, è una battaglia che «assume significato di “contestazione globale”, che tocca la vita privata e pubblica, la famiglia e la scuola, la poesia e persino la filosofia e la scienza, in un messaggio destinato a tutta l’umanità».

Se non tutti i rivoluzionari sono stati futuristi, è comunque indubbio che tutti i futuristi sono necessariamente dei rivoluzionari. Lo dicono i loro versi, i loro proclami, le loro azioni. Lo dice, soprattutto, la storia.

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Le due rivoluzioni del ‘900, quelle che secondo Brasillach sarebbero state destinate ad essere confuse fra loro agli occhi dei posteri, hanno in effetti avuto rapporti più che episodici con il futurismo. E se Vladimir Majakovskij sarà rivoluzionario e bolscevico della prima ora, in casa nostra fascismo e futurismo viaggeranno su binari talmente ravvicinati da sovrapporsi spesso e volentieri.

Su quest’ultimo tema, soprattutto in questi giorni, troppo e male è stato scritto. «Per chi abbia senso delle connessioni storiche - diceva Benedetto Croce - l’origine ideale del fascismo si trova nel futurismo». Il “senso delle connessioni storiche”. Ovvero uno sguardo globale sul passato che riesca a far proprio un ampio respiro tale da abbracciare gli elementari nessi di causa-effetto al di là degli episodi, delle eccezioni, delle contingenze. Riguardo al programma sansepolcrista, presentato a Milano il 23 marzo 1919 alla presenza dello stesso Marinetti, il futurista Volt diceva che fosse «sostanzialmente identico al programma del partito politico futurista. Forse le due istituzioni finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima è uno. E’ lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei combattenti». Mussolini, che pure aveva avuto un percorso umano, intellettuale e politico assai poco artistico, impregnato di battaglie partitiche e sociali, di letture di Marx, Nietzsche, Sorel e Le Bon, non poteva che affascinare Marinetti e sodali per il suo vitalismo, la sua ansia di rinnovamento, la sua stessa fisicità. E’ poi noto che già nel maggio 1920 i rapporti tra futuristi e fascisti si raffredderanno, con momenti di critica reciproca anche molto aspra.

Su questo allontanamento - temporaneo, contingente e presto riassorbito - la critica in malafede ha molto insistito al fine di “recuperare” il futurismo a cause del tutto “passatiste”. Ciò che sfugge, in realtà, è che quando Marinetti (o, se è per questo, D’Annunzio) critica Mussolini lo fa all’interno di una dialettica che è già comunque antiliberale. Si tratta, per i futuristi, di rimproverare ai Fasci un’adesione troppo tiepida, o magari un tradimento, di una causa rivoluzionaria che rimane comunque in antitesi netta con l’attuale pensiero dominante. E’, insomma, una gara di radicalità del tutto interna a un campo politico-culturale ben definito.

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La frattura, del resto, verrà presto ricomposta. Il ribelle e filosovietico Mario Carli si ritroverà cantore del “fascismo intransigente”, mentre dalle colonne di “Futurismo” - poi “Sant’Elia”, infine divenuta “Artecrazia” - Mino Somenzi condurrà, sotto la diretta ispirazione dello stesso Marinetti, la sua battaglia per fare del futurismo l’arte unica e ufficiale del regime. Quanto allo stesso fondatore del movimento artistico, basti ricordare il suo impegno come volontario nella guerra d’Etiopia e persino, a sessantasei anni, nella spedizione in Russia che forse risulterà fatale per sua stessa salute, tanto da causargli poco dopo la morte per arresto cardiaco. I suoi ultimi versi saranno per la X Mas.

Abbiamo detto Russia. Anche da quelle parti il futurismo aveva fatto non pochi danni a tutto il vecchiume zarista-conservatore. La rivoluzione, in questo caso, nasceva con contorni ideologici ben più definiti, anche se Drieu poteva ipotizzare un’influenza nietzscheana e già post-marxista nell’attivismo e nel volontarismo leninista. Sia come sia, nella Rivoluzione d’Ottobre l’impronta del materialismo storico risultava in definitiva dominante su ogni altra connotazione culturale. Il panorama culturale della nuova Russia, tuttavia, risultava inizialmente assai vivace. Fra i più attivi agitatori di pensiero si distingueva su tutti Vladimir Majakovskij, animo inquieto e spirito ribelle sin da giovanissimo. Nel 1912, l’artista georgiano aveva firmato insieme a Burljuk, Kamenskij, Kruchonych, Chlebnikov il manifesto del cubofuturismo, marinettianamente intitolato “Schiaffo al gusto del pubblico”. Nella Russia post-rivoluzionaria, Majakovskij si fa da subito intellettuale militante dalle colonne della Gazeta futuristov e dell’Iskusstvo Kommuny. Lavorando per la Rosta (l’Agenzia telegrafica russa) scrive in due anni e mezzo tremila manifesti e seimila didascalie. Fonda il Lef (Fronte di sinistra dell’arte) che pubblica con l’omonima rivista quattro numeri nel 1923, due nel ‘24 e uno nel ‘25. La sua azione metapolitica cerca di coniugare libertarismo e intransigenza. Il nemico, come sempre, sono i vecchi parassiti passatisti che come al solito pullulano negli anfratti meno illuminati di ogni rivoluzione. A costoro, il poeta di Bagdadi rivolge il suo avvertimento.

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A voi,
pittori,
ingrassati come cavalli,
divorante e annitrente decoro di Russia
che, intanati nel fondo degli studi,
tinteggiate all’antica con sangue di drago
fiorellini e corpi

A voi,
che, nascosti da foglie di mistica,
solcate di rughe le vostre fronti,
piccoli futuristi
piccoli immaginisti,
piccoli acmeisti
impigliati in un ragnatelo di rime [...]

A voi,
danzatori, suonatori di piffero
che vi date apertamente
o peccate di soppiatto,
immaginando l’avvenire
come un’enorme razione accademica.

A voi dico
io,
geniale o non geniale,
che ho tralasciato le bagattelle
e lavoro alla Rosta,
a voi dico,
prima che vi scaccino con il calcio dei fucili:
smettetela!

Per il grigiore che da lì a poco sarebbe divenuto il marchio di fabbrica del modello sovietico, Majakovskij esprime tutto il suo disprezzo:

Io come un lupo
Divorerei il burocratismo.
Per i mandati non ho alcun rispetto
Vadano con le madri
A tutti i diavoli tutte le carte.

Le spinte libertarie e le innovazioni culturali cominciavano tuttavia ad essere mal digerite nella Russia già in odore di “realismo socialista” zdanoviano. Majakovskij viene man mano escluso dall’ufficialità culturale sovietica. Il 3 gennaio 1930 aderisce al Rapp, l’Associazione russa scrittori proletari, dichiarando pubblicamente la propria fedeltà al partito. Il 14 aprile dello stesso anno si spara al cuore, uccidendosi. Il cuore della rivoluzione, del resto, aveva già smesso di pulsare da tempo.

 

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