Non c'è pace senza Hamas
di Christian Elia - 27/02/2009
''L'ultimo, sanguinoso conflitto fra Israele e Hamas ha dimostrato che la politica di isolamento nei confronti di Hamas non può portare stabilità. Come ex negoziatori di pace riteniamo sia di importanza vitale abbandonare la politica fallimentare dell'isolamento per coinvolgere Hamas nel processo politico, in quanto un accordo di pace israelo-palestinese senza Hamas non sarà possibile''.
Il terzo incomodo. Poche, chiare, parole. A sottoscrivere questa lettera aperta, pubblicata oggi sull'edizione online del quotidiano britannico The Times, sono undici mediatori internazionali. Personaggi della diplomazia e della politica che hanno legato il loro nome alla soluzione negoziata di conflitti. Dei professionisti degli accordi di pace, insomma. Fra gli altri, l'ex inviato in Medio Oriente per il Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu), Alvaro de Soto, l'ex ministro degli esteri israeliano Shlomo Ben-Ami, l'ex inviato dell'Ue in Bosnia Paddy Ashdown, l'ex ministro degli esteri australiano, che mediò la pace in Cambogia, Gareth Evans. Non proprio dei pacifisti che, nel presentare la loro iniziativa, citano il generale israeliano Moshe Dayan: ''Se vuoi fare la pace non parli con gli amici, ma parli con i nemici''. Sembra un discorso molto semplice e lineare, ma quando si parla d'Israele e Palestina tutto diventa sempre dannatamente complesso. ''Chi vi piaccia o no - scrivono i mediatori - Hamas non se ne andrà. Dalla sua vittoria in elezioni democratiche nel 2006, Hamas ha conservato il suo sostegno nella società palestinese malgrado i tentativi di distruggerla attraverso embarghi economici, boicottaggi politici e incursioni militari. Questo approccio non funziona, bisogna trovare una nuova strategia''.
Scambio di prigionieri. Una lettera indirizzata ai politici israeliani, ma anche all'Unione europea, alle Nazioni Unite e agli Stati Uniti di Barack Obama. Una lettera che dovrebbero leggere anche in Arabia Saudita e in tutti quei paesi arabi sunniti che vedono Hamas come una filiazione del potere sciita dell'Iran e ne osteggiano il coinvolgimento nel processo politico palestinese. Tra i destinatari andrebbe inclusa anche la nomenklatura del Fatah, ancora ostile a dividere il potere (e i soldi della comunità internazionale) con il movimento islamico. In questo senso, dal Cairo, arrivano segnali interessanti. Il governo egiziano, impegnato in una mediazione tra Hamas e Fatah, spinge per un accordo tra le fazioni palestinesi sui detenuti politici. Dopo il 'colpo di Stato' del 2007, del quale Hamas e Fatah si accusano a vicenda, che ha di fatto diviso la Palestina in due: la Striscia di Gaza nelle mani di Hamas, la Cisgiordania nelle mani di Fatah. Da quel momento a oggi, anche durante l'operazione militare d'Israele a Gaza, una sorta di regolamento di conti tra i militanti di Hamas e Fatah è andato avanti tra omicidi, arresti arbitrari e torture. Ieri, come segnale di buona volontà, ottanta prigionieri vicini a Fatah sono stati rilasciati da Hamas. Erano alcuni dei sospettati di aver attentato alla vita di Ismail Hanyieh, leader di Hamas, il 25 luglio scorso. Nell'attacco morirono cinque miliziani del movimento integralista islamico e una bambina. Ehab al-Ghsain, portavoce del ministero dell'interno di Hamas, ha spiegato che gli ottanta prigionieri sono stati rilasciati dopo che è stata accertata la loro estraneità all'attacco. Abu Mazen aveva ordinato la scorsa settimana alle sue forze di sicurezza di rilasciare gli attivisti pro-Hamas arrestati in Cisgiordania.