Missione compiuta in Iraq?
di Matthew Duss - 21/03/2009

Missione compiuta? Non proprio. L’Iraq è ancora tormentato dal terrorismo, e i costi della guerra potrebbero tornare a danneggiare Obama
Una cosa bisogna riconoscere a Dick Cheney: ha tuttora la capacità di superare le nostre peggiori aspettative. Domenica scorsa, parlando con John King della CNN, il – grazie al Cielo ex – vice presidente ha affermato con nonchalanche che l’amministrazione Bush ha "ottenuto quasi tutto quello che ci eravamo prefissi di ottenere" in Iraq.
Anche per un propagandista esperto come Cheney, si è trattato di una affermazione stupefacente. Ma noi sappiamo che cosa è successo realmente. Sei anni fa, l’amministrazione Bush-Cheney ha portato l’America in guerra in Iraq, utilizzando quelle che adesso sappiamo essere state argomentazioni false basate su informazioni difettose riguardo al presunto possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam. Ignorando i consigli dei loro stessi generali e diplomatici, Bush e Cheney hanno ordinato alle forze armate statunitensi a corto di uomini di pacificare e occupare l’Iraq, dando origine a una rivolta, e attirando combattenti estremisti da tutta la regione.
Dopo aver negato per anni l’esistenza di una crisi, e aver dato ripetute assicurazioni agli americani che avevamo “svoltato l’angolo” in Iraq, le vittorie dei Democratici alle elezioni del 2006 hanno costretto l’Amministrazione a riconoscere che era necessario un cambiamento di strategia. Interagendo con diversi altri fattori, la strategia della surge adottata dall’amministrazione Bush alla fine è riuscita a ridurre la violenza.
Anche se la violenza in Iraq fortunatamente è diminuita dai livelli catastrofici del 2006-2007, il Paese è ancora tormentato dal terrorismo. Questi sono alcuni dei principali attacchi dal 1 gennaio 2009, secondo la Associated Press:
• 23 persone uccise da un kamikaze nell’abitazione di un leader tribale a Yusufiya il 2 gennaio
• 38 persone uccise da un kamikaze a Baghdad il 4 gennaio
• 16 persone uccise da due autobomba a un bus terminal a Baghdad l’11 febbraio
• 8 persone uccise da un kamikaze a Karbala il 12 febbraio
• 40 persone uccise da un kamikaze a Musayyib il 13 febbraio
• 13 persone uccise da una autobomba a Hilla il 5 marzo
• 30 persone uccise da un kamikaze in una accademia di polizia a Baghdad l’ 8 marzo
• 33 persone uccise da un kamikaze in un mercato di Abu Ghraib il 10 marzo
Oltre quattro milioni di iracheni sono tuttora sfollati, sia all’interno del Paese che fuori, molti dei quali hanno paura di tornare e altri semplicemente non possono farlo, avendo perso le loro case nelle ondate di pulizia confessionale che hanno trasformato molte delle zone dell’Iraq che un tempo erano miste.
Anche se le elezioni provinciali irachene sono state giudicate un successo legittimo e gradito, molte delle questioni politiche più controverse del Paese – lo status di Kirkuk, la riforma della Costituzione, la distribuzione dei proventi petroliferi – sono tuttora irrisolte. E anche gli analisti più ottimisti prevedono che l’Iraq sarà alle prese con una rivolta a bassa intensità per anni a venire.
In breve, l’Iraq è ancora molto in crisi. Anche se i costi di gran lunga peggiori della guerra li hanno sopportati gli iracheni – nella guerra ne sono stati uccisi fino a 600.000 – i costi per gli Stati Uniti sono stati alti. Più di 4.200 soldati americani sono stati uccisi, con oltre 30.000 feriti, molti dei quali in modo grave che hanno bisogno di cure a lungo termine. Il conto per i contribuenti americani è di oltre 600 miliardi di dollari e continua a salire.
Anche i costi strategici per gli Stati Uniti sono considerevoli: un Iran rafforzato, che ha una influenza significativa nel nuovo governo iracheno e ha aumentato di molto il suo spessore strategico. Il flusso di tattiche e tecnologia terroriste dall’Iraq nella regione circostante, con jihadisti addestratisi in Iraq che partecipano ad attacchi in Libano e nello Yemen; e livelli elevati di diffidenza e di avversione nei confronti delle intenzioni degli Usa che sono stati migliorati solo in parte dalla fine della presidenza di George Bush.
C’è un altro costo significativo che deve essere messo in conto nella debacle irachena: l’Afghanistan. Il giornalista del New York Times Dexter Filkins di recente ha citato un funzionario umanitario occidentale che lamentava "la tragedia ... i 70 miliardi di dollari che avrebbero dato poliziotti e soldati a sufficienza per stabilizzare questo posto sono andati tutti in Iraq". Dirottando truppe e risorse in Iraq nel 2003, l’amministrazione Bush ha permesso ai Talibani di reinsediarsi nelle zone di confine tra Afghanistan e Pakistan, e il Paese è andato sprofondando di nuovo costantemente in una guerra di guerriglia. Non essendo riuscita a completare la missione in Afghanistan, l’amministrazione Bush ha consegnato al nuovo presidente una guerra che promette di essere difficile e costosa come quella in Iraq – se non di più.
Perciò questo è tutto quello che l’amministrazione Bush ha "compiuto" con la guerra in Iraq, che oggi entra nel settimo anno. L’obiettivo di Cheney – nel quale sta venendo aiutato da un certo numero di altri ex funzionari dell’Amministrazione e di “esperti” conservatori – di erigere questa “Potemkin Iraq” retorica nella mente degli americani è evidente: considerare responsabile l’Amministrazione Obama se e quando dovesse scoppiare di nuovo la violenza. Cheney è intelligente quanto disonesto – argomentazioni a sostegno a parte, sa che esiste una discreta possibilità che questo accada nell’Iraq che lui e Bush hanno lasciato al Presidente Obama.
Matthew Duss è ricercatore associato presso il Center for American Progress Action Fund (CAPAF), e tiene un blog sulla Wonk Room del CAPAF.
di Matthew Duss
The Guardian/Comment is Free, 20 marzo 2009
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)