Il tentativo “imperiale” degli Usa è al momento fallito
di Gianfranco La Grassa - 08/05/2009
1CHI E’ IN BUONA FEDE FARA’ AUTOCRITICA di GiellegiFin da quando è nato (oltre tre anni fa), questo blog ha criticato alcune tesi che sono state monetacorrente in frange “ultrasinistre” per troppo tempo. Il sottoscritto ha poi contestato le tesi in questioneda sempre, fin da quando alcuni “vecchi arnesi” del ’68 (peggio ancora quelli del ’77) lehanno “tirate fuori dalle maniche” non sapendo più che cosa inventare. Agli “inventori” non concedoalcuna buona fede. Possono anche essersi fatti un po’ di galera (o di migliore vita a Parigi), marestano solo dei piccoli ambiziosi con molte relazioni tra i radical chic italiani, che li hanno protettie introdotti nell’establishment: quello dei salotti dei “buoni capitalisti” italiani (e stranieri) pronti afinanziare e stampare queste loro insulsaggini “ultrarivoluzionarie”, in realtà tese a servire mirabilmentegli interessi dei parassiti della finanza e “industria decotta”, semplice dépendance della supremaziaamericana.L’Impero negriano e la Moltitudine (le peggiori di queste invenzioni) sono aberranti od opportunistiche,un autentico mascheramento ideologico dell’aggressione “imperiale” statunitense.L’altra banale tesi, quella della fine degli Stati nazionali, è ormai abbandonata da molti dei suoi sostenitori:quelli appunto in chiara buona fede, che avevano solo preso un abbaglio, avendo credutoche il decennio (o poco più) di apparente totale predominio degli Usa – dopo il “crollo del muro” ela dissoluzione dell’Urss – indicasse questa presunta fine. Ho preso anch’io l’abbaglio di un lungopredominio globale statunitense, ma non mi sono lasciato irretire dalla tesi suddetta; ho subito sostenutoche non era finito nessuno Stato nazionale, erano semplicemente tutti in quel periodo subordinatirispetto all’unico rimasto superpotente. Già nel 2003, tuttavia, affermai che rinasceva la Russiae tale fatto – unito alla già presente Cina, all’India, ecc. – riproponeva l’avvio di una fase diversa,precisatasi poi nella sua totale portata dopo due-tre anni e sanzionata dal cambio di strategia statunitensecon l’elezione del nuovo Presidente.Oggi, tutte le persone, e correnti (giornali, ecc.), in buona fede hanno cambiato idea; in pratica,non mi sembra di leggere nulla in giro – salvo che in alcuni derelitti ancora “negriani” – in merito aquella tesi ormai sbaraccata. Cerca invece di resistere il cosiddetto “altermondialismo”, che – con ilsuo obsoleto movimentismo, i no-global, i “social forum”, ecc. – rappresenta l’ultimo (o quasi)fronte degli zombi. Ho letto recentemente uno sconsolante e melanconico scritto di Lusson e Massiah(membri del Cedetim-Ipam, mi pare pure di Attac, ecc.), che mette in mostra tutta la debolezzae vecchiezza di questi residui: sembrano non “dell’altro secolo e millennio”, ma proprio di un secoloo millennio fa. Chi è in buona fede si staccherà pure da queste false alternative, che oggi appoggianodi fatto Obama (quindi gli Usa) e si rifanno ad economisti come Stiglitz, immagino ancheKrugman e simili.Sono lieto di aver da anni e anni attaccato sia il liberismo (neo) che il sedicente keynesismo,cioè un banale e smidollato statalismo, mostrando reiteratamente come fossero ideologie in reciprocosostegno antitetico-polare. Nei miei libri (ad es. Gli strateghi del capitale o Finanza e poteri), epoi nel sito, nel blog ecc., ho sviluppato mille volte questi temi, per cui mi limito qui a ricordare pochecose. Viene adesso in evidenza il limite di tutti questi movimentismi: la sola critica al neoliberismoe quindi alla politica degli Usa di carattere più aggressivo; addirittura concentrandosi su quelladi Bush e perfino dimenticando quella di Clinton. Questa gente, non essendo mai passata per la lezionedel leninismo, non capisce nulla di strategia e tattica, non capisce nulla dell’“analisi concretadella situazione concreta”; insomma, non capisce nulla della congiuntura o fase in cui ci si trova