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La patria non è un fatto geografico, ma un modo d'essere religioso

di Francesco Lamendola - 11/05/2009


 

Che cos'è la patria?
In genere, la nostra formazione di occidentali, basata sull'istituzione dello Stato moderno, tende a suggerirci una risposta di tipo politico e territoriale.
Il Vocabolario Zingarelli, ad esempio, la definisce come il «paese comune ai componenti di una nazione, cui essi si sentono legati come individui e come collettività, sia per nascita sia per motivi psicologici, storici, culturali e simili».
In effetti, l'etimologia di «patria» deriva da «terram patria(m)», «terra dei padri»; ma i padri, per gli antichi, non sono necessariamente presenti in un luogo fisico. Si pensi ad Enea che viaggia per tutto il Mediterraneo con gli dei penati di Troia: la patria, per lui, è a bordo delle navi, o sulle spiagge che via via egli e i suoi compagni toccano nel corso delle loro peregrinazioni; e, alla fine, è ristabilita presso le foci del Tevere, in Italia.
Ma c'è una maniera ancora più spirituale di intendere la patria, che è propria dei popoli nativi - da noi chiamati, a lungo, «primitivi» o, addirittura, «selvaggi» -, ed è quella di identificarla con una modalità dello spirito, come un fatto essenzialmente religioso: certo legato ad un luogo fisico, ma non in senso giuridico-territoriale.
Una delle prime difficoltà che i bianchi incontrarono con gli Indiani d'America, infatti (ma anche con i popoli africani ed asiatici), era legata alla diversa concezione del rapporto fra terra e nazione. I bianchi pensavano che la terra degli indigeni potesse essere acquistata in moneta sonante, e si stupivano della risposta che le loro offerte ricevevano: «Come potete pensare che noi siamo in grado di vendervi la terra, nostra madre? Tanto varrebbe che ci chiedeste di vendervi l'aria, il mare o il cielo. La terra non è in vendita, perché non è di nessuno; in essa, poi, riposano i nostri antenati. Che cosa ne penserebbero, di un simile mercato?»
Secondo le definizione di Hubert Weinzierl, «la patria non è un fatto geografico, ma un modo d'essere religioso».
Il capo indiano Seattle, nel suo famoso discorso del 1887, dà una definizione di patria che evidenzia la differenza di concezione fra bianchi e indiani (riportata in: Rudolf Kaiser, «Dio dorme nella pietra. La "scoperta" del pensiero degli Indiani d'America»; titolo originale: «Gott schläft im Stein», Red Edizioni, 1992, e Demetra, 1996, p.142):

«C'è poco in comune tra noi. Le ceneri dei nostri antenati sono per noi sacre, e sacro è il luogo ove riposano; voi, invece, vi allontanate dalle tombe dei vostri padri apparentemente senza dolore…I vostri morti, non appena sono scesi nella tomba, cessano di amare voi e il luogo dove sono nati; presto dimenticati, se ne vanno lontano, oltre le stelle, da dove non ritornano mai più.  I nostri morti, invece, non dimenticano mai la terra meravigliosa che diede loro un giorno la vita ed continuano ad amare i fiumi sinuosi, le alte montagne,  le valli solitarie; continuano a nutrire i sentimenti più teneri per coloro che vivono con il cuore  ormai solo, e ritornano spesso per visitarli e consolarli… Per il mio popolo, dunque, ogni porzione di questa terra è sacra: ogni pendio, ogni vallata, ogni pianura e ogni foresta sono santificati da un dolce ricordo o da un'esperienza dolorosa della mia tribù.  Anche le rocce, apparentemente così mute sotto il sole cocente della costa, sono imbevute, nella loro solenne imponenza, del ricordo di eventi del passato legati al destino del mio popolo.  E persino la polvere reagisce con più amore ai nostri passi che non ai vostri: essa, infatti, non è che la cenere dei nostri antenati e i nostri piedi nudi avvertono questo contatto benevolo, poiché il terreno è reso fertile dalla vita delle nostre famiglie.»

