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Una pagina al giorno: Luoghi di un altro mondo, di A. M. De Agostini

di Francesco Lamendola - 13/05/2009


Dal libro di Alberto Maria De Agostini, «Trent'anni nella Terra del Fuoco» (Torino, Società Editrice Internazionale, 1955, pp. 25; 32-38):

«Il vivo desiderio di scoprire l'interno delle misteriose solitudini del M. Sarmiento e de' suoi estesi campi di ghiaccio, conquistandone possibilmente la vetta, fu il principal motivo che mi indusse ad organizzare, per il dicembre del 1913, una spedizione alla Cordigliera della Terra del Fuoco. Il M. Sarmiento doveva costituire il principio di una serie di esplorazioni sul versante settentrionale della catena dei monti Darwin, lungo il seno dell'Ammiragliato, e attraverso le montagne che separano il lago Fagnano da Ushuaia.[…]
Il mare è in calma, e noi ci troviamo nel momento più propizio per attraversare questo pericoloso passo, perché di notte generalmente i venti generalmente diminuiscono e le onde perdono la loro forza.; rivolgiamo quindi la prora al canale Maddalena, che speriamo di aggiungere in tre ore, per metterci colà al sicuro in qualche insenatura dell'isola Cap. Aracena. A misura che avanziamo, le acque si fanno più tranquille, non soffia alito di vento, regna un silenzio assoluto, solo interrotto dal ritmo cadenzato del motore del "cutter"; siamo entrati nelle regioni deserte dell'alta Cordigliera, e quella lontananza, quell'isolamento, così solenne nella verginità della natura, lungi dal consorzio umano,  colpiscono fortemente il nostro spirito, ignaro e nuovo a quelle strane impressioni.
Soltanto verso mezzanotte imboccammo il canale Maddalena, dove l'oscurità accresciuta dalle altissime montagne, che cadono a picco da ambo i lati sulle strette acque del canale, era così intensa da obbligarci a fermare per qualche tempo il "cutter", per non esporci al pericolo di andar a urtare contro qualche scoglio.
Venne in quel momento a toglierci d'impiccio un raggio di luna, che, squarciato il denso velo delle nubi, illuminò un caos di orridi dirupi, di scoscesi picchi addossati gli uni sugli altri, nelle posizioni più ardite, inverosimili, e colà rimasti immobili da secoli e secoli, dopo un formidabile cataclisma che agitò e sconvolse tutta la regione.
Mi sembrava di essere precipitato a un tratto in un altro mondo terribilmente fantastico, credevo di sognare; le vette acuminate, le immani pareti che cadevano a piombo sul nostro capo avevano preso, sotto la luce argentea della luna, un aspetto vago, immateriale di pallidi spettri, rigidi, freddi, rimasti  come sotto l'imperio opprimente di un magico incanto, il cui potere mi penetrava irresistibile nella mente e nello spirito con un sentimento d timore e di spavento, da cui invano cercavo di liberarmi.
L'aspetto de' miei compagni mi rivelava che non ero solo a provare quella oppressione, e tuttavia, attoniti, silenziosi, soggiogati dal misterioso spettacolo, seguitammo a navigare, finché giungemmo dopo la mezzanotte alla baia Sholl, intagliata nella costa orientale dell'isola Capitano Aracena, ottimo ancoraggio, dove passammo il restante di quell'indimenticabile notte.
La mattina del 24 [gennaio] lasciavamo il nostro ancoraggio, diretti alla base del M. Sarmiento, che, nella mattina alquanto torbida, era quasi del tutto incappucciato da densi nuvoloni, mostrando solamente scoperti i due grandi ghiacciai che scendono maestosi dai suoi fianchi.
In due ore di navigazione ci portammo ai piedi del ghiacciaio che cinge il versante NO. A mano a mano che ci avvicinavamo, il nostro stupore cresceva a dismisura; quell'immenso tavoliere di ghiaccio cinto da una fascia di verzura sembrava ritirarsi e abbassarsi, mentre la sua fronte acquistava proporzioni gigantesche mai prima immaginate. La nostra meraviglia toccò l'estremo quando, raggiunta la spiaggia, ci avvedemmo  che le macchie verdeggianti, da cui era circondato il ghiaccio alle sue estremità, e credute da lontano piccoli arbusti, erano invece alberi colossali, di 25-30 metri di altezza. Il contrasto che presenta questa esuberante vegetazione di un verde intenso a lato degli enormi blocchi di ghiaccio candido-azzurri, è veramente impressionante e provoca la più viva ammirazione.
