Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Nordest: prologo ed epilogo del “nuovo che avanza”

Nordest: prologo ed epilogo del “nuovo che avanza”

di Stenio Solinas - 01/03/2006

Fonte: lineaquotidiano.it


“NORDEST” di MASSIMO CARLOTTO - MARCO VIDETTA
Il racconto di un Paese malato dove le idealità erano ambigue.
La realtà che ne ha preso il posto è proterva e cinica poiché dimentica
qualsiasi anelito civile pur di soddisfare la sua sete di potere

Èprobabile che
l’uscita nei
cinema di Arrivederci
amore,
ciao, di Michele
Soavi, con
Alessio Boni e
Michele Placido per protagonisti,
porterà nuovi lettori all’omonimo
romanzo (Edizioni E/O, 175 pagine,
8 euri) di Massimo Carlotto,
scrittore padovano oggi cinquantenne
di cui le cronache giudiziarie
si occuparono a lungo per una condanna
all’ergastolo per omicidio e
la successiva grazia del capo dello
Stato. Carlotto appartiene per età e
per scelte politiche a quella generazione
degli anni Cinquanta che nei
Settanta fu extraparlamentare, simpatizzante
o contigua al terrorismo
di sinistra oppure in esso implicata,
vuoi perché ci credeva, vuoi per
insipienza, cecità, “moda”, e un po’
tutti i suoi romanzi riflettono quelle
scelte e quel passato, nessuno però
con l’esemplare ferocia di questo
ora ricordato, il ritratto di una carogna
allo stato puro, da giovane
estremista per noia e per boria, poi
latitante e guerrigliero per necessità,
infine pentito per calcolo e deciso
a riprendersi con la forza ciò che
quegli anni gli hanno portato via: la
sicurezza, un ruolo sociale, la
rispettabilità, i soldi.
Il teatro della narrativa di Carlotto è
il nord-est e NORDEST, appunto, si
intitola anche il suo ultimo libro,
scritto con Marco Videtta, opposto
rispetto ad Arrivederci amore, ciao,
eppure per certi versi l’altra faccia
della stessa medaglia, il racconto di
un Paese malato dove le idealità
erano, nel migliore dei casi, ambigue,
e la realtà che ne ha preso il
posto è tanto più proterva e cinica
nella sua sete di potere in quanto
tende comunque a negare, nel
segno della dimenticanza, qualsiasi
anelito civile. Da questo punto di
vista, destra, sinistra e centro
diventano fra loro indistinguibili, e
chi era ieri il beneficato fruitore di
una politica economica nel nome
dell’assistenzialismo, si atteggia
oggi a campione del liberismo più
sfrenato, chi difendeva il centralismo
si ritrova cantore del localismo,
che si batteva per una apertura
alla mano d’opera straniera nel
nome dell’accoglienza e della difesa
del più debole, è lo stesso che
ora la consegna senza batter ciglio
allo sfruttamento indiscriminato.
È probabile che nell’amaro ritratto
del “terrorista per caso” di Arrivederci
Amore, ciao, l’autore abbia
messo molto delle sue delusioni e
delle sue esperienze e che, allo
stesso modo, la descrizione degli
usi e costumi della provincia media
del nord-est, con l’ossessione per le
macchine di lusso, per l’eccesso di
gadget, per l’esibizione della ricchezza,
abbia a che fare con una
più pauperistica concezione della
vita di una certa sinistra un tempo
egemone e ora fra il caricaturale e il
patetico, nel momento in cui fra banchieri
di riferimento miliardari e
inquisiti e tenori di vita non proprio
da frati cercatori, solo la sfacciata
presenza di un capitalismo orgogliosamente
rivendicato dall’altra parte
della sponda politica può far passare
in secondo piano che a sinistra ormai
non esiste più la classe operaia, si
preferisce il creativo al pensionato,
si è più interessati ai salotti buoni
della finanza che non alle complicazioni
dell’impiegato statale.
E tuttavia, al di là di moralismi più o
meno facili o di sentimenti che si
ritengono progressisti e invece
appartengono alla più pura filosofia
della reazione, entrambi i libri in
questione aiutano a disegnare il
ritratto di una nazione che ci è cambiata
sotto gli occhi senza quasi che
ce ne accorgessimo e con la quale
dobbiamo ora fare i conti.
Uno degli aspetti più interessanti è
per esempio il modo in cui viene da
un lato registrato lo sconvolgimento
geografico di un’area e, dall’altro, il
recupero fittizio, declinato nei suoi
elementi edonistico-epidermici, di
una identità irrimediabilmente perduta.
Tanto l’antico paesaggio agrario
ha dovuto cedere il passo alla
realtà delle aree industrial nella logica
dei capannoni, tanto è un proliferare
