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Fiat-Chrisler in un quadro più ampio

di Gianfranco la Grassa - 18/05/2009

 

Si potrebbe affermare che la Fiat sta vincendo, ma solo a patto di decriptare il mistero della sua “ineffabile” rinascita. Intanto non sta certo vincendo sul piano industriale come si sostiene in modo truffaldino. Lo stesso Berlusconi afferma che l’azienda – sempre stata la capofila dei suoi avversari fin dalla sua discesa in campo – è il simbolo della ripresa italiana; sia nel senso che “il peggio della crisi è alle nostre spalle” sia perché l’Italia esce rafforzata economicamente dal “successo” dell’operazione Fiat e con un prestigio internazionale accresciuto. Per quanto la sinistra sia forse peggiore di lui, con questa affermazione “codista” (e anche un po’ vile, tenendo appunto conto di come ha agito sempre la Confindustria nei suoi confronti) il premier dimostra di non essere all’altezza dei compiti, che un’autentica forza nazionale dovrebbe porsi in questa fase di “trapasso d’epoca”.
Se la Fiat non vince come industria – poiché nessuno ha mai visto, se non a parole, un autentico piano industriale (e la commissione di esperti, nominata in un primo tempo da Obama per valutare il previsto accordo Chrysler-Fiat, aveva emesso parere negativo, subito “silenziato”) – nemmeno è per me scontato l’esito finale di tutta questa indecente manovra. Adesso è in campo pure l’Opel, che d’altronde dipende dalla GM, altra azienda americana; ecc. ecc. Con il “sta vincendo” – dove la vit-toria non è precisamente quella dell’azienda “italiana” – voglio segnalare un ben diverso problema. Si è riusciti, con estrema facilità data la connivenza dei vari interlocutori, a far passare l’intera ope-razione come soltanto economica; sia pure con qualche riflesso “sociale” nel campo del mercato del lavoro (cioè della vendita della merce forza lavoro se si vuol essere un tantino più precisi; e non si tratta di mera pignoleria scolastica).
Anche i sindacati hanno abboccato, sono stati al gioco, emettendo giudizi “duri” (ormai basta dissentire per essere giudicati tali) sulla possibile chiusura di stabilimenti in Italia (e magari altro-ve). Personaggi sia di destra che di sinistra – alcuni forsennati filo-liberisti in quanto filo-americani, altri perché si dimenano di qua e di là pur di tornare a risalire la china – hanno obiettato che non è il caso di essere scioccamente nazionalisti (mentre il premier giudica positiva l’operazione proprio in quanto simbolo della vitalità italiana). L’ad della Fiat ha ribattuto ai critici, ed in linea di principio avrebbe ragione, che non ci si può far limitare nella propria azione da un angusto orizzonte esclusi-vamente nazionale, altrimenti si rischia di uscire dal novero dei paesi industriali avanzati. E così via. Tutti a credere, o a far finta di credere, che il complesso gioco delle trattative su scala mondiale si svolga solo nella sfera economica; e per di più eminentemente produttiva, non come quelle “cat-tivone” di banche che hanno messo l’intero sistema globale in difficoltà con operazioni scriteriate, contravvenendo a regole etiche che, come ben si sa, sono la principale preoccupazione dei veri capi-talisti, quelli positivi, quelli della “libera competizione in libero mercato”. L’ipocrisia è tale, e gene-rale, che viene qualche “conato di vomito”; bisogna invece farsi forza e continuare.

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La pura economia, la libera competizione a base di efficienza, di prezzi e costi, sono delle impu-denti menzogne. Non c’è bisogno di Marx per sostenerlo. Molti economisti “borghesi”, cioè dell’establishment capitalistico, lo hanno riconosciuto fin da quando hanno preso atto, con qualche ritardo (alcune decine d’anni), che il mercato era “oligopolistico”. Già mentre stavo facendo la tesi di laurea, lessi un chiaro articolo dell’economista Rothschild (un nome, una garanzia) in cui si con-sigliava, a chi avesse voluto capire qualcosa della competizione interoligopolistica, di leggere il Manuale di Von Clausevitz piuttosto che i testi di economia.
