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Con la scusa della crisi cambieranno la società e la politica

di The Advisor - 04/05/2009

 



Che questa crisi non sarà una crisi qualsiasi lo si era capito, che sarà peggio delle altre pure ma fino a che punto modificherà la nostra società, il nostro modo di vivere, di essere, di pensare forse ancora non è ben chiaro a tutti. Il Sole 24ore del 29 aprile 2009 è piuttosto esauriente sull'argomento e ci fa capire con sufficiente chiarezza che questa volta non ce la caveremo a buon mercato, che non sarà tutto come prima, che il nostro Paese sarà coinvolto, forse più degli altri, in un cambiamento strutturale obbligatorio, come forse mai si era visto in passato. I tre articoli che segnaliamo permettono, se letti in modo congiunto e con la dovuta attenzione, di mettere a fuoco alcune importanti considerazioni sul nostro futuro.



In primo luogo è del tutto evidente che il potere politico mondiale si trova di fronte ad una scelta: far fallire la finanza con il sistema bancario e creditizio in prima linea o cercare di salvare il salvabile con l'unica via possibile: scaricare sui debiti pubblici il costo dell'operazione-salvataggio. La scelta, per il sistema, non prevede che una risposta: salvare ad ogni costo le banche, le istituzioni finanziarie, salvare in ultima analisi il sistema stesso. Ed il costo dell'operazione, ancora non perfettamente chiaro quanto a dimensioni, sarà enorme, tale da portare, secondo le stime del FMI, il debito pubblico presente nei Paesi del G20 dall'attuale 75% del Pil del 2008 al 110% nel 2014. Si tratta, in ogni caso, di una stima approssimata benevolmente per difetto, passibile di un aumento fino al 140% nel caso di variabili ancor più negative quali tassi, andamento delle borse ed asset tossici da finanziare maggiori dell'attualmente prevedibile.

C'è, quindi, poco da stare allegri, tanto più in un Paese come l'Italia che quanto a debito pubblico, è già di suo in condizioni critiche. La debolezza del nostro Paese appare ancor più evidente se si confronta il suo andamento economico, l'andamento del Pil per intenderci, con quello giapponese. Praticamente negli ultimi due decenni i grafici delle due nazioni sono sovrapponibili e, nelle proiezioni future, lo saranno ancora . Alessandro Merli la definisce "sindrome giapponese", non è un virus ma non è niente di buono: significa stagnazione economica che segue una crisi finanziaria.

Il nostro Paese insomma sembra incapace di una reazione, incapace di cogliere gli impulsi positivi (positivi nella logica dell’attuale modello di sviluppo, naturalmente) di una ripresa mondiale. E di crescita ce ne sarà bisogno, sarà, anzi, indispensabile per recuperare il pesante passivo del debito pubblico che questa crisi genererà, per poter uscire dalle secche del debito stesso e poter dare alle generazioni future una speranza. Bisognerà correre, mettere la quinta e sforzarsi di creare prodotti competitivi. Il tutto con un costo del lavoro ridotto, con un inevitabile ridimensionamento del welfare, con un recupero di efficienza da parte della macchina amministrativa dello Stato: con tutto ciò che serve, insomma, per far sì che l'Italia torni a essere terra di investimenti appetibili e di produttività garantita.

È questa la visione che ci vogliono imporre. Questo il futuro al quale ci hanno condannato. Un futuro, di crescente competizione sociale e di decrescenti tutele, che si protrarrà a lungo, se non per sempre. Ma, si chiede il sempre lucido Carlo Bastasin, con quale politica si attuerà tutto questo? Attraverso quale rapporto tra la stessa politica e l’economia, e la società nel suo complesso? La risposta è scontata: “il debito costringerà dunque nei prossimi anni la politica a ritirarsi dall'interventismo per assumere più di prima il compito di garante delle regole e dei diritti, compresi quelli sociali in un'accezione della cittadinanza che andrà allargata". Occorrerà in un clima generale difficile e di avversione al rischio che la classe politica riesca nell'impresa di mantenere il consenso e di produrre crescita. Sarà inevitabile "toccare proprio i settori politici dell'economia, quelli rivolti alla domanda interna". Sarà indispensabile un mutamento di ottica nel rapporto tra cittadino e istituzioni politiche, un nuovo patto che renda moralmente accettabili i sacrifici e che, allo stesso tempo, imponga una nuova direttiva ben precisa, allo scopo di rendere immediatamente il Paese più competitivo, più "dinamico". In quest’ottica si profilano anche alcuni possibili mutamenti istituzionali che potrebbero accompagnare questo nuovo modello nazionale. Mutamenti che mirano ad accentrare il potere in alcune figure istituzionali con l'evidente scopo di favorire la rapidità, e la insindacabilità, delle decisioni.

Nulla, insomma, potrà più essere come prima. Si affermeranno nuovi principi di comportamento e un nuovo modo di concepire la vita pubblica. La politica stessa sarà condizionata da questa crisi, da questo "affaire", che via via arriverà a scardinare dalle fondamenta l'architettura stessa della società così come noi la conosciamo. E poiché questo modello, per funzionare appieno e per imbrigliare il malcontento popolare, avrà la necessità di rinsaldare l’unità nazionale, è assai probabile che sulla nostra scena politica si affaccino dei nuovi personaggi che – non essendo, o non apparendo, troppo compromessi col passato – facciano da catalizzatori di un sentimento comune di condivisione. Un'impresa alquanto complicata, ma che a giudicare da alcuni segnali, di cui parleremo in seguito, potrebbe essere già cominciata.