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Vittime del capitale globale

di Raffaele Ragni - 09/03/2009

 
I bambini e le donne sono le categorie che subiscono le forme più drammatiche di sfruttamento. Il ricorso alla manodopera infantile nella manifattura di alcuni beni destinati all’esportazione (es. tessuti, tappeti, bijoux), trova due principali giustificazioni: riduce i costi di produzione, giacché i bambini ricevono salari bassissimi, ed è insostituibile nelle fasi di lavorazione che richiedono particolare destrezza, in quanto le dita dei piccoli sono considerate più abili di quelle dei grandi nel compiere determinate operazioni.

 

 

In sintesi la competitività e la qualità di merci o semilavorati realizzati nei Paesi in via di sviluppo impone lo sfruttamento dei bambini. E’ la stessa logica secondo cui la competitività e la qualità di beni e servizi prodotti nei Paesi industrialmente avanzati richiede sempre maggiore flessibilità sul mercato del lavoro e crescenti risorse finanziarie da destinare alla R&S piuttosto che ai salari o allo Stato sociale.

Le statistiche ufficiali non consentono di stabilire con certezza la diffusione del lavoro minorile nel mondo. In molti Paesi il lavoro infantile non entra nel calcolo degli occupati. In altri i dati disponibili danno soltanto un’idea parziale del fenomeno. In primo luogo perché computano esclusivamente i piccoli che hanno lasciato gli studi e sono regolarmente inquadrati in azienda, escludendo quelli che lavorano e frequentano comunque la scuola, che sono la maggioranza, circa 50% ed il 70% a seconda dei Paesi. In secondo luogo perché tendono a considerare soltanto quelli dai 10 ai 14 anni escludendo quelli di età inferiore, che in alcune nazioni rappresentano invece il 20% della manodopera infantile.

L’ipotesi che la partecipazione di bambini e bambine ad attività lavorative sarebbe diminuita con l’aumento del reddito pro-capite e con la riduzione della dimensione media delle famiglie, è stata smentita dalle rilevazioni compiute dall’International Labour Organization (ILO) fin dall’inizio degli anni novanta. L’aumento demografico ed i programmi di aggiustamento strutturale imposti dalle istituzioni finanziarie internazionali, che hanno costretto i Paesi poveri a tagliare la spesa pubblica destinata all’istruzione obbligatoria gratuita per pagare gli interessi sul debito, hanno determinato un aumento del fenomeno. In molti Stati i costi della scuola primaria rappresentano circa un terzo delle entrate familiari per cui, considerata anche la pessima qualità delle strutture, i genitori preferiscono mandare i figli a lavorare. Questa scelta viene addirittura favorita dalle legislazioni nazionali in materia di occupazione minorile se l’età minima prevista per l’assunzione di manodopera risulti inferiore a quella in cui cessa l’obbligo di frequenza scolastica. 

La forma di sfruttamento più frequente consiste nel riconoscere al datore di lavoro il diritto alla prestazione lavorativa  di un bambino, in via temporanea o a tempo indeterminato, previo contratto stipulato con un suo parente e dietro corresponsione di una somma di denaro come anticipo sul salario. A volte la forza-lavoro minorile viene offerta gratuitamente in adempimento ad obblighi sociali, di natura tribale o religiosa, o addirittura come garanzia del pagamento di un debito.

I governi dei Paesi in via di sviluppo, la maggior parte dei quali non risponde ai questionari dell’ILO e dell’UNICEF, si difendono dalle accuse di sfruttamento - oltre che col pretesto della competitività e la qualità delle proprie esportazioni - anche con motivazioni di ordine pubblico sostenendo che, lasciando le fabbriche, i bambini poveri non tornerebbero a scuola ma finirebbero a delinquere per le strade. Oppure, si ergono a difesa di un modello di sviluppo indotto dagli investimenti stranieri, manifestando il timore che, se disincentivate a localizzare la produzione sul territorio, gli impianti o le commesse delle grandi multinazionali possano indirizzarsi altrove.

Qualunque siano le priorità dichiarate - che lo sfruttamento avvenga in nome della global competitiveness, del law and order o ancora del big push - il pensiero unico nega l’infanzia a circa 80 milioni di bambine e bambini, non solo nei Paesi poveri. Proprio negli USA, che vorrebbero conferire poteri coercitivi al WTO per irrogare sanzioni economiche agli Stati che non tutelino adeguatamente la dignità dei lavoratori, risulta dalle statistiche UNICEF che moltissimi bambini di origine messicana vengano impiegati al nero in lavori ad alto rischio, ad esempio in agricoltura a contatto con i pesticidi.