Ben sappiamo come quest’ultimo sostenesse essere la guerra la continuazione della politica con altri mezzi. Dunque, il conflitto, detto mercantile, è una “guerra” che trova la sua vera e “ultima” spiegazione nella politica. Le “politiche” definite aziendali sono subordinate alla politica tout court, con le sue strategie di accordo (momentaneo e subordinato) in vista del reciproco scontro (perma-nente e predominante) al fine di prevalere. Soltanto in alcune fasi, di impossibile preminenza di qualcuno o al contrario di netto predominio di uno sugli altri, si ha la “pace” (mai comunque del tut-to disarmata). In definitiva, la competizione interimprenditoriale – che è un “fare politica”, perfino in occasione delle “guerre” più acute – non si svolge semplicemente sulla base del calcolo di costi e ricavi, dell’efficienza del “minimo mezzo”. Tutte “verità parziali” per gli ingenui.
La politica va però declinata al plurale: esistono le politiche. Non si tratta esclusivamente del passaggio dalla “pace” alla “guerra” e viceversa, ma della tipologia e dell’una e dell’altra in fasi o epoche diverse. Abbiamo avuto per circa mezzo secolo il bipolarismo fondato, si diceva, sull’“equilibrio del terrore”. A mio avviso, una sciocchezza. Da una parte vi era un sistema in fase di “cristallizzazione storica”, in cui si andavano accumulando tensioni su tensioni. Solo la Cina si defilò, apprestando le strutture di una nuova, inedita e per ora indefinibile, formazione sociale. Dall’altra parte, esisteva il capitalismo nella formazione dei funzionari del capitale (di origine ame-ricana); ed era appunto il sistema socio-economico Usa il motore, e regolatore, di tale formazione (il capitalismo “occidentale”, comprendente il Giappone), che visse la sua fase monocentrica.
L’esplosione (o implosione, tanto è lo stesso) del “cristallo storico” rimise in moto, a livello globale, la dinamica della competizione intercapitalistica. Il centro del capitalismo “occidentale” pensò fosse arrivato il momento della sua definitiva affermazione mondiale (“imperiale”) e agì di conseguenza, sfruttando in buona parte il suo inarrivabile apparato bellico (in Irak, Jugoslavia, Af-ghanistan, e in Somalia, ecc.). Nel contempo mise in moto anche gli altri apparati complementari (“bellici” lato sensu)  rispetto a quello militare: i servizi segreti, il finanziamento di “gruppi di pres-sione” interni a paesi ancora riottosi o che comunque possono servire da base contro questi ultimi (penso alle rivoluzioni “arancione”, all’appoggio prestato ai monaci tibetani, e ad altri “ammennico-li” vari in ogni parte del mondo); ecc. Malgrado gli sforzi, alla fine i risultati sono stati scarsi, com-plessivamente controproducenti. L’“Impero” non ha voluto delinearsi e si è imposto il mutamento strategico (o tattico a seconda dello “sguardo”), di cui ho già detto più volte (anche pochi giorni fa).

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A questo punto, lo scacchiere internazionale, pur nel suo tumultuoso “fluire” (storico), ha co-minciato ad assumere alcuni connotati definibili con qualche incertezza, ma dai contorni abbastanza riconoscibili. Abbiamo già da tempo definito la situazione odierna come multipolare o comunque di avvicinamento a tale configurazione: del resto intrinsecamente instabile per il prevalere, non conti-nuo e spesso lento, di forze centrifughe. Forze, cioè formazioni particolari in via divenire potenze, che si combattono reciprocamente pur con tante moine, accordi temporanei (e quasi sempre insince-ri), coltellate sotterranee coperte da “buone maniere”, ecc. L’epoca va assomigliando a quella degli ultimi tre decenni dell’800 e di poco più di un decennio nel ‘900. Siamo ancora abbastanza lontani dall’“imperialismo” (policentrismo), ma la strada sembra proprio condurre verso un’epoca di quel genere (che certo si ripresenterà con caratteristiche nuove e al momento non “profetizzabili”).