Così parlava un «primitivo», un «selvaggio»; un membro di quel popolo che i bianchi avevano sempre dipinto come insensibile, rozzo e assolutamente incapace di nutrire nell'animo sentimenti nobili ed elevati.
D'altra parte, non bisogna cadere nemmeno nell'eccesso di voler esasperare la contrapposizione tra la visione della vita - e, in questo caso, della patria - propria delle culture tradizionali, e quella occidentale e cristiana, come si ostinano a fare alcuni attardati cultori del mito russoiano del «buon selvaggio» (che è, precisiamolo una volta per tutte, un mito reazionario, perché basato su una deformazione, e sia pure di segno positivo, delle culture «altre»).
Citando Emanuele Severino, ad esempio, i curatori del libro di Rudolf Kaiser, «Dio dorme nella pietra. La "scoperta" del pensiero degli Indiani d'America»,  radicalizzano la distanza esistente fra la cultura occidentale, basata sull'idea di progresso e su un Dio che vive in alto e nel cuore degli uomini, e le culture native, nelle quali l'uomo è sentito come parte della natura, e nelle quali la sfera del divino partecipa di questa unità.
La forzatura consiste nel fatto di presentare la cultura occidentale come un tutto omogeneo e uniforme, mentre la verità è che in essa, da quasi duemila anni a questa parte - ossia da quando è sorta, dal ceppo della civiltà greco-romana e giudaico-cristiana - esiste una continua tensione e una intensa dialettica fra le sue componenti spirituali.
In particolare, crediamo che sarebbe storicamente poco corretto misconoscere l'esistenza di un filone spirituale, mistico, niente affatto utilitaristico e pragmatico, che ha sempre valorizzato la presenza del divino nella natura (pur senza identificare le due cose) e che non ha mai considerato la natura in termini esclusivi di sfruttamento e di dominio, ma bensì di armoniosa interrelazione, di amore e di comune collaborazione al progetto divino. Una corrente poderosa, che per secoli è stata maggioritaria (durante il Medioevo), e che ha espresso figure gigantesche, come quella di Francesco d'Assisi; e che non è del tutto estinta neppure oggi, sebbene essa sia messa in minoranza da un materialismo e da un nichilismo largamente prevalenti.
Ma torniamo al concetto di patria e alla sua definizione.
Che cosa è la patria, oggi? E che cosa vuol dire, amare la propria patria?
Fino a qualche decennio fa, la risposta sarebbe stata abbastanza semplice, almeno per le persone comuni: la patria coincide con la comunità nazionale; è il luogo ove affondano le proprie radici, a cui sono legati i ricordi e le tradizioni, ove vivono coloro che amiamo, che ci sono simili, che parlano la nostra medesima lingua, che partecipano dei nostri stessi valori, che condividono con noi un orizzonte di senso.
Amare la patria, quindi, significava onorare, rispettare ed essere pronti a difendere, se necessario, tutte quelle cose, anche a costo dei più grandi sacrifici: perché vivere senza di essa era considerato impossibile, o, quanto meno, innaturale e triste, addirittura indegno di un essere umano nel pieno significato della parola.
Ma oggi, nell'era della globalizzazione, delle multinazionali, delle migrazioni di massa, delle società multietniche e multiculturali, non è più così facile dare una risposta a quelle domande.
Il concetto di patria è divenuta vago, sfumato, quasi evanescente; i suoi confini, sempre più labili e indistinti; i suoi valori, sempre più pallidi e sfuggenti. E come è possibile amare un concetto così vago, così aleatorio, così indefinito?
Siamo arrivati al paradosso che si ricomincia a parlare di patria, da alcuni anni a questa parte, quasi solo in funzione di un rifiuto del diverso; e la patria, che da tanto tempo non faceva più battere i cuori di nessuno, sembra tornata in auge, ora che si tratta di contrapporla ad altre patrie e ad altri contesti culturali, di usarla come un'arma, come un clava da brandire contro il «nemico», reale o anche solo potenziale.
L'idea di patria, in questo caso, conosce una seconda fioritura, ma solo in funzione negativa: non per esprimere ciò che si ama e in cui si crede, ma solo per respingere ciò che non si vuole, ciò che preoccupa o che spaventa.
È triste; ed è una forma d'ipocrisia, di disonestà intellettuale.
Ma che cosa può prendere il posto del concetto tradizionale di patria, se esso è ormai morto e sepolto nei nostri cuori, se non trova più spazio nelle nostre menti?
Perché è indubbio che esso ha lasciato un vuoto; e che un vuoto spirituale esige di essere colmato, pena l'insorgere di uno squilibrio, di una disarmonia, di un conflitto interiore - che potrebbe anche prendere le forme di un conflitto esteriore e materiale.