Era nostra intenzione di cercare un ancoraggio più vicino possibile al monte, per poter facilmente compiere l'ascensione; e dopo lunghe ricerche trovammo una piccola rada nel lato SO del ghiacciaio, dove sembrava potessimo rimanere al sicuro dalla mareggiata. Nel pomeriggio, allietati da un bel sole, brillante e caldo, scendemmo a terra con l'intenzione di fare un'escursione fino al ghiacciaio.
Oltrepassata la spiaggia, coperta di rena e ciottoli morenici, ci trovammo di fronte ad una fitta rete di arbusti carichi di fiori e di frutta, che servivano di margine  e di ornamento alla foresta, e che a noi diede non poco lavoro per oltrepassarla.
Erano le varie famiglie di "calafates", dalle foglie sempre verdi, coi rami provvisti di spine, che i naturalisti chiamano "Berberis buxifolia" e "Berberis illicifolia": quella, ricoperta dai frutti dolcissimi, gustosi, alquanto simili all'uva; questa, detta volgarmente "michai", con bacche molto uguali alla prima, però più rare e meno gustose, fornisce agli Indi Ona legno duro e consistente di un bel colore giallo, per la costruzione delle frecce.  Vi abbonda e vi cresce qui vigorosa la "chaura" ("Pernettia mucronata"), elegante ericacea dalle foglie spinose e costellata da innumerevoli bacche rosse, color del corallo, commestibili, di un sapore dolciastro; e il "Rubus magellanicum", dalle bacche nere simili alle nostrane.
Qua e là splendono al sole le numerose campanelle rossastre, penduli, d'una bellissima pianta, coltivata come ornamento nei nostri giardini: la fucsia ("Fucsia magellanica"), che qui cresce con enorme sviluppo raggiungendo l'altezza di tre metri.
Le difficoltà non scemarono di molto quando, superata la siepe pungente dei "calafates" ed entrati nel fitto della boscaglia, ci trovammo a lottare con il suolo estremamente umido, torboso, coperto di resti vegetali in putrefazione, dove si sprofondava sino al ginocchio tra un morbido tappeto di muschi, licheni, epatiche nel più esuberante sviluppo.
In compenso rimanemmo fortemente sorpresi e ammirati dalla severa e misteriosa grandezza della foresta. Nessuna descrizione può dare un'idea anche approssimativa della tristezza che emana da quella massa confusa di alberi di ogni dimensione ed età, che si innalzano vigorosi sopra le spoglie di altri tronchi in putrefazione e ostruiscono per ogni parte il cammino; la oca luce che penetra dall'alto non riesce a dominare la profonda oscurità che regna d'intorno e a portare un poco di allegria in quel regno della morte. Gli alberi che popolano queste foreste, appartengono quasi esclusivamente alla famiglia dei faggi: "Nothofagus antarctica", chiamato volgarmente "roble", e "Nothofagus betuloides" (denominato volgarmente nella regione magellanica "cohiue" e nella Patagonia settentrionale "guindo". Quest'ultimo conserva le sue foglie verdi tutto l'anno.
Questi faggi, che nella parte centrale della Terra del Fuoco raggiungono notevole sviluppo, danno un eccellente legname per costruzioni e mobili, e si prestano pure ad altri generi di lavoro di tornio e alla fabbricazione di doghe per botti.
Meraviglioso, se non per sviluppo, certamente per bellezza e rigogliosità, è il "canelo" ("Drymis Winterii") appartenente alla famiglia delle magnoliacee. La freschezza delle sue grandi foglie, di un verde  chiari e brillante, glauche nella parte inferiore, e l'aspetto elegante e svelto del suo tronco, con ramificazioni in forma piramidale, che si copre di fiori ascellari bianchi disposti a corimbo,  lo distinguono da tutti gli altri. La sua corteccia, molto aromatica e piccante, ricca di acido tannico, è molto caustica; si usa in medicina come rimedio efficace contro molte infermità, specialmente contro lo scorbuto. Scarso è il valore del suo legname. Il nome che porta, "D. Winterii", gli fu dato dal botanico Giorgio Forster della spedizione Cook nei mari australi (1772.75), in ricordo del marinaio inglese Giovanni Winter, capitano di una delle navi della spedizione del celebre pirata Francesco Drake (157-78). Winter fu il primo ad introdurre la corteccia di questo albero in Europa, avendone conosciuto il potere antiscorbutico durante il suo viaggio allo Stretto di Magellano, quando poté ridare la salute all'equipaggio attaccato da questa infermità facendo uso di detta corteccia, macerata con miele.