Apertasi, o in via di apertura, un’epoca simile, si è presto verificata la crisi economica (più grave delle altre del dopoguerra), una delle periodicità con molta superficialità (economicistica) trattata – soprattutto dai critici (catastrofisti) del capitalismo – quale sintomo di crollo o disfacimento di tale formazione sociale. Essa è una periodicità che sempre inizia, dato il carattere mercantile della pro-duzione capitalistica, nella sua sfera finanziaria e poi economica in genere. Ogni volta, si attribui-scono quindi colpe specifiche ai capitalisti finanziari, alla loro ingordigia e mancanza di regole (eti-che) – basterebbe leggersi Balzac, o anche il Bel Ami di Maupassant, per avere un minimo di pro-spettiva storica – di cui vi sono esempi specifici in ogni particolare congiuntura: questa volta sono stati i “derivati” e i subprime.  Di fronte alle continue e smaccate menzogne della politica, dell’informazione e soprattutto degli “esperti” (di rara ignoranza e arrogante pretesa di sapere), è inutile mettersi a fare previsioni sulla portata della crisi. Avrà ragione il Leap, di cui abbiamo spes-so riportato le opinioni catastrofiche, o i gruppi dominanti capitalistici (delle varie sfere sociali) che, appunto, mentono sapendo di mentire? Non lo so e non baso le mie argomentazioni teoriche e pre-visioni di massima sugli uni o sugli altri.
Mi sento solo di affermare che non sussiste nessuna crisi del capitalismo diretta inevitabilmente al suo disfacimento. Al massimo, essa segnala l’inizio della fase che, attraverso il multipolarismo, condurrà al conflitto più apertamente policentrico; è quindi del tutto plausibile pensare (ma non as-sicurare, poiché si tratta di un periodo storico di alcuni decenni, e nessuna persona seria accetterà di erigersi a profeta) che si esaurirà la “spinta propulsiva” mostrata per tutto il novecento dalla forma-zione dei funzionari del capitale; esattamente come si spense, tra guerra franco-prussiana e prima guerra mondiale, quella del capitalismo borghese. Nemmeno è perciò escluso – ancora una volta, darlo per scontato sarebbe indice di ciarlataneria – che la nuova formazione sociale in affermazione, presumibilmente ancora definibile capitalistica, comporti pure l’assunzione del predominio da parte di una formazione particolare differente da quella statunitense.
Tuttavia, nessun gruppo dirigente, espressione di gruppi dominanti, in ogni formazione partico-lare – dotata delle potenzialità indispensabili a lottare per la supremazia nello scacchiere mondiale – si sogna di abbandonare le sue manovre tese ad assumere (o mantenere) tale posizione preminente. Ovviamente, a seconda delle diverse fasi o congiunture storiche particolari, si possono adottare stra-tegie e tattiche varie ma non finalità differenti. E’ quello che stanno facendo gli Usa della nuova Presidenza. Se uno legge una serie di notizie meno conformistiche del solito, si rende conto di quan-to poco, nella sostanza, la politica di tale paese è mutata. Continue mene contorte nel Caucaso, in Pakistan e Afghanistan (dove si rafforza la violenza aggressiva), nei confronti delle minoranze cine-si (con le quali non si va comunque molto lontano), in Ucraina e Georgia. Ci sono caute, ma preci-se, aperture verso l’Iran (leggersi certe documentate analisi dell’indiano Bhadrakumar nel sito tla-xcala). E’ stata persino riesumata (da Bush nel luglio dell’anno scorso, ma non mi consta che Oba-ma abbia fatto marcia indietro) la “Quarta Flotta” che serve a “pattugliare” Caraibi e zone del Sud America; quindi una potenziale minaccia e forza di pressione sui paesi di tale area .

