Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Chiapas. Dalla rivoluzione all’emigrazione

Chiapas. Dalla rivoluzione all’emigrazione

di Lucia Capuzzi - 01/04/2009

      
 

 

 
“Avvenire” dedica un articolo di inchiesta alla regione messicana del Chiapas dove, nonostante la presenza del petrolio, la popolazione indigena di origine Maya vive in un grave stato di povertà che a sua volta provoca numerose malattie. A fianco dei chiapanechi vi sono i religiosi e i ribelli zapatisti. Dopo aver brevemente ripercorso la storia delle tante insurrezioni di questa regione contro il governo centrale, l’articolo analizza la situazione di estrema indigenza in cui versa la popolazione.
Le insurrezioni armate hanno avuto il pregio di risvegliare l’attenzione internazionale sulla questione del Chiapas, ma per molti l’unica strada per la sopravvivenza rimane ancora l’emigrazione.

L’ultima volta dicono di aver visto Juan Lopez nel 1993, pochi mesi prima che il 1° gennaio 1994 i ribelli zapatisti occupassero San Cristobal de las Casas, squarciando il velo che per secoli aveva tenuto il Chiapas confinato nel ‘dimenticatoio del mondo’. Camminava per il villaggio di Tzuluwitz, nel cuore della selva Lacandona – un umido labirinto di felci e mangrovie incastonato tra Messico e Guatemala – con la bisaccia a tracolla, piena di zucchero. La stessa che l’uomo – di etnia Tzeltal – portava al mercato di Cancuc, quella mattina del 1712 quando vide i soldati spagnoli massacrare alcuni indigeni e decise di reagire. Fu l’inizio di un’imponente sollevazione: i nativi, per alcuni mesi, tennero testa ai conquistadores. Poi, Lopez fu catturato e impiccato ma per i discendenti dei maya non è mai morto. Si aggira nella giungla e, di tanto in tanto, riappare per incitare il suo popolo alla ribellione contro l’ingiustizia. Il mito del ‘Re Indio’ – così i locali chiamano Lopez – è la perfetta metafora della ‘questione chiapaneca’: una rivoluzione eternamente incompiuta, che esplode ciclicamente, come reazione alla condizione di marginalità in cui si trova la regione, allo stesso tempo, tra le più ricche e le più povere del Messico. Perché il Chiapas possiede risorse naturali di inestimabile valore – caffè, banane, petrolio, metano, oltre ai bacini da cui deriva metà dell’energia elettrica delle nazione – ma gran parte degli abitanti – soprattutto gli indigeni che qui sono circa un quarto della popolazione – vive in miseria.
Un dramma che riguarda nel 70 per cento dei casi i discendenti dei maya. Non è necessario leggere le statistiche per rendersi conto della povertà del Chiapas, perché è scritta a chiare lettere sui visi della gente. Su quelli dei bambini che si affollano sul piazzale della cattedrale di San Cristobal per vendere qualche cianfrusaglia ai passanti. O su quelli rugosi ed enigmatici degli anziani maya, avvolti in scialli colorati che contrastano con lo squallore delle loro casupole di paglia e mattoni. O, ancora, su quelli sfiniti degli indios ammassati nella sala d’attesa dell’ospedale San Carlos di Altamirano. «Hanno camminato per ore o giorni» racconta la direttrice suor Julia Flores, che gestisce la struttura insieme ad altre nove Figlie della Carità di San Vincenzo. Il San Carlos, nella sua semplicità, è dotato di attrezzature di buon livello per curare vari tipi di malattie. La più diffusa è, però, la povertà e le infezioni che da questa derivano: dissenteria, tubercolosi, denutrizione. In una regione dove, secondo il ministero della Salute, c’è un medico ogni mille abitanti, dare assistenza sanitaria è una sfida continua. L’ospedale di Altamirano fa di più: offre agli indigeni una vera accoglienza. «Il 99 per cento dei nostri pazienti sono nativi, tanti non parlano spagnolo – aggiunge suor Julia –. Così ci sono delle traduttrici che spiegano le diagnosi nelle lingue indigene, cosa che non accade nelle altre cliniche». A chi non può pagare, inoltre, vengono distribuite le medicine gratis. «Gli altri contribuiscono con quel che possono – conclude la missionaria –: un po’ di frutta, del mais». C’è, però, chi non ha nemmeno quello. «Tante comunità soffrono la fame – spiega padre Manuel Corral Martin, segretario generale della Conferenza episcopale messicana –. La gente per sopravvivere è costretta ad accettare condizioni di lavoro durissime. Ai contadini delle piantagioni di caffè danno due dollari al giorno, meno della metà del salario minimo stabilito». È la miseria atavica e diffusa a far tornare, ogni tanto, Juan Lopez. Gli indigeni ne sono convinti. Forse è per questo che pochi di loro si sono stupiti quando quindici anni fa un gruppo di guerriglieri è spuntato dalla selva e ha invaso San Cristobal. Non importa che il ‘Re Indio’ avesse un passamontagna al posto della bisaccia e che non fosse un indigeno, ma un ricercatore di Città del Messico, Rafael Guillen, alias il subcomandante Marcos. Per giorni, i ribelli dell’Ejercito zapatista de liberacion nacional (Ezln) hanno occupato la città, prima di essere ricacciati nella giungla dall’esercito.
Riuscendo, però, a radicarsi e costruendo una serie di municipi autonomi nel Nord – che si richiamano all’antica tradizione indigena e sono riuniti nelle cinque entità amministrative dette ‘Giunte del Buon Governo’ – la cui autorità si sovrappone a quella dei ‘comuni ufficiali’. Il risultato è un delicato equilibrio di poteri. In alcuni casi, zapatisti e non convivono nella stessa comunità e rispondono a leggi diverse. A volte, i conflitti si risolvono in modo pacifico. Altre, la tensione sale. Marcos – proprio come Juan Lopez – scompare per poi riapparire e lanciare, via Internet, appassionati proclami contro capitalismo e globalizzazione. Al di là della retorica, l’insurrezione zapatista è riuscita ad attirare sul Chiapas l’attenzione del mondo e dello stesso governo messicano. Negli ultimi tempi sono stati fatti dei passi avanti. Anche grazie all’impegno della società civile e soprattutto della Chiesa, molto sensibile alle sofferenze degli indios chiapanechi.
[...] La ‘questione chiapaneca’, dunque, resta aperta. E, stanchi di aspettare il ‘Re Indio’, molti indigeni cercano un’altra strada per liberarsi della miseria: l’emigrazione.