adoperare.Il neoliberismo si è affermato nella fase finale dell’involuzione del sedicente campo alternativoal capitalismo. E’vero che è stata la Thatcher a dare inizio alla rivincita di tale corrente di pensierocapitalistico su quella “keynesiana”, ma è con Reagan e durante l’ultima fase dello scontro tra i“due campi” – caratterizzata dalla nomina di Gorbaciov a segretario del Pcus, segno chiaro di ormaiirreversibile impasse economico-politica e di resa vicina – che il neoliberismo prende il suo pienosviluppo. Scomparso di fatto, nel giro di due anni (1989-91), il campo avversario – rimasta la Cina2come potenziale potenza del futuro; un futuro però ancora lontano – questa corrente di pensiero èstata l’espressione, anche pratica e non solo teorica, di quella via che sembrava del tutto aperta pergli Usa: un’autentica “autostrada” in direzione dell’Impero (americano, non quello cui ho sopra accennato,semplice frutto di un cervello fuori di senno od opportunista). Più o meno siamo caduti tuttiin quest’ottica falsata. Già la crisi del 1997 poteva forse mettere sull’avviso; ma solo a patto dicadere una volta di più nel mero economicismo.In realtà, a mio avviso, è solo con il 2003 che si comincia ad evidenziare in modo lampante comela strategia “imperiale” statunitense non fosse destinata ad un facile e pieno successo. Da unpezzo la Cina (e anche l’India) indicavano la strada, ma abbastanza lunga, della nascita di nuovepotenze “ad est”. Tuttavia, è stata la rinascita russa – anticipata dalla resistenza di Primakov di fronteall’aggressione clintoniana alla Jugoslavia, fatto che sembrava però solo “una rondine che non faprimavera” – a segnare la vera svolta internazionale. Già durante l’ultimo periodo della presidenzaBush si manifestarono segnali di svolta: ad esempio con la liquidazione di Rumsfeld e in fondo anchedi Wolfowitz (mandato alla Banca Mondiale nel 2005 e poi da lì rimosso nel 2007, per altri motivi).Del resto, sarebbe errato non vedere che l’impresa in Irak non è poi finita così male per gliUsa come sembrava all’inizio; e ciò è dovuto appunto a mutamenti tattici. Comunque, è ovvio cheun vero cambiamento dovesse verificarsi con un segnale (“pubblicitario”) più forte: l’elezione delnuovo presidente americano.*****Al di là delle persone, le svolte effettive sono sempre caratterizzate da reali nuovi indirizzi dellapolitica perseguita. Possiamo, a seconda dei casi, indicarli come strategici (per sottolinearne la rilevanzae una certa cesura rispetto al passato) o tattici, quando vogliamo segnalare che non sono mutatele finalità di fondo perseguite dall’attore di tale nuova politica. E’ quanto è accaduto negli Usa,che si sono dovuti rassegnare a tempi molto più lunghi, e incerti, per i loro “sogni imperiali” di supremaziamondiale. Il battage dell’elezione obamiana è stato assordante e particolarmente infantile;ma ha incontrato in Europa, e in particolare in Italia, un terreno fertile costituito da servi che piùservi non si può: a destra e soprattutto a sinistra. Solo che in quest’ultima, in specie in quella che sipretenderebbe “radicale”, e perfino antimperialista, al servilismo va aggiunto un sovrappiù di stupiditàveramente “radicale”.Avendo identificato – da effettivi economicisti, che abbondano a sinistra – il disegno imperialeamericano con il mero neoliberismo, gli attuali cambiamenti tattico-strategici sono visti come la vittoria(almeno parziale) di quella nullità teorica e pratica che è l’altermondialismo. Allora andiamoper ordine. Intanto, constatiamo con “orrore” (per la stupidità umana, specialmente debordante asinistra) che si è potuto credere veramente alla sottoscrizione di milioni di americani (chi magaricon soli 10 dollari) come decisiva per fornire i fondi necessari alla campagna elettorale di Obama(una somma assai superiore a quella spesa dal candidato avversario: McCain). Chissà come mai alloraObama, pur dando tutta la colpa della crisi alla finanza (altra bufala degli ideologi di destracome di sinistra), ha