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Di fronte alle manovre appena citate, è ovvio che l’operazione (finta economica) tra Chrysler e Fiat, con possibile acquisizione della Opel (GM), è di secondaria importanza per la geopolitica (con nuova strategia) statunitense. Non lo è però altrettanto per l’Italia; e può avere qualche riflesso ne-gativo anche in Europa, data la chiara predisposizione all’“americo-dipendenza” del Governo tede-sco della Merkel. Si prende un’azienda, che ha compiuto un presunto miracolo (già soprattutto poli-tico-finanziario)  e la si porta, malgrado il già citato parere negativo di una commissione di esperti nominata ad hoc, all’accordo (con possibilità di futura maggioranza azionaria) con un’impresa sta-tunitense in fallimento.
Già da tempo – iniziata la crisi finanziaria da derivati e subprime, poi scaricatasi in campo reale e in particolare nel settore automobilistico, ormai “stramaturo” – si vociferava che, nel giro di pochi anni, ci sarebbe stato mercato per soli 5-6 grandi produttori di vetture. Guarda un po’: con l’acquisizione di Chrysler la Fiat assumerebbe in effetti la sesta posizione. Le si vogliono però con-cedere – alcuni, almeno, tentano di concedergliele, anche fra i gruppi politici tedeschi filo-americani intorno alla sopra nominata Merkel – ulteriori possibilità di ampliamento con l’Opel (l’operazione è difficile, ma si può stare sicuri che alcuni ambienti governativi, e ovviamente finanziari, americani sono già in azione; a mo’ di sottomarino, di cui nemmeno si vede la scia dei siluri che intenderebbe-ro arrivare a segno). Con simile operazione, se tutto fila liscio, si mira a due obiettivi.
Innanzitutto, il più “fenomenicamente” evidente dei due, è l’avere un “amico” (di fatto servo) fidato in Italia, in grado di riprendere la testa della nostra GFeID onde ostacolare quel minimo di manovre autonome rispetto agli Stati Uniti, che non gradiscono certo l’espansione di operazioni del tipo di quelle Eni-Gazprom. Con i loro addentellati nel Nord Africa (dato che il Medio Oriente, gra-zie anche al sicario Israele, è area di influenza e di investimenti soprattutto per chi è completamente gradito agli Usa) , le uniche aziende energetiche sottratte al controllo statunitense sono mal tollera-te; il Southstream è combattuto (con buoni appoggi nella UE) per favorire il Nabucco in funzione antirussa, ecc. Per sottolineare il secondo obiettivo, più complesso e meno lampante, mi permetto una deviazione.
Alla metà dell’ottocento l’Inghilterra era ormai in declino, rispetto al monocentrismo dei decen-ni precedenti, e non era certamente più in grado di operare “imperialmente”; faceva già fatica a mantenere le sue colonie. Tuttavia, non vi è dubbio che le simpatie inglesi (in prevalenza) andarono agli Stati della Confederazione sudista durante la “guerra di secessione” (o civile) americana (1861-65). In effetti, se avessero vinto i sudisti, sarebbero cadute le tariffe doganali, i manufatti industriali inglesi avrebbero reinvaso gli Usa, indebolito la loro industria (il tutto sempre in nome del “libero commercio mondiale”, santificato dall’ideologica “teoria dei costi comparati” di Ricardo, fatta pas-sare per Scienza, che più oggettiva non si può). Gli Usa avrebbero “perso l’autobus”, che invece presero brillantemente divenendo poi, nel corso del novecento, la superpotenza per eccellenza. Crollato il “socialismo reale”, l’ideologia neoliberista – come al solito ancella della politica imperiale del paese predominante – ha predicato la globalizzazione e l’abituale “libero commercio internazionale” per dare ampia supremazia ai settori statunitensi della nuova ondata industriale, mentre gli altri paesi (fra cui un Giappone che si illuse di divenire “padrone” negli Usa con lo sviluppo dell’ormai vecchio settore automobilistico, rimanendo scornato e bruciato da una stagnazione da cui non si è ancora rimesso) devono limitarsi alle “nicchie” e ai settori della passata “rivoluzione industriale”.
