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Senza tetto sotto il diluvio nei campi profughi saharawi

di Christian Elia - 03/03/2006

Fonte: peacereporter.net

 

Il panorama che al mattino di sabato 11 febbraio 2006 si è presentato davanti ai profughi saharawi e ai cooperanti internazionali  era desolante. I campi profughi, dove i saharawi sono costretti ancora a vivere a 30 anni dall’occupazione militare del loro paese, il Sahara Occidentale, da parte del Marocco, erano stati devastati da due giorni di piogge torrenziali. Alessandro Broglia, un veterinario di Monza, era con loro, come da tre anni a questa parte.
 
campi profughi saharawi dopo l'alluvione - foto del coordinamento ong localiProfughi su profughi. “I campi hanno subito danni ingenti”, racconta Alessandro, “Quasi tutte le costruzioni sono di mattone crudo e l’acqua le ha fatte sprofondare. Gli animali, che vengono tenuti in alcuni recinti all’aperto, sono sopravvissuti. Il problema però è che tutte le strutture comunitarie sono state distrutte: scuole, asili, ospedali, dispensari di medicinali e soprattutto i mercati sono stati spazzati via e, come dappertutto, per i saharawi i mercati sono fondamentali”. Molte famiglie, per paura delle inondazioni, sono fuggite sulle collinette che circondano i campi nei pressi di Tindouf, in Algeria, dove i saharawi trovarono rifugio a metà degli anni Settanta, in fuga dai bombardamenti dell’aviazione marocchina. Secondo le prime cifre fornite dalla Mezza Luna Rossa, più di 12mila famiglie si trovano adesso senza tetto. Il terreno dove sorgono i campi profughi, non riesce ad assorbire le piogge, rare ma torrenziali, e la situazione è precipitata in pochi minuti.
 
Aiuti coordinati. “Abbiamo subito concentrato i nostri sforzi per contenere il rischio di epidemie”, prosegue Alessandro. “I pozzi neri sono esplosi e tonnellate di rifiuti sono state spazzate via dall’acqua, assieme ai resti della macellazione degli animali. Abbiamo cominciato a lavorare alla disinfestazione ambientale e alla messa in sicurezza, con cloro e calce, di questi pozzi”. Alessandro, esponente di Africa70 e SIVtro Veterinari Senza Frontiere Italia, lavora a progetti di sanità animale e di produzione di alimenti per l’allevamento nelle tendopoli saharawi, occupandosi anche di formazione dei giovani. “Un aspetto interessante di questa vicenda”, sottolinea il veterinario, “è che questa volta siamo riusciti a darci un coordinamento. Tutti gli internazionali presenti nei campi profughi saharawi, alla sera, si ritrovavano e pianificavano assieme gli interventi. Dovrebbe essere sempre così, per permettere agli aiuti umanitari di avere un logica. A volte succede che arrivi qualcuno dall’estero, con le migliori intenzioni, e cominci a dedicarsi a un progetto senza confrontarsi con chi magari ha lavorato allo stesso progetto prima di lui”.
 
case devastate dall'alluvione nei campi profughi saharawi - foto del coordinamento delle ong localiNon solo pane. Ma la macchina degli aiuti come ha funzionato? “Piuttosto bene”, dice Alessandro, “i primi a muoversi sono stati gli algerini, che dalla vicina base militare di Tindouf hanno mandato ospedali da campo, tende, autobotti con acqua potabile e medici. Subito dopo sono arrivati gli aiuti spagnoli, che hanno organizzato un’operazione in grande stile, poi sono arrivati gli aiuti dall’Italia, sempre sensibile alla questione saharawi”. Come anche gli spagnoli che, da quando hanno abbandonato il Sahara Occidentale all’invasione del Marocco, dal punto di vista umanitario sono sempre presenti. Ma le Nazioni Unite? “Loro sono arrivati per ultimi e non con la Minurso (la missione dell’Onu per il Sahara Occidentale), che pure aveva uomini e mezzi per intervenire, ma con una squadra d’ispettori dell’Unhcr (Alto Commissariato Onu per i rifugiati), che hanno eseguito un sopralluogo. Per fortuna, il fatto di aver lavorato tutti assieme ci ha permesso di fornire richieste ben mirate e questo dovrebbe servire come modus operandi, in cooperazione tra le grandi agenzie dell’Onu, che si muovono con i loro tempi, e le persone che conoscono la realtà del terreno”. Come sempre c’è un momento nel quale va gestita l’emergenza e un momento nel quale bisogna guardare avanti. “Gli aiuti sono stati fondamentali e, vista la distruzione di alcuni depositi alimentari, il cibo era una preoccupazione fondamentale”, spiega il cooperante di Africa70, “ma il rischio è che si continuino a mandare aiuti di emergenza senza tenere presente che vanno ricostruite le infrastrutture. Per questo, nella nostra campagna per i saharawi, chiediamo il denaro necessario a ricostruire le scuole, gli ospedali e le macellerie, solo per fare alcuni esempi, per permettere a queste persone, passata l’emergenza, di avere una vita dignitosa. Bisogna impedire che si sentano sempre più profughi”.