mantenuto in carica (suprema) Geithner, amico intimo dei maggiori finanziericon i quali continua ad intrattenere i migliori rapporti. Del resto, tutti gli uomini di Obama sono legatia vecchi apparati di potere.Se mi si consente una digressione, è come quando già negli anni trenta Berle e Means scrivevanodelle grandi corporation come di società “democratiche” con decine di migliaia di proprietari (azionisti).Poi, si è visto benissimo che tale democrazia nascondeva due fatti molto precisi: a) bastavache un gruppo avesse una piccola quota azionaria (il 10 o perfino il 5%) per controllareun’impresa al 100%, perché i piccoli azionisti – salvo che in film simpatici ma bugiardi come Unacadillac tutta d’oro, e salvo che nel “cervellino” di tipi come Grillo – non contano un c…..; b) nonvi era a volte nemmeno il gruppo proprietario di questo 5-10%, e il controllo completo spettava almanagement (da cui le ben note tesi di Burnham sulla rivoluzione manageriale).3Vogliamo fare un altro esempio? Un’azienda, aiutata politicamente da chi se ne serve come testadi ponte per varie influenze in sede internazionale (alludo a qualcuno? Certo che alludo) emettemagari un prestito obbligazionario per 5 miliardi (di dollari o euro o yen, non c’interessa). Un milionedi persone sottoscrive 1000 unità monetarie, a testa. Gli altri 4 miliardi sono sottoscritti tramitebanche da vari gruppi che costituiscono una rete complicata, di cui non è facile trovare il bandolo.I creduloni metteranno in luce la “democraticità” dell’operazione che ha un milione di creditori,i quali non contano in realtà un bel nulla. Così pure, i milioni di votanti (e sottoscrittori di 10 o 100dollari a testa) per Obama non contano nulla fra i “creditori” della “grande Spa” rappresentata dagliStati Uniti. Sono ben altri i gruppi che imperversano. Non solo per aver fornito la stragrande partedelle somme spese per la campagna elettorale obamiana (e di cui quelle indicate pubblicamente sonosolo la “punta dell’iceberg”); non siamo così scioccamente economicisti. Hanno reale influenza ivari gruppi di pressione che si battono per imporre determinati orientamenti all’azione del governostatunitense; ogni gruppo riterrà il suo orientamento il più opportuno in quella data fase storica, e ilsuccesso prevalente (o meno) dell’uno o dell’altro “produrrà” alla fine la strategia effettivamenteseguita, che sarà una sorta di “vettore di composizione delle forze” in conflitto.*****Il cambiamento di politica statunitense – dalla violenta esposizione della forza ad un più vellutatoaggiramento di posizioni – è intanto meno marcato di quanto viene propagandato. Stava di fattopassando sotto silenzio stampa (vergogna per questi luridi servitorelli! Solo poche notiziesull’Ansa) l’ultima strage di civili compiuta in Afghanistan. Solo che adesso Karzai (ambiguo e chedesta sospetti negli Usa per certi “colloqui” con i russi) ha protestato. Per di più, lo stesso, assiemeal presidente pakistano, è andato a Washington per meglio definire le nuove mosse da compiere inquella zona asiatica. Così alla strage è stata data infine un minimo di pubblicità. “Il Re (Obama) ènudo”, ma solo per chi non vuol farsi ingannare. Lascio perdere la bambina ammazzata dai nostrisoldati. Il problema non è quello degli “incidenti”; il vero fatto è che la strategia americana è statasolo rivista per il minimo indispensabile; e anche i loro servitori europei (nella Nato) seguono passivamentele “serpentesche spire obamiane”. Abbiamo detto sopra: vi è un cambiamento di strategiase guardiamo ad alcune forme di manifestazione della politica, solo di tattica se consideriamo il fineche è sempre il medesimo.Il fine resta la supremazia “imperiale”, che tuttavia è oggi ostacolata da un certo numero di potenzein rafforzamento (malgrado risentano anch’esse della crisi in corso). E’ dunque ovvio che ilcambiamento (tattico o strategico) non coinvolge il “tutto”. Parti importanti della politica americanarestano fondate sulla violenza militare; le