Negli ultimi anni, come già rilevato più volte, l’“Impero” Usa è entrato in crisi con necessità di revisione strategico-tattica, ecc. ecc. Tale paese non è però per nulla nella situazione di debolezza dell’Inghilterra nella seconda metà ottocento. E Russia, Cina, ecc. non sono come gli Usa, la Ger-mania, e subito dopo il Giappone, nell’epoca dell’imperialismo. Stiamo attenti a non commettere simili errori di valutazione. Per di più vi è un’area ad ancora alto sviluppo capitalistico, quindi con un suo notevole rilievo industriale (l’Europa e il Giappone evidentemente, cioè il capitalismo “occi-dentale”, quello configuratosi sulla base della formazione americana dei funzionari del capitale), che è singolarmente dipendente – per ragioni legate alle sue strutture sociali, politiche e culturali, largamente influenzate da quelle statunitensi – rispetto al paese non più propriamente centrale, ma non ancora ridotto a potenza eguale alle altre in crescita. Gli Stati Uniti, di conseguenza, non sono ancora costretti nell’attuale fase storica allo scontro policentrico (ecco la differenza sostanziale tra quest’ultima situazione e quella odierna di multipolarismo).

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Ribadito ancora una volta che le strategie e tattiche statunitensi sono principalmente impegnate e rivolte ad altre aree mondiali – e anche per ciò che concerne l’Europa esse utilizzano principalmen-te la Nato e le varie basi predisposte un po’ dappertutto, ed in particolare nei paesi europei orientali fu “socialisti” – non è certamente negativo un aiuto concesso ad aziende decotte (tipo Fiat) quale supporto all’opera di predominio statunitense, soprattutto nella zona di più antica e sicura fedeltà (dal 1945). Intanto, malgrado le pantomime (di tipo “etico” soprattutto), si sono forniti fondi mas-sicci alle banche americane (fra l’altro, anche per prolungarne la predominanza su quelle europee, e sulle italiane in specie). La nomina a Segretario del Tesoro di un già repubblicano, Geithner, fidato uomo dei finanzieri, è un segnale che più chiaro non si può. Gli stress test ordinati sono di fatto pi-lotati per riuscire positivi e portare a forti aumenti di capitali per le maggiori banche, con l’appoggio evidente dello stesso Tesoro; ci sono perfino buone probabilità che esse riprendano a imbastire operazioni non troppo diverse dalle precedenti.
Ancora una volta va ribadito che questo “intervento dello Stato” non ha nulla che vedere con la visione economicistica degli statalisti (antiliberisti); molto invece con lo sfruttamento perfino della crisi onde accrescere la propria potenza, utilizzando a tale scopo anche la finanza “sconquassata”. Tuttavia, ci si può servire abilmente pure del dissesto di un settore ormai vecchio e ultramaturo co-me l’automobilistico. Si stabilisce una linea (politica, solo mascherata da motivazioni economiche, fornendo prestiti che si sostiene “ufficialmente” dovranno essere rimborsati, manovrando pacchetti azionari, ecc.; il tutto per far credere che si tratti di operazioni nel “libero mercato”) al fine di legare ai “propri destini” un’azienda straniera in gravi difficoltà (anch’esse mascherate da anni) e dunque pronta ad assolvere il ruolo di “mercenaria” delle strategie Usa.
