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Edward Bunker. Mia è la vendetta

di Mario Grossi - 12/05/2009

Esistono molti modi per raccontare l’universo carcerario, la galera per intenderci, ed il mondo della criminalità. Molti sono gli approcci, gli intendimenti e gli obiettivi di chi ne scrive. Sono nati così nel corso degli anni infinite varianti: diari, racconti, romanzi, poemi epici, opere pedagogiche, filoni letterari pulp o strapulp.

Ci sono stati i prigionieri politici che hanno dato alle stampe roba come Le mie prigioni di Silvio Pellico, o Lettere di condannati a morte della Resistenza. Ci sono romanzi come Se questo è un uomo di Primo Levi ed I Racconti della Kolima di Salamov (tra i primi che mi vengono in mente), che hanno trattato di universi concentrazionari seppur non direttamente trattando di crimine (anche se ogni universo carcerario volente o nolente è attiguo alla criminalità, se non altro perché chi vi è recluso giustamente o ingiustamente è considerato da chi l’ha incarcerato un criminale).

A me sono particolarmente sgraditi quei testi che descrivono il criminale e la sua redenzione con tono pedagogico, per insegnare a tutti come una bestia possa liberarsi dalla brutalità tipica del crimine e diventare persona bella ed onesta restituita alla società civile. Mi viene in mente a tal proposito, visto che l’avevo letto almeno venti anni fa, Autobiografia di un picchiatore fascista di Giulio Salierno, ripubblicato da poco. Il tutto mi sembra stucchevole. Salierno narra da adulto le sue esperienze giovanili fatte di scontri, armi, sangue e un omicidio che gli costerà trent’anni di galera (ne sconterà solo 13 perché graziato). In galera il rozzo, incolto, violento, animalesco picchiatore nero si mette a studiare, si laurea diventa infine, una volta uscito di galera, professore di Sociologia (credo di ricordare) non so dove, dopo essere stato sponsorizzato da qualche padrino “sinistro” che lo ha preso a ben volere perché, dopo aver ricevuto la luce, il reprobo si è incamminato verso una luminosa carriera da sociologo che lo impegnerà tutta la vita nel tentativo di evitare che altri giovinastri intraprendano la via del crimine seppur politico. Puah! Melassa pura. Ipocrisia da liberto.

eddy-bunker_fondo-magazineSu un altro versante la criminalità è stata idealizzata, resa romantica da tutti quei romanzi dell’epopea western e non che hanno come eroi dei banditi. Lunga la sequenza a partire dal comune padre nobile, quel Robin Hood che tanto ha influenzato le nostre giovani menti di lettori adolescenti.

Per potersi liberare da questo appiccicoso e romantico mood che rende sdolcinato il crimine (non c’è niente di male nello zuccherino e nel retorico dipende sempre dalle dosi che se ne assumono) arriva da ultimo, a meno di pubblicazioni postume, una breve raccolta di 5 racconti che costituisce una sorta di commiato dell’autore ai suoi lettori. Sto parlando di Mia è la vendetta di Edward Bunker [nella foto sopra] che Einaudi ha pubblicato nel marzo di quest’anno. Questi racconti arrivano proprio come un epitaffio per una vita vissuta prima da criminale e poi da scrittore che io continuo a definire criminale.

Chi ha seguito la sua vita da scrittore, fiancheggiatore del cinema hollywoodiano, amato da Tarantino ed interprete di alcune piccole parti nei suoi film sa bene che “Eddie” Bunker si può dire che nasca criminale. Prima la casa di correzione, poi il riformatorio, poi il carcere minorile, infine San Quentin, famigerata prigione per giovani criminali della California, i cui portoni varcherà per la prima volta all’età di diciassette anni, entrando nel Guinness dei Primati come più giovane recluso di quella prigione, in attesa poi di passare a Folsom dove si trovavano uomini più anziani (in genere dai trenta/quaranta in su). La storia di Bunker comincia con un matrimonio fallito dei genitori, l’abbandono della madre del tetto coniugale e il suo affidamento al padre che, impossibilitato a seguirlo nel corso della sua crescita, lo affida ai servizi sociali e messo in un centro d’accoglienza dal quale presto e ripetutamente il piccolo evase per dedicarsi prima saltuariamente poi in pianta stabile al crimine.

Bunker diventato scrittore in carcere, dopo essere stato divoratore di libri, grazie anche alla sua musa salvatrice che gli regalò una macchina da scrivere, racconta tutto questo nei suoi libri, ormai diventati dei classici, da Little Boy Blue, a Educazione di una canaglia, a Come una bestia feroce.