Sono le società orfane di valori spirituali, quelle che si aggrappano alla prima ideologia che prometta loro di ricompattare i propri ranghi, sempre più sbrindellati e dispersi; e, in genere, questo genere di scorciatoie costituiscono la strada privilegiata per le concezioni totalitarie, fanatiche e intolleranti dei rapporti umani. La natura teme il vuoto e cerca di riempirlo con i primi materiali che si trova a disposizioni, per quanto illusori e pericolosi possano essere.
Ebbene, nell'attuale contesto sociale e culturale, crediamo che la sola idea di patria suscettibile di rimpiazzare quella tradizionale, ormai tramontata, sia quella basata su di un vincolo di affetto e di  gratitudine verso le proprie radici, intese non tanto in senso biologico e geografico («la terra e il sangue» dei nazionalismi classici otto e novecenteschi, e specialmente del pangermanismo), quanto in senso eminentemente spirituale e culturale; patria, inoltre, intesa non in senso esclusivo, bensì in senso inclusivo: una patria ideale che può accogliere tutto, proprio perché si fonda su ciò che di più autenticamente umano è nell'uomo.
Attenzione: abbiamo detto che «può» accogliere tutto; non che essa «deve» accogliere tutto: e questo è il punto che segna la differenza con un certo cosmopolitismo facilone e irresponsabile, con un relativismo culturale secondo il quale tutto, prima o poi, viene digerito da una determinata società, anche gli innesti più artificiali e irragionevoli, dato che le società, per esso, non sono che un gigantesco tubo digerente, capace di assimilare e metabolizzare qualsiasi cosa - e, come se non bastasse, in tempi straordinariamente rapidi.
Invece non è così.
Una società è in grado di assorbire e metabolizzare tutti quegli apporti che siano realmente funzionali e positivi per la sua fisiologia, cioè per la sua vita spirituale e materiale; non quelli che sarebbero dannosi per essa, inassimilabili e totalmente estranei. In altre parole, tutto ciò che per essa è bene, ma non ciò che, per essa, è male.
Non diciamo «male» in senso assoluto; o, almeno, non necessariamente; ma in senso relativo: male, cioè, relativamente a quel contesto, a quella situazione. Dunque, non si tratta, per forza, di giudizi di valore; si tratta di ragionevoli giudizi di fatto, inseriti in un preciso contesto, in una situazione storicamente data.
La storia è il regno del possibile; e, anche se una robusta carica di utopia le è sempre necessaria per impedirle di afflosciarsi su un pragmatismo ognora più ristretto, che finirebbe per divenire cinismo vero e proprio, resta pur sempre il fatto che non si ha il diritto di scommettere il futuro delle nuove generazioni su un azzardo, di qualunque tipo esso sia; e foss'anche un azzardo generoso  e, per certi aspetti, ammirevole.
Si obietterà, a questo punto - ed è una obiezione sin troppo facile - che tutto sta a vedere chi si prenderebbe il diritto di stabilire che cosa sia «bene» e che cosa sia «male», rispetto alla propria patria, e sia pure in senso relativo, senza cioè disprezzare o negare i valori delle altre culture e delle altre patrie.
Il relativismo oggi dominante, sovente camuffato da liberalismo esasperato e da democraticismo radicale, vorrebbe che si rispondesse: «nessuno»; e, da ciò, trarrebbe la conclusione, cara alla generazione del Sessantotto, che è «vietato vietare», e che tutto va bene, senza limitazione alcuna, altrimenti cadremmo - esso dice - in una prassi poliziesca e repressiva.
Ora, a costo di passare per fautori di pratiche poliziesche e repressive, dobbiamo avere il coraggio di rifiutare la logica distruttiva di questo relativismo nichilista; e di affermare che, pur nella consapevolezza dei limiti e dei rischi di una tale operazione, ogni cittadino di una determinata patria ha il pieno diritto di esprime la propria opinione su ciò che, per quest'ultima, egli considera un bene o un male; su ciò che, a suo giudizio, può farle del bene o del male; su ciò che può farla vivere in pace e in armonia, e su ciò che potrebbe sospingerla verso le tensioni e i conflitti,.
Certo, la tensione e il conflitto non possono mai essere eliminati del tutto; e, fino ad un certo punto, ciò non sarebbe nemmeno auspicabile, in quanto la tensione e il conflitto sono, anche, l'espressione di una sana e vivace dialettica interna, che attesta il buono stato di salute di una determinata società.
Fino ad un certo punto, però.
Vi è un punto di non ritorno, oltre il quale la tensione e il conflitto divengono una spirale puramente distruttiva, che nessuno potrebbe augurare responsabilmente alla propria patria, se davvero la ama e la vuole vedere prospera.
Ma esistono, oggi, persone abbastanza innamorate della patria, da avere il coraggio civile di dire queste verità, talvolta scomode, quasi sempre impopolari; e da essere disposte a pagare, sulla propria pelle, il prezzo richiesto per difenderle e portarle avanti, senza lasciarsi intimorire da ricatti e minacce, ora larvati, ora espliciti?