Come tutti i settori stramaturi (si pensi all’immobiliare, ad esempio), quello automobilistico è importante per l’occupazione, direttamente e ancor più per l’indotto. Si fa quindi balenare la possi-bile chiusura di stabilimenti, in Italia e/o forse altrove. Ci saranno lotte, contrattazioni defatiganti; tutte le forze che si dichiarano contro il capitale, in senso meramente tradunionistico per dirla alla Lenin, saranno ossessionate dal tema della difesa dei posti di lavoro, perdendo completamente di vista il senso reale dell’operazione che fa parte appunto – sia pure in funzione subordinata a mosse di ben altra rilevanza – della tattico-strategia statunitense nell’epoca di “San Obama”. Il Governo italiano, l’opposizione (che dovrà in qualche modo escogitare critiche al Governo), pure certi am-bienti economici e politici tedeschi, organismi europei vari, ecc. saranno invischiati in questa ragna-tela di cui si sa poco, si lascia trapelare meno, facendo appunto solo ventilare pericoli per i lavorato-ri (dell’auto e dell’indotto, in Italia e in altri paesi).
Gli uni verranno messi contro gli altri, qualche paese (e l’Italia figuriamoci!) tirerà fuori “nuovi soldini” per parare i “brutti colpi”. Eccetera, eccetera, eccetera. Tutte commedie già fritte e rifritte. In particolare dalla Fiat che è una sanguisuga fin dalla sua nascita; e dal 1945 in poi – fingendo di far parte della “Resistenza”, essendo passata bellamente dal fascismo alle trame con americani e in-glesi durante la guerra per il cambio di alleanze (vedi lo scritto di Berlendis in questo blog e nel si-to) – non ha fatto altro che imporre un distorto modello di sviluppo all’Italia e ha ricevuto continui finanziamenti, diretti e indiretti.
In questo modo, oltre a distogliere l’attenzione delle forze che dovrebbero opporsi alla sudditan-za allo straniero (Usa) – mentre invece queste ultime si agiteranno solo per non perdere del tutto il consenso dei lavoratori, già ampiamente incrinato – si ottiene, o si cerca di ottenere, il risultato di indirizzare la politica economica di alcuni Governi europei (soprattutto di quello italiano) al tentati-vo di rilancio di settori maturi, ostacolando invece lo sviluppo di quelli della più recente ondata in-novativa e della ricerca scientifico-tecnica che ne sta alla base; esattamente la politica (combattuta nell’800 da List contro il predominio dell’Inghilterra) che fu portata avanti a spron battuto dopo il “crollo del muro”, inneggiando alla cosiddetta globalizzazione dei mercati (considerata il top della politica di “armonico sviluppo” mondiale; e si è infatti visto di quale armonia si trattasse e a chi fos-se favorevole!).

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Gli sviluppi della politica estera italiana dimostrano che quella dotata di un minimo di attenzio-ne agli interessi nazionali – con l’appoggio ad un settore fondamentale come quello energetico, che la sinistra ha sempre tentato di indebolire subordinandosi così alla supremazia statunitense – è stata portata avanti da ambienti vicini a Berlusconi, con molti mal di pancia nel suo stesso schieramento. La sinistra ha invece sempre attaccato questa politica, paragonando il premier – con il chiaro intento di indirizzare contro di lui il disprezzo dei sedicenti “democratici” – a Putin, in quanto “dittatore”. Del resto quello che sta avvenendo a Roma con l’Acea, a Bologna con la Hera (secondo quanto se-gnalato da un lettore del blog), ecc. è la migliore dimostrazione che la nostra minima indipendenza è a rischio proprio con la sinistra; coadiuvata dagli intriganti centristi dell’Udc e da una parte dei destri che fanno soprattutto capo alla vecchia An (Fini e Alemanno, non credo d’accordo fra loro, sono strumenti di cordate pericolose e antinazionali).