Bunker è morto nel 2005, ed oggi Einaudi ci propone questa stringata raccolta di racconti in cui l’autore una volta di più e per tutte condensa il suo umore, il suo stile, le sue convinzioni in un libretto che potrebbe bene diventare un Bignami del Bunker- pensiero. Alcune idee cardine sono ritagliate in ogni racconto a sfaccettare con rapide linee la pasta informe delle parole.

Nel racconto d’apertura Giustizia a Los Angeles 1927 si narra la storia del più sfigato dei negri d’America, il giovane Booker Johnson. Lavorante ad una pompa di benzina, finita la sua giornata di lavoro deve andare a prendere la sua ragazza. La sua auto è in panne e non ne vuol sapere di partire. Così si convince a prendere “in prestito” l’auto del suo principale parcheggiata nel piazzale. Sfortuna vuole che al primo incrocio (lui si ferma regolarmente al semaforo) viene tamponato da un’auto della Polizia. Da qui nasceranno tutti i suoi guai. Accusato di aver rubato l’auto e non discolpato dal suo principale che vuol fargli pagare la sua impudenza, viene trascinato in prigione. Tenta invano di fare la sua telefonata come è previsto dalla procedura d’arresto, ma passando da una mano all’altra questa possibilità gli viene costantemente negata. Durante la sua detenzione prima del processo aggredirà un secondino che lo provoca sbeffeggiandolo rendendo ancor più grave la sua situazione. Tenterà ancora di fare la sua telefonata senza riuscirci. Al processo gli appioppano un’avvocato d’ufficio che oltre ai dieci anni per il furto gliene fa rifilare altri venti per l’aggressione. Dopo la condanna tenterà ancora di fare quell’unica telefonata che è pur sempre un suo diritto, non ci riuscirà ancora ed il racconto termina con le porte del carcere che si chiudono alle spalle di questo sfigato diciannovenne negro che si ritrova quasi per caso a scontare una condanna pesantissima nell’indifferenza generale.

Talvolta si diventa criminali o si viene condanni come criminali per un segno del destino. Nessuno si senta escluso da questa possibilità. Per cui bando ai facili moralismi ed agli stomachevoli pistolotti rivolti ai criminali. Tutti in fin dei conti siamo dei criminali potenziali, consapevoli od inconsapevoli. Spesso è solo il culo che fa dirigere i nostri passi da una parte o dall’altra. Bunker ce lo racconta con il suo stile disincantato. Non prende le parti del poverino. Non lo considera tale, semplicemente registra una possibilità e mette in guardia il suo lettore. Questo è un gioco pericoloso, chi ne è attratto (non importa se in maniera volontaria o per caso) deve sapere che se la rischia. Quindi non contano gli sconti o i piagnistei a posteriori. Nessuna lamentela è possibile, se ci ti trovi dentro devi vivere all’altezza del crimine ed all’altezza della prigione. Piangersi addosso in quelle situazioni ti rende un uomo morto prima del tempo. Quindi nonostante tutto bisogna vendere cara la pelle.

In Mia è la vendetta che dà il titolo all’intera raccolta la scena si sposta avanti negli anni a descrivere una situazione nota a cavallo tra i sessanta ed i settanta, con i primi processi in cui, avvocati politicizzati e sensibili alla condizione dei negri prendevano le loro difese nel tentativo di dargli un processo giusto. È la storia di George, piccolo teppistello di periferia che viene difeso da una avvocatessa che ne vuole fare un caso di coscienza nazionale. La sua difesa punta tutto sulla descrizione della personalità di Gorge, dipinto come il povero ragazzo che un ambiente violento ha costretto al crimine. Il giovane è però, a detta dell’avvocatessa, incapace di fare del male e nel frattempo si è pentito e redento. Ma in carcere Gorge ha messo su una combriccola per vendicarsi del giudice che in primo appello lo aveva condannato. Riesce con degli espedienti, complice il fratello più piccolo, a farsi consegnare una pistola che porterà in aula nel processo d’appello. Con la complicità degli altri sequestra il giudice, tiene in scacco le forze dell’ordine, ottiene un furgoncino per darsi alla fuga. L’epilogo è tragico, un tiratore scelto lo centra in testa, lui fa fuoco e uccide il giudice. L’avvocatessa che ha sentito tutto alla radio sa che la sua reputazione sarà macchiata per sempre e rinuncerà alle difese di casi simili.

bunker_fondo-magazineNessun sociologismo, nessuna pedagogia quando si parla di criminali. Fanno ridere i buoni samaritani che tentano un’aiuto improponibile. I criminali non sono come vengono descritti dalla stampa progressista, come sono immaginati dall’Esercito della salvezza e dalle Suffragette. Non sono poveri sfigati traviati dall’ambiente, non sono mammolette pronte ad improbabili redenzioni al primo stormir di foglie. Questo Bunker lo sa benissimo e ce lo racconta. Lo racconta descrivendo anche la sua esperienza personale. Sono persone che hanno scelto fino in fondo di vivere in un ambiente che è il loro e di cui ne condividono schemi e regole. Che poi questo ambiente sia un ambiente borderline, pieno di farabutti, infido, in conflitto con quello dei benpensanti (in cui peraltro i farabutti si sprecano) e che risponda a regole diverse è un altro paio di maniche.