Più complesso è il problema dello sfruttamento delle donne. Come consumatrici, dovunque nel mondo le multinazionali abbiano imposto i modelli di consumo dei Paesi industrialmente avanzati, le donne sono il target di una infinità di prodotti - cosmetici, farmaci, contraccettivi, particolari alimenti (es. surgelati, precotti, latte in polvere, cibi e bevande dietetici) - in massima parte nocivi alla salute. Come lavoratrici, in particolare nei Paesi in via di sviluppo a prevalente economia agricola, le donne sono state progressivamente emarginate dalla diffusione di produzioni per l’esportazione, che hanno progressivamente sostituito l’agricoltura di sussistenza. Alcune hanno trovato collocazione negli stabilimenti delle multinazionali o in fabbriche locali che impiegano manodopera a basso costo, dove sono spesso costrette ad accettare condizioni lavorative disumane (ambiente malsano, orari estenuanti, impiego a tempo determinato) ed umiliazioni personali (promiscuità, molestie sessuali, percosse). Altre hanno trovato lavoro nel settore turistico come accompagnatrici, cameriere, ballerine, prostitute. Consideriamo, ad esempio, il caso della Thailandia.

La Thailandia, che è un Paese ricco di risorse naturali, ha sempre avuto cibo a sufficienza, in particolare riso e pesce. Soltanto in alcune regioni montuose del nord, dove soltanto un decimo della terra è coltivabile, la popolazione degli altipiani e delle foreste ha sempre vissuto di stenti. Eventi particolari, come la morte di un capofamiglia o un debito contratto, portavano i più disperati a vendere la figlie femmine, mai i maschi. Tale consuetudine ha alimentato, da sempre, un flusso debole ma costante di prostitute verso le regioni ricche del sud. Andare al bordello è stato sempre un diversivo tollerato dalle mogli thailandesi, che preferivano sapere il marito in compagnia di una prostituta piuttosto che di un’amante o di una moglie minore, termine che identifica le concubine cui la legge, pur vietando la poligamia, riconosce particolari diritti. Ma è rimasto a lungo un privilegio dei ricchi.

Negli anni sessanta la prostituzione fu vietata ma, al tempo stesso, fu varata una legge che disciplinava l’industria dello svago, per dilettare i circa 40.000 soldati statunitensi di stanza nel Paese ed i contingenti che, durante la guerra del Vietnam, vi giungevano in licenza di riabilitazione e riposo (R&R). I magnacci divennero produttori di svago ed i bordelli cominciarono ad essere frequentati, oltreché dagli uomini di successo locali, anche da stranieri. Negli anni ottanta, il governo individuò nel turismo sessuale la soluzione al calo di reddito seguito al ritiro degli Americani. I due milioni di turisti del 1982 sono diventati quattro milioni nel 1988 e sette milioni nel 1996. Due terzi sono uomini soli.

In quegli stessi anni l’economia thailandese è cresciuta rapidamente, grazie alle strategie di globalizzazione di grandi industrie che hanno trasferito o commissionato localmente la produzione di componenti e semilavorati. Dal 1985 al 1995 il prodotto interno lordo è triplicato. Dal 1988 al 1995 la forza lavoro impiegata nelle fabbriche è passata da due a quattro milioni. Dal 1986 al 1996 i salari urbani sono raddoppiati. L’innalzamento generale degli standard di vita e l’effetto imitazione hanno portato al bordello anche i meno abbienti e l’industria dello svago si è differenziata: locali per ricchi e turisti da un lato, locali per operai dall’altro. In questi ultimi, dove le tariffe pagate sono più basse, l’esigenza di contenere i costi porta all’impiego di prostitute, soprattutto bambine, ridotte in schiavitù.

Chi si scandalizza per il cosiddetto turismo sessuale dovrebbe anche domandarsi che lavoro facevano o avrebbero potuto fare le donne delle aree impoverite del mercato globale in alternativa alla prostituzione. Ci riferiamo non solo alle ragazze che si offrono nei locali bordelli, ma anche a quelle che emigrano nei Paesi ricchi per finire sulle strade. Nell’agricoltura di sussistenza, nonostante la proprietà della terra venga riservata ai capifamiglia maschi, le donne svolgono alcune funzioni di primaria importanza: raccolgono i prodotti, ripuliscono i campi dalle piante nocive, selezionano le sementi da conservare per l’anno successivo. Secondo la Food and Agricolture Organization (FAO) circa il 50% del cibo prodotto nel mondo è made by women. La prevalenza femminile in agricoltura tocca i massimi livelli in Africa, dove rappresenta il 70-80% della manodopera. L’espulsione dalle terre offre alle donne poche alternative.

Lungi dal rappresentare il mestiere più antico del mondo, la prostituzione rimane, in massima parte, una forma di schiavitù. Ma non è affatto diversa dall’impiego in fabbrica in una zona franca del Terzo Mondo, dove le aziende globali producono, o fanno produrre, merci labour intensive sfruttando la manodopera a basso costo. Qui il padrone fa le veci del magnaccio, ricorrendo ad intimidazioni e violenze senza che alle lavoratrici sia riconosciuto alcun diritto. Nelle nostre metropoli la violenza sulla donne fa almeno notizia, alla periferia del villaggio globale passa sotto silenzio, in nome del libero mercato.