La politica di Berlusconi è però piena di crepe e strutturalmente debole, poiché si piega a com-promessi piuttosto sbiaditi con gli Usa e Israele. Il porsi come mediatore tra Usa e Russia (lo faceva già con Bush e la vecchia strategia; oggi è facilitato da quella nuova di Obama) sembra pura mega-lomania del premier. Non è in realtà questo il suo difetto, bensì la scarsa efficacia poiché Russia e Usa tratteranno – con un’altalenante serie di avvicinamenti ed inasprimenti di posizioni – per conto loro, non hanno bisogno di mediazioni italiane a questo livello e nella presente fase geopolitica. Molto più serio sarebbe spostare l’asse verso est , irrobustire decisamente la strategia energetica di Eni (ed Enel), anche tornando al decisionismo di Mattei; tanto più che la situazione non è affatto quella di allora e i rischi che si corrono (perfino per la propria incolumità personale) sono decisa-mente inferiori. Non ha poi senso una politica poco amichevole verso la Cina. Certamente, l’Italia non ha molta voce in capitolo nelle zone caucasiche (se però l’Eni segue la Gazprom, qualche credi-to si può avere anche in tali zone) o verso l’area d’influenza cinese. E’ inoltre vero che tra Russia e Cina non vi è tutto quell’“afflato” che taluni si sforzano di vedere (se ne riparlerà). In ogni caso, per quel che può decidere e agire, l’Italia dovrebbe giocare le sue carte in base alla “scommessa” di un possibile asse Russia-Cina; e non dovrebbe prestarsi ad alcuna manovra avvolgente degli Usa nei confronti dell’Iran (si vedano le già citate analisi di Bhadrakumar); poiché, se simili manovre riu-scissero (ma è per fortuna difficile quest’esito), verrebbe indebolita la politica italiana (ad es., l’accordo Eni-Gazprom per Southstream) e favorita quella statunitense (ad es., con il Nabucco).
Sarà una mia impressione, ma credo che la “timidezza” (in certi casi proprio eccessiva) del premier nei suoi deboli “guizzi di autonomia” dipenda dalla totale mancanza di controllo dei cosid-detti “corpi speciali in armi”: sia quelli propriamente militari sia quelli “bellici in senso ampio” di cui già detto. Decenni di legami nella Nato durante il bipolarismo Usa-Urss, ecc., nonché il tipo di armamento, l’istruzione e l’addestramento dei nostri militari in centri controllati dagli Usa, i legami tra vari servizi segreti, ecc. credo stabiliscano un non facilmente sgretolabile legame di dipendenza di detti “corpi speciali” italiani da quelli americani: un vero intrico di connivenze di cui probabil-mente nessuno riesce a venire a capo.
Non credo esista in Italia un vero blocco sociale egemonico nel senso gramsciano del termine. Sono presenti alcuni gruppi di potere che si addensano attorno a due nuclei: quella che chiamo GFeID, cioè una finanza fortemente collegata a quella Usa (perfino nelle persone che stanno al ver-tice degli apparati) ed un’industria in cui sono prevalenti i settori delle passate epoche di distruzione creatrice, per usare una certa terminologia. Altri gruppi di potere sono quelli che costituiscono ap-punto l’ossatura dei “corpi speciali in armi”. Entrambi questi “addensamenti” di gruppi dominanti sono legati agli Stati Uniti. Essi non hanno un’effettiva egemonia culturale intesa in senso stretto; controllando però giornali, editoria, media in genere – con una massa di infami intellettuali ormai senza più spinta e tensione (non etica come si blatera, ma proprio intellettuale e intellettiva), solo interessati a pingui emolumenti – di fatto impediscono alle “masse” ogni minima comprensione del-la posta in gioco, che di anno in anno, in quest’epoca in via di multipolarismo, si fa sempre più alta e sempre più sfavorevole al nostro paese (e al capitalismo “occidentale” incapace di liberarsi della subordinazione rispetto agli Stati Uniti).
La politica, almeno nel nostro paese, è ormai al lumicino; ma credo sia in peggioramento in tutta la UE. Non si tratta di rimpiangere il vecchio regime Dc-Psi, bensì di almeno riconoscere che aveva quel minimo di spessore e capacità di manovra per giostrare all’interno del conflitto tra i due “cam-pi”. Il colpo di mano giudiziario del ’92-’93, che entro certi limiti si potrebbe ben definire un colpo di Stato – condito però con i vari accordi tra ambienti dominanti statunitensi, finanza e Confindu-stria italiane, ex piciisti (salvati dal destino di pressoché totale sparizione tipico degli altri PC occi-dentali, per essere piegati al più servizievole degli usi) – ha posto la politica, ed un personale che raggiunge limiti di bassezza e di stupidità senza pari, in totale dipendenza rispetto a quei due “ad-densamenti” di gruppi di potere appena sopra indicati.
