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Etiopia: partito Stato e carestia

di Eugenio Roscini Vitali - 30/03/2009

 
   
 
 


Anche se il sogno del popolo etiope è quello di vivere in un paese dinamico e moderno, in uno Stato dove la povertà e la fame sono incubi legati al passato e la disperazione è solo un vago ricordo di cui non aver paura, la realtà è un’altra, diversa ed ancora una volta terrificante: lo spettro della carestia che lo scorso anno ha devastato il Corno d’Africa è destinato a non finire, un flagello iniziato all’inizio del 2008 che ha già causato migliaia di vittime e che entro breve tempo, in Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenya e Somalia, arriverà a colpire più di 20 milioni di persone, 5 milioni dei quali bambini, 2 milioni quelli sotto i cinque anni. Secondo il governo di Addis Abeba, in Etiopia la siccità avrebbe già distrutto gran parte dei raccolti e più della metà dei capi di bestiame sarebbe andata persa; 13 milioni gli etiopi a rischio, un sesto della popolazione che a causa della drastica riduzione delle scorte alimentari, dovuta soprattutto alla crescita smisurata dei prezzi dei generi di prima necessità, sarebbe afflitta da gravissimi problemi di malnutrizione.

Gran parte delle responsabilità di questa catastrofe umanitaria sono imputabili ai gravi errori di valutazione fatti lo scorso anno dalle stesse autorità etiopi. Confortato dall’opinione di molti esperti internazionali, il governo di Meles Zenawi aveva infatti annunciato che per il 2008 il raccolto autunnale, che in pratica rappresenta il 95% dell’intera produzione annua, sarebbe stato superiore alle aspettative di almeno il 10%; una quantità di cereali sufficiente ad aumentare la razione di cibo giornaliera pro-capite di almeno il 20%, raddoppiare le scorte, comprese le riserve di emergenza, ed esportare non meno di 800 mila tonnellate. Per raggiungere questo obbiettivo il governo di Addis Abeba e i paesi donatori avevano messo in gioco lo stesso Productive Safety Net Programme (PSNP), uno strumento di protezione sociale a medio termine che mira allo sviluppo e all’autonomia alimentare e che offre aiuti sufficienti a superare gli shock dovuti alle stagioni di scarso raccolto ma non riesce a proteggere una popolazione dalle conseguenze di due anni consecutivi di siccità.

Come si è arrivati all’attuale situazione? Innanzi tutto la mancata reazione ai primi segnali di allarme: previsioni di una prima parte del 2008 senza piogge che avrebbe sicuramente compromesso i raccolti; i danni causati dalle alluvioni delle estati 2006 e 2007 che avevano colpito le regioni montuose a sud-ovest di Addis Abeba; l’assenza delle precipitazioni nella stagione delle piogge, quella breve, che sarebbe dovuta iniziare alla fine di settembre dello stesso anno e sarebbe dovuta andare avanti per due mesi. Segni chiari di una situazione meteorologica instabile che avrebbero dovuto allarmare le autorità per il probabile arrivo di una carestia particolarmente violenta.

In realtà il 9 aprile dello scorso anno il sistema di aiuti che avrebbe dovuto salvaguardare 8 milioni di etiopi ha risposto subito all’appello lanciato dalle autorità di Addis Abeba, un’emergenza alimentare che coinvolgeva poco più di tre milioni di persone e alla quale la struttura organizzativa ha prontamente risposto. A causa delle scarsissime piogge che hanno caratterizzato la primavera 2008, nell’arco di tre mesi la situazione si è però drammaticamente aggravata e il numero degli etiopi colpiti dalla carestia è salito a 12 milioni. Il governo, ormai sopraffatto dagli avvenimenti, ha continuato comunque a minimizzare le conseguenze della crisi ed ha risposto all’emergenza dichiarandosi in grado di tenere la situazione sotto controllo. In realtà le riserve alimentari destinate alle emergenze, che avrebbero dovuto contare quasi 400 mila tonnellate di cibo, erano quasi finite: il 70% dei beneficiari della rete di sostegno alimentare avevano infatti chiesto di accedere al sistema di aiuti perché non in grado di superare le difficoltà con i normali canali di assistenza sociale e così, nel momento del reale bisogno, i depositi erano praticamente vuoti. In luglio il cibo veniva razionato di un terzo; tra ottobre e novembre della metà.

Malgrado dall’inizio della carestia i centri di distribuzione ed assistenza siano aumentati di sette volte e in dieci mesi l’Etiopia abbia importato più di un milione e trecentomila tonnellate di cibo, gli aiuti non sono stati comunque sufficienti a far fronte ad catastrofe umanitaria che stava rapidamente assumendo proporzioni sempre più simili a quella che colpì il paese del Corno d’Africa nel 1984. Nell’arco di due anni, degli 8 milioni gli etiopi colpiti da quella che il giornalista inglese Michael Buerk descrisse come “una carestia biblica nel XX secolo”, ne morirono più di un milione, una catastrofe alla quale contributi il regime di Haile Mariam Mengistu che per cercare di far fronte al collasso economico del paese decise di spostare 600 mila agricoltori ed allevatori dai centri rurali del nord ai villaggi che i militari avevano previsto di edificare nel sud del paese. Profughi ai quali non sempre arrivarono gli aiuti e i servizi promessi e che in molti casi, nel tentativo di far ritorno a casa, preferirono morire piuttosto che adeguarsi a questa nuova realtà.

Il regime etiope è sempre stato bravo a mettere in risalto le apparenze, avere un ruolo determinante nell’Unione Africana ed essere il paladino delle democrazie occidentali nel Corno d’Africa; tutto questo mentre il paese si prosciuga e la gente muore. Un solo partito che controlla i posti chiave dello Stato, il Fronte di Liberazione del Tigray del premier Meles Zenawi, e un potere concentrato nelle mani di una sola etnia, i Tigré, che pur rappresentando il 7% della popolazione domina sulle restanti otto etnie. Uno squilibrio che mina la legittimità del regime ed ostruisce qualunque apertura verso la democrazia, un monopolio che ha dimostrato il suo modo di trattare con l’opposizione con la repressione del 2005. E’ in questo contesto che non si fa fronte alla siccità in arrivo, che non si comprendono le conseguenze dell’isolamento dei vertici dal resto del paese; una leadership chiusa, fondata sul patrimonio dell'identità Abissina e su un innato senso della gerarchia e dell’autorità, un centralismo “democratico” che rimane legato a quel modello di Partito-Stato che per decenni ha governato un paese che continua ancora oggi a morire di sete e di fame, come se la cosa non riguardasse nessuno.