Altro albero dalle foglie pertenni è la "leña dura" ("Maytenus magellanioca"), celastracea dalle belle figlie coriacee, esalanti forte e grato odore, la ghiottoneria dei guanachi e delle mandre, che nell'inverno, quando il terreno è ricoperto dalla neve, trovano in questo fogliame abbondante e gradito pasto.
Più raro è il "ciruelillo" o "notro" ("Embothrym coccineum"), un prugno dalle foglie perenni, coriacee, brillanti, che in primavera si ricopre di superbe ciocche di fiori di un rosso scarlatto.
Dio solito, attorno a questi alberi maggiori, che formano essenzialmente la foresta della Terra del Fuoco, una quantità di arbusti più giovani si assiepano e si sopraffanno in mille intricate direzioni.
Le specie di questi variano notevolmente da luogo a luogo, non tanto per la posizione geografica, quanto per le diversità atmosferiche e climatologiche inerenti al sistema orografico della regione.
Passata la prima forte impressione cagionata in noi dalla vista della foresta, ci accingiamo a superare un'antica morena laterale che ci separa dal ghiacciaio.
Troviamo di quando in quando sul nostro cammino alcune macchie di graziosissime felci arborescenti ("Blechnum magellanicum", "B. tabulare") che potrebbero essere di artistico ornamento in un giardino. Il tronco grosso e corto, di quasi un metro di altezza, si apre in ampie rosette di bellissime foglie pinnate, rigide e lustre,    verdi all'esterno e rosso-brune all'interno dove i getti  sono ancora teneri.
Il nostro procedere è assai lento e faticoso, e solo dopo un lavorìo continuato di gomitate lanciate a destra ed a sinistra per aprirci il passo attraverso le fitte macchie di arbusti, inciampando e sdrucciolando sui tronchi putrefatti, riusciamo a raggiungere la sommità, dove possiamo contemplare a nostro bell'agio il magnifico spettacolo che ci offre la fronte del ghiacciaio del tutto scoperta.
Ci separa da quello una lunga striscia di terreno composta  di ciottoli e di argilla morenica, depositata  in un'epoca assai recente ed ora ricoperta di piccoli arbusti sparsi qua e là e di fiori e di erbe che crescono rigogliosissimi; presso il ghiacciaio scorgiamo una serie di coni di sabbia assai elevati.  Non ci è possibile osservare tutta la fronte alquanto ricurva del ghiacciaio, la cui larghezza calcoliamo di due chilometri, perché più della metà è celata da piccole colline moreniche centrali, i cui avvallamenti ci apparvero ricoperti da numerosi stagni, alimentati dalle acque del ghiaccio, il quale si presenta da quel versante dentellato da altissimi e imponenti seracchi di ghiaccio e di neve purissima, simili, per la loro forma gigantesca, ad altrettante torri e pinnacoli di un castello diroccato; due torrenti glaciali escono torbidi e impetuosi dalle loro basi cavernose soffuse di un gradevole color verde-azzurro.
Essendo già avanzata la sera, dobbiamo troncare l'escursione e ritornare su nostri passi, rimandando al dimani di buon'ora la continuazione delle nostre osservazioni, per vedere da qual lato sia più accessibile il M. Sarmiento.
Giunti a bordo, avevamo già per quel giorno deposta ogni speranza di poter contemplare il monte, quando, sul tramontar del sole, le nubi che fasciavano la sommità sembrarono innalzarsi, farsi più tenui, più diafane, finché sotto quel debole velo di vapori si delineò di repente in alto un gran torrione dalla punta sferica, candidissimo. Che per un istante credemmo fosse la vetta. Mentre tenevamo impazienti gli sguardi fissi su quello, ecco apparire ancor più in alto, in una regione di sogno,, una cresta affilata, sormontata da immensi cornicioni di ghiaccio che strapiombavano sulle pareti tagliate a picco, rivestite pur esse da una corazza bianchissima di neve.
Questa inaspettata apparizione ci riempì tutti di meraviglia e di contento; specialmente le due guide erano fuori di sé per l'entusiasmo, perché mai si erano immaginate che la modesta catena della Terra del Fuoco possedesse montagne così spettacolari e terrificanti.