Continuiamo spesso, sbagliando, a seguire le dementi prese di posizione e giravolte del persona-le politico odierno. Non possiamo evitarlo perché siamo esseri umani: quando veniamo investiti dal-le nefandezze e dall’idiozia di questi “politici” (e anche dei giornalisti, scrittori, intellettuali vari al servizio di simili buffoni; e quindi buffoni essi stessi!), non possiamo resistere alla tentazione di di-pingere con le tinte più fosche il loro incredibilmente laido comportamento. Dobbiamo però produr-re uno sforzo maggiore nel tentativo di individuare le mosse di chi esercita effettivamente il potere. Spesso, non saremo in grado di azzeccare le analisi giuste, poiché le informazioni non ci sono certo fornite da nessuno. Tuttavia, dobbiamo sempre inquadrare i problemi (compreso quello apparente-mente “singolare” della Fiat-Chrysler) nell’ambito del più vasto disegno statunitense, che cozza, in un caleidoscopico mutare di situazioni e con continui contorcimenti tattico-strategici, contro quelli delle altre potenze in rafforzamento (tramite alti e bassi periodici).
Dobbiamo criticare apertamente il “ceto” politico e quello intellettuale, asserviti e ripugnanti. Tuttavia, teniamo conto dei due “addensamenti” di gruppi (GFeID e “corpi speciali”) che spingono, senza autentica egemonia culturale ma con il completo controllo dell’informazione, verso la subor-dinazione agli Usa e quindi in oggettivo scontro “verso est”. Dobbiamo individuare coloro che si muovono in direzione opposta (tipo l’Eni), per quanto essi siano oggi in netta minoranza. Non sono nemmeno appoggiati – sono anzi combattuti – dai pochi residui che si dicono “critici del capitali-smo”; poiché questi, senza fare distinzioni interne agli schieramenti capitalistici fra loro in conflitto (coperto e mascherato), difendono ciecamente “i lavoratori”, prestandosi alle manovre ricattatorie dei veri e più pericolosi nemici. Questo ci insegna proprio l’azione della Fiat in tutta la sua storia, in particolare in questo dopoguerra; e con un’evidenza solare dopo il colpo di mano giudiziario dell’inizio anni ‘90. Mentre una lezione diversa (direi quasi opposta) – e ancora una volta impartita da tutta la sua storia passata – apprendiamo dall’Eni, che certo dovrebbe tornare, dal punto di vista politico, ai fasti dell’epoca Mattei.
Invece, i mentecatti del “conflitto capitale-lavoro”, e i “buonisti” che si battono per i diseredati, ci portano a fondo, non capendo che molte lotte del lavoro sono sollecitate proprio da accordi come quello Fiat-Chrysler, sotto la “saggia” guida della nuova strategia statunitense; e sono sollecitate perché, alla fine, conducono dove volevano arrivare coloro che stimolano esattamente queste rea-zioni. Non dico di trascurare il problema dei posti di lavoro; quindi non sostengo che si debbano lasciare a loro stessi i lavoratori. Affermo soltanto che, sia nell’analisi delle situazioni sia nei giudi-zi critici da dare, si deve porre al primo posto – nella fase, non tramite le solite prese di posizione di principio – la geopolitica, i rapporti di forza contrapposti in campo internazionale; e subito dopo i problemi interni di carattere soprattutto sociale e, solo in secondo luogo, economico. Un lungo e difficile lavoro ci aspetta nella nuova epoca che si apre. Continuare con le vecchie categorie mentali – ormai dei semplici tic da “anticapitalismo” (puramente verbale poiché certuni non sanno affatto che cos’è il capitalismo; sono ciecamente “contro” e basta) – sarebbe deleterio.