Questa è la forza irresistibile di Bunker. Racconta questo mondo criminale e carcerario con una naturalezza priva di commento moralistico che rende il suo racconto di una vivida bellezza. Il clima è di ghiaccio, la tensione sempre palpabile, il ritmo incessante ed incalzante, a tal proposito la descrizione dell’evasione finale in Fuga dal Braccio della morte è didascalica. I tempi sono serrati e si capisce perché i registi lo hanno spesso chiamato per le loro sceneggiature o hanno preso spunto dalla sua scrittura per girare le loro crime story, la narrazione sincopata fino allo spasmo. Tutta la scena è condita da un ghigno sornione che rende quasi ridicolo lo svolgersi dei fatti. Sembra di essere immersi in quelle comiche in cui i personaggi si muovono in modo accelerato e spingono alle risate per questa loro cinetica deformata.

Ma tutto è sospeso in un grumo di tensione che si scioglierà tragicamente con il suicidio del protagonista che, abortito il tentativo d’evasione, non vorrà farsi prendere vivo.

Insomma Bunker con la sua penna asciutta, quasi senza inchiostro, con frasi brevi, che simulano gli spari ripetuti di una pistola, con uno stile glaciale ma partecipativo, utilizzando, ma solo quanto basta, lo slang dei bassifondi, rappresenta dal di dentro quel mondo che molti, pur avendolo vissuto, non sono riusciti a raccontare in modo credibile e senza retorica. Semmai con una carica ironica che sovente è un ridersi addosso che è un moltiplicatore di sapidità del già saporito contenuto.

Chi vuole avere un ulteriore conferma di quello che è Bunker, può deliziarsi con la lettura che fa da introduzione alla raccolta. È una lettera scritta dallo stesso Bunker al suo amico ed agente Nat Sobel, quintessenza del suo pensiero e del suo stile. È un concentrato ristretto, sta al suo scrivere come un dado sta al brodo. Nella lettera racconta di quando si finse pazzo per farla franca una volta che fu arrestato. Esilarante.

Di se stesso dice: «Mi guadagnavo la pagnotta col furto con scasso. Sigarette e whisky erano il massimo. Di solito mettevo a segno due colpi a settimana. Dovevo mantenere i miei vizi congiunti: eroina e bella vita». Descrive il suo arresto e quello che ne seguì così: «A pochi isolati di distanza, mi ritrovai con le luci rosso ciliegia alle spalle. Si lanciarono all’inseguimento. Ero fuori del mio territorio e, comunque imboccassi le curve, non riuscivo a seminarli. Poi mollai. Mi presero e mi massacrarono di botte. Una decina di sbirri mi pestava e contemporaneamente mi informava dei miei diritti. La cosa si fece davvero buffa: quando mi schedarono dissi che ero nato nel 1888 e che lavoravo per i servizi segreti della Marina. L’interrogatorio fu un vero spasso. Li accusai di essere dei cattolici e di volermi impiantare una radio nel cervello. Quando mi portarono davanti alla corte per la contestazione dell’atto d’accusa, mi presentai con i pantaloni arrotolati al ginocchio e dei sacchetti di tabacco Bull Durham sul petto a mò di medaglie, e non appena il giudice fece il suo ingresso in aula, saltai in piedi e mi misi a strillare che lui era un vescovo. Mi trascinarono fuori che urlavo come un ossesso. Il procedimento fu sospeso per disporre una perizia psichiatrica. L’incarico fu affidato a due strizzacervelli. Dichiararono che ero affetto da schizofrenia paranoie acuta. La tappa successiva fu il manicomio. In manicomio scatenai tutti i pazzoidi e fomentai una sommossa. Mi spedirono in prigione. La storia finisce quando me la svigno dalla prigione della contea, di notte, nel bel mezzo della rivolta di Watts. La vuoi, quella storia?»

Infine una raccomandazione, una preghiera, un consiglio se posso permettermi. In questi giorni è uscito Il genio criminale di Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi che viene descritto come un’antologia di malvagi con genio. Una carrellata di biografie di criminali che dovrebbero svelare gli ingranaggi che fanno scattare la scintilla del male. Ancora una volta la solita scialappa: il criminale, il male, la scintilla che lo rende tale. Analisi antropologica e sociologia. Moralismo soggiacente.

Datemi retta leggete e rileggete Bunker!

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