di cucina del territorio, corsi di
sommeliers, degustazioni da winebar...
La mitologia delle piccole
patrie, il localismo da dialetto, le
rivendicazioni di un’identità particolare
diventano i tratti distintivi del
riconoscimento sociale nel momento
in cui i tratti reali, la geografia, gli
usi e i costumi, le tradizioni, hanno
subito tali sconquassi da non essere
più riconoscibili. E tuttavia servono
alla costruzione di una dimensione
in cui gli antichi elementi della fatica,
del sacrificio, del lavoro vengono
mitizzati ma non imitati: si vuole il
guadagno rapido, si spende per il
proprio piacere, non si accettano
restrizioni e/o imposizioni. Uno
degli elementi cardine della illegalità
economica del nord-est, (evasione
fiscale a rotta di collo, aggiramento
delle leggi e dei parametri di controllo,
utilizzo pregiudicato dei fondi
pubblici, nazionali ed europei) sta in
questo sentirsi e volersi Stato a sé, e
però un nuovo Stato che non poggia
più su nulla, perché i confini di un
tempo sono divenuti irriconoscibili e
il popolo che ne faceva parte è
antropologicamente mutato.
In Arrivederci amore, ciao l’ex terrorista
Giorgio non ha alcuna difficoltà
a inserirsi nel “nuovo che
avanza”: fra clandestinità e latitanza,
ha passato tanti di quegli anni all’estero
che la nostalgia si è trasformata
in dimenticanza. Non c’è nulla che
lo leghi all’“Italia com’era” e
nell’“Italia com’è” dove vuole a tutti
i costi ricostruirsi
una vita, trova quegli
elementi diffusi
di menefreghismo,
asocialità, disprezzo
per le regole,
gusto della trasgressione
che si
attagliano perfettamente
con la sua
dimensione psicologica.
Semmai, era
proprio come militante
politico degli anni Settanta
che non si era ritrovato
in sintonia con il suo
status e la sua epoca: gli
venivano chiesti codici
comportamentali, rispetto
delle regole, spirito altruistico,
capacità di sacrificare
l’individuale per il
collettivo che non collimavano
con ciò che lui
era, e questo in una
cornice ideologicosociale
in cui il decoro,
il fastidio per l’ostentazione,
il no alle sperequazioni
facevano da
argine alle individualità
più accese.
I protagonisti di
NORDEST, invece,
fanno parte di quella
realtà a pieno titolo:
sono i continuatori di
dinastie familiari nelle
professioni o negli affari,
ovvero i rampolli di
famiglie importanti che
con loro giungono però
all’estinzione, troppo
schiacciati dalle personalità
di chi li ha messi al
mondo per essere in grado
di ribellarsi o di competere,
troppo viziati dal
benessere per poter capire
cosa significhi lottare,
prima per raggiungerlo,
poi per difenderlo. Qui rispetto al
“nuovo che avanza” non c’è estraneità:
sono stati loro stessi ad averlo
creato. É avvenuto anno dopo
anno, con il passaggio dall’agricoltura
alla industrializzazione,
il terziario e il made in Italy,
l’immigrazione clandestina
come mano d’opera sottopagata,
la delocalizzazione
all’estero delle realtà industriali
non più competitive al
momento della crisi. In
un processo economico difficile da
governare, l’incapacità politica ha
fatto il resto, la morte delle ideologie
e la fine dei partiti-chiesa ha dato la
stura a un balletto trasformistico che
nella dimensione territoriale ha trovato
la sua ragion d’essere, ma non
la risoluzione dei problemi.
Chiunque guardi con occhio spassionato
le vicende italiane dovrà
convenire che il punto debole risiede
nello scollamento sempre più
evidente fra cittadini e istituzioni,
nella difficoltà dei primi a
credere nelle seconde, nella
incapacità di quest’ultime
a rappresentarli. Per
quanto tutta l’Europa sia
percorsa da una crisi profonda,
economica, strutturale,
politica, in nessun
Paese è presente, come in
Italia, non tanto il disprezzo,
questo sì, identico, verso
la classe politica, quanto
il disinteresse e il rifiuto
della cosa pubblica. È
come se l’intero corpo
sociale si ritraesse sempre
più in sé stesso e considerasse
tutto ciò che lo circonda
terreno di lotta, terreno
di conquista. La mancanza
di un bene comune
fa venir meno le regole del
senso comune, la difesa
del “particulare” non è
altro che la presa d’atto del
fallimento dell’interesse
generale. Chiunque governerà
nei prossimi anni l’Italia
è di questo che dovrà
tenere conto. A giudicare
dalla battaglia elettorale in
corso, sembra invece essere
l’ultimo dei problemi.