Seguiamo con crescente interesse lo svelarsi di quel misterioso monte, come l'alzarsi del sipario su di una magica e grandiosa scena.  Per un istante ci parve di intravvedere nelle regioni eteree la vetta altissima, candida di neve, affacciarsi da quel trono di gloria e mirare curiosamente i nuovi ospiti, ma fu un lampo che troppo presto sparì, senza che noi potessimo formarci un'idea precisa della sua straordinaria e singolare forma. Coll'avanzare della note, nuovamente le nubi si addensarono attorno alla sommità e tutto ritornò come prima nel mistero e nel silenzio.
In quei momenti il Sarmiento si era rivelato assai più grandioso e temibile di quanto  noi avessimo prima potuto immaginarci; l'aspra fierezza delle creste e dei fianchi eretti a filo sui ghiacciai ci aveva dato a conoscere chiaramente che avremmo dovuto lottare con un gigante dell'alta montagna, bello e fiero nella sua immacolata bianchezza.
Soddisfatti tuttavia della inattesa rivelazione, quella sera andammo a riposare con l'entusiasmo e la gioia che precedono il compimento di grandiosi avvenimenti.»

Ad un brano di prosa come questo crediamo spetti di diritto la cittadinanza fra i classici della nostra letteratura contemporanea; dove non sai se apprezzare di più la sobria scioltezza dello stile, la potenza delle immagini evocate, la suggestione e la sottile malinconia che promana dalla poetica del vago e dell'indefinito, così cara a Leopardi.
Quella baia dalle acque inaspettatamente calme, sotto il raggio argenteo della luna, che riflette le ripide pareti dei monti circostanti; quella foresta misteriosa e inquietante, che, vista da vicino, rivela la possanza insospettata dei suoi tronchi secolari; quello squarcio mirabile delle nuvole al tramonto, proprio un attimo prima del calare dell'oscurità, che rivela le vette bianchissime della poderosa montagna, simili a una visione dell'altro mondo: tutto ciò è veramente degno del pennello di un grande pittore.
E, ancora, quella minuziosa descrizione delle essenze vegetali che popolano la foresta magellanica, dove non sai se ammirare maggiormente l'esattezza del botanico, che te le fa quasi vedere sotto gli occhi, o quella del poeta, che le anima di un soffio di vita, quasi evocandole da un giardino incantato: tutto ciò ha del prodigioso, perché sono ben pochi gli scrittori che sanno unire il rigore documentaristico dello scienziato allo slancio visionario dell'artista.
E non basta.
De Agostini sa descrivere magistralmente anche i moti dell'animo, le emozioni profonde e struggenti che s'impadroniscono di quei pochi uomini, isolati e quasi smarriti in un angolo del mondo ove la natura è ancora regina incontrastata e ove la presenza umana è a mala pena tollerata, grazie ad una benevola pausa degli elementi perennemente scatenati: vento di bufera, mare mosso, ghiacci galleggianti che insidiano la navigazione, neve e ghiaccio che bloccano la marcia degli escursionisti.
L'atteggiamento dell'Autore, davanti a tanto dispiegamento di bellezza e, bisogna pur dirlo, di possanza quasi paurosa, è profondamente religioso: egli alberga in sé un senso del mistero che gli permette di accostarsi con animo turbato e riverente all'arcano della vita e della morte, al nostro terreno peregrinare in un mondo magnifico, ma che non si lascia penetrare interamente e che, in qualsiasi momento, può rivelare il suo volto corrucciato e temibile.
Di conseguenza De Agostini si china umilmente a ricevere il dono di una così intensa rivelazione, serbando con gratitudine, nel profondo del cuore, la gioia ineffabile di quei momenti purissimi; ma, al tempo stesso, sente che la rivelazione non è tutta nel prodigio di quella natura incontaminata e fiabesca, ma che la natura è solo un tramite per una rivelazione ulteriore, più vera e profonda: quella di una forza superiore, benevola, arcana, la quale presiede a tutto ciò che riunisce in sé bellezza, verità e bontà, e che sola è in grado di offrire una risposta agli interrogativi dell'anima.
Si tratta, quindi, di un genere di prosa che eleva l'anima e la avvicina alle supreme verità spirituali, nel tempo stesso che diletta i sensi per mezzo di una sapiente descrizione di luoghi, creature viventi, giochi di luce, stati d'animo; una prosa che è nutrimento della mente e anche del cuore, e che si serve della bellezza della natura per suggerire il mistero dell'Essere.
Se la nostra critica accademica non fosse soffocata da anacronistici pregiudizi, un libro come «Trent'anni nella Terra del Fuco», stampato oltre mezzo secolo fa e oggi introvabile, sarebbe riconosciuto a pieno titolo come un testo esemplare della letteratura italiana del XX secolo.