attuali manovre Nato – di fatto un sostegno alla Georgia(dove si è svolto un fantomatico “colpo di Stato” assai simile ad una “bolla di sapone”, almeno peril momento) – sono un’ulteriore dimostrazione di quanto i mutamenti “strategici” della nuova Amministrazioneamericana siano sostanzialmente di facciata. Dichiarazioni di disponibilità versol’Iran, non seguite da nessuna effettiva mossa di ripensamento rispetto ai diktat del passato. Strettedi mano a Chavez, anche qui non seguite da nulla che vada oltre il sorriso a pieni denti. Aperturepuramente verbali per quanto concerne la possibilità di discutere con la Russia dello scudo missilistico,da mettere nei paesi europei confinanti con la nuova potenza. E via dicendo. Solo la stampaeuropea, imbeccata dalla classe dirigente economica e politica di un’area ormai vergognosamenteallo sbando (quella italiana degna di particolare menzione), sta facendo propaganda sfrenata, con lasinistra in testa, a questo Presidente la cui novità, rispetto ai precedenti, è vieppiù confinata alla solaepidermide. Il colore è diverso, la mentalità e l’appoggio ricevuto dai più potenti gruppi capitalistici(ivi compresi quelli finanziari) sono gli stessi.Eppure, è bastato che la crisi costringesse ad interventi “pubblici” massicci per cercare di salvareil salvabile (sembra che tali finanziamenti siano di molto inferiori comunque al valore complessivodei cosiddetti asset tossici) per far gridare i residui “keynesiani” ad una strepitosa (e definitiva)4vittoria sul neoliberismo. Ancor più dementi i social forum, no-global, altermondialisti e “cianfrusaglie”simili, che “sbrodolano” addirittura circa la resa del capitalismo, poiché hanno sempre confusoquest’ultimo con il neoliberismo. Evidentemente, qualcuno privo di buon senso pensa che Keynesfosse un pericoloso sovversivo anticapitalista. Oso affermare che, per nostra fortuna, si trattavainvece di uno studioso di grande serietà (non discuto nemmeno, è ovvio, la sua genialità e preparazione“professionale”), la cui opera teorica ha messo nel sacco presuntuosi “rivoluzionari da camera”.Liberismo e keynesismo sono due correnti filo-capitalistiche, che si alternano – in opposizioneantitetico-polare – nell’ordinaria amministrazione della formazione sociale (quella dei funzionaridel capitale) in fasi diverse (mono o invece policentriche) di quest’ultima.Parlo di ordinaria amministrazione poiché anche le crisi economiche – perfino quelle del 1907 e1929 – non fuoriescono dal quadro di tale ordinarietà come credono appunto quelli che confondonoancora il capitalismo con la sua fase monocentrica (in cui una formazione particolare fa da centroregolatore del sistema complessivo), mentre quella policentrica diventa sempre, pur in forme mutaterispetto al primo novecento, un ultimo stadio che prelude alla morte del capitalismo (o ad operadella fantomatica “rivoluzione proletaria mondiale”, oggi in disuso, o per movimenti e masse “scatenate”solo nel cervello degli altermondialisti et similia).*****Le spese statali (l’“intervento pubblico”) hanno connotati diversi: sia a seconda delle sopra citatediverse fasi attraversate dal capitalismo, sia tenendo conto di quali formazioni particolari le effettuanocon scopi assai differenti. Ad esempio, l’alta spesa pubblica del neoliberista Reagan – con i“keynesiani” convinti di essere ancora almeno moralmente vincitori, poiché credevano erroneamentesi continuasse a seguire i loro precetti – era invece finalizzata alla potenza in un momento di particolare,e ultimo, sforzo per approfittare dell’ormai vicina e palpabile sconfitta dell’Urss e del“campo socialista”. Non c’entrava nulla con il Welfare e con la credenza che lo Stato sia in grado diregolare l’economia ed evitare le crisi. La forte autonomizzazione della finanza, con tutti i dissestiinfine manifestatisi nell’attuale congiuntura, è stata anch’essa il risultato della necessità di ingentimezzi (in un sistema mercantile sempre espressi, in ultima analisi, nel segno monetario) da