Infatti, anche se non si tratta di un'opera narrativa ma saggistica, la qualità superiore della scrittura e l'alta, coinvolgente ispirazione che ne anima le pagine, dalla prima all'ultima, lo rendono degno di stare accanto ai «classici»; per non parlare dello stupendo apparato iconografico, frutto, anch'esso, dell'ardente desiderio dell'Autore di rendere il lettore partecipe allo spettacolo di tanta magnificenza, attraverso le fotografie da lui stesso scattate.
Raramente ci è capitato di entrare con tanta partecipazione e con tanta trepidazione nel mondo di uno scrittore, come attraverso questo libro strano e affascinante, che sta a metà strada fra il documentario geografico, alpinistico, botanico, e l'elegia al mistero della natura, della vita, del nostro essere nel mondo.
Anche là dove la narrazione si fa di tipo prevalentemente tecnico, o diaristico, l'Autore sa immettervi sempre una luce soffusa di poesia, che ingentilisce e trasfigura gli elementi profani e li trasforma nei tasselli di un grande mosaico sacro, di un poema religioso.
Così accade, ad esempio, per la narrazione del primo tentativo di scalata al Monte Sarmiento, che fa seguito alla pagina da noi qui sopra riportata; e che dovette essere interrotto a causa dell'inasprirsi del maltempo, ma che consentì all'Autore, tuttavia, la scoperta di un piccolo, stupendo lago circondato dai monti, cui egli diede il nome di lago Spegazzini, in onore dell'illustre botanico italiano (il Sarmiento venne tuttavia scalato in una successiva spedizione, favorita, questa volta, dalle più clementi condizioni meteorologiche).
Ecco perché vorremmo consigliare la lettura di questo libro a chiunque ami i libri di viaggio, non solo per cercarvi una temporanea evasione dal grigiore della vita quotidiana, ma anche e soprattutto per trovare in essi quel lampo improvviso, quella divina scintilla che spalanca davanti all'anima cieli nuovi e terre nuove, offrendole quasi una anticipazione dell'assoluto.
Anche i più famosi libri di viaggio degli ultimi decenni, come quelli - celebratissimi - di Bruce Chatwin, non possono stare alla pari con la prosa di padre De Agostini, perché, appunto, vi manca quella scintilla divina e non vi si respira, pertanto, quella mistica atmosfera di rivelazione di cose sublimi.
Il peregrinare materiale dell'uomo sulle strade del mondo si riduce, in fondo, a povera cosa, per non dire a una semplice forma di nevrosi, se non è sorretto e illuminato dalla consapevolezza che, per quanto i piedi possano portarci lontano, al di là dei mari e dei monti, ciò che la parte più profonda della nostra anima attende, con struggente nostalgia, e verso cui si protende con tutto il suo ardore, non consiste nei panorami che le si possono aprire dinanzi, per quanto suggestivi e spettacolari possano apparire, ma nella rivelazione di una realtà superiore che, attraverso di essi, giunge al fondo del nostro essere, per ridestarlo come a una nova vita.

Nato a Pollone (Vercelli) il 2 novembre 1883 e morto a Valdocco il 25 dicembre 1960, Alberto Maria De Agostini, sacerdote salesiano e missionario in America del Sud, ha dedicato buona parte della sua vita all'esplorazione della Patagonia meridionale e della Terra del Fuoco, scoprendo laghi e catene di montagne, disegnando tratti di costa ancora sconosciuti e studiando la flora, la fauna e le ultime popolazioni indigene, ora completamente estinte.
Giunto a Punta Arenas nel 1910, fino al 1941 condusse una serie di esplorazioni e di ascensioni alle vette dell'arcipelago, alcune delle quali sino allora inviolate. Tornò nella Terra del Fuoco nel 1955, insieme ad un gruppo di studiosi italiani, e condusse un'ultima spedizione al Monte Sarmiento, alla bella età di settantadue anni.
Oltre alla sua opera principale, «Trent'anni nella Terra del Fuoco», ha pubblicato un volume gemello, «Ande patagoniche», concepito con gli stessi criteri e altrettanto ricco di materiale illustrativo (Milano, Anonima Editrice, 1949).
Vedi anche: Francesco Lamendola, «Alberto Maria De Agostini, esploratore-poeta delle remote solitudini australi», su «L'Universo», Firenze, rivista dell'Istituto Geografico Militare, n. 2 (marzo-aprile) 2008.