dedicareal disegno “imperiale” che gli Usa, nel decennio seguente alla fine del “socialismo” e dell’UnioneSovietica, hanno creduto ormai a portata di mano.Anche adesso, non si creda ad un vero cambiamento di segno dei forti impegni di spesa “pubblica”presi dalla nuova Amministrazione americana. Si sono salvate banche, si sono promessi sussidiper alleviare disagi e malcontenti. Soprattutto però si stanno impiegando ancora forti risorse per operazionimilitari (tipo Afghanistan) e di minaccia e ricatto (manovre Nato e altre), per effettuaresottili (si fa per dire!) penetrazioni in zone chiave in svariate parti del mondo, per ridurre ancor piùin sudditanza i vecchi e fedeli servi europei (vedi appoggio alla Fiat, che è solo l’ultimo e più appariscentefatto del genere) sia al fine di contenere le potenze “ad est” sia per scaricare su di essi i costidella crisi. Chi blatera sugli Stati Uniti in ginocchio (magari per gli “asset tossici”) si illude ovuol illudere. Tale paese ha modificato la propria strategia (tattica) e sta operando con maggior vigoredi prima; e sempre a tutto campo. Questa è la “spesa pubblica” del paese ancora preminente,pur se non più “imperiale”. La rivincita dei “keynesiani” sui neoliberisti sta solo nelle mistificazioni,consapevoli o inconsapevoli, di coloro che fanno da paravento alle operazioni statunitensi.Non si esce da questa crisi con gli Stiglitz o con i Krugman, e via dicendo: semplici ideologi diuna delle due correnti di pensiero della formazione dei funzionari del capitale. Se ne uscirà – e ancoranon è chiaro di che tipo di crisi si tratti; propendo per la versione tendenzialmente “stagnante”,tipica delle “grandi trasformazioni” precedenti l’aperto e schietto policentrismo con il suo più acutoconflitto e “resa dei conti” – con i “nuovi” metodi statunitensi e con quelli della Russia e Cina che,pur diverse tra loro, sembrano preannunciare una differente formazione sociale. Niente Welfare,maggior presenza invece di quello che definiamo Stato, con una drastica semplificazione termino5logica corrispondente a quella concettuale, ancor più rozza e mistificante. Il Welfare State non è nélo Stato Usa né quello esistente “ad est”, ma più semplicemente corrisponde alla funzione “pubblica”svolta dalla sfera politica in società capitalistiche guidate da agenti subdominanti all’interno diun “campo” (quello detto “occidentale” o, con ancor più bieca ideologia, “mondo libero”) che, percirca mezzo secolo, fu subordinato ad un centro tutto sommato regolatore, costituito dal paese inmano ai predominanti funzionari del capitale.Caduto “l’altro campo” (ideologicamente considerato socialista), gli Usa hanno per dieciquindicianni tentato di estendere all’intero globo il loro predominio monocentrico (ecco checos’era la “bufala” della globalizzazione, per glorificare la quale si è tentato di “arruolare” perfinoMarx in una di quelle rénaissances condotte da ideologi di particolare disonestà intellettuale). Nonsiamo ancora usciti completamente da questa fase, ma sembra proprio che siamo in uscita verso ilmultipolarismo (non ancora il policentrismo, con la sua più aperta contesa tra potenze: da qui le mieperplessità sulla gravità effettiva della crisi in atto). In ogni caso, il tentativo “imperiale” degli Usa èal presente fallito, pur se tale paese sta tentando di riproporlo per altra via; e coloro che cianciano didefinitivo declino degli Usa o addirittura del capitalismo tout court – identificato, appunto, con ilmero neoliberismo – sono o complici consapevoli o superficiali in buona fede. Si può attendere unpochino – non però molto ancora – per sciogliere l’“enigma”. Chi è in buona fede farà presto autocritica;altrimenti, sarà semplicemente un servo prezzolato dei subdominanti italiani (ed europei)sempre agli ordini dei predominanti americani.Occorre compiere un ulteriore passo, forse più complesso e teorico, riguardante la “questionenazionale”. Ci rifletterò ancora un po’ sopra; per oggi è sufficiente quanto detto.