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La sconfitta è vittoria, la morte è vita

di Robert Fisk - 14/03/2006

Fonte: Nuovi Mondi Media

 


Tutti in Medio Oriente sono soliti riscrivere la storia, eppure mai prima d’ora vi era stata un’amministrazione Usa che così ostinatamente, così disonestamente e così aggressivamente abbia reinterpretato la tragedia come successo, la sconfitta come vittoria, la vita come morte

Mi sono ricordato non tanto del Vietnam, quanto dei comandanti britannici e francesi che, durante la Prima Guerra Mondiale, mentirono ripetutamente riguardo la vittoria militare sul Kaiser, mentre mandavano centinaia di migliaia dei loro uomini al macello nelle battaglie di Somme, Verdun e Gallipoli. L’unica differenza è che oggi stiamo mandando al macello centinaia di migliaia di arabi, e neanche ce ne preoccupiamo.

La visita a Beirut di qualche settimana fa del Segretario di Stato Usa Condoleeza Rice – una delle talpe più cieche di George Bush – è indice della crudeltà che pervade Washington al giorno d’oggi. La Rice ha parlato delle fiorenti “democrazie” mediorientali, ma ha completamente ignorato i bagni di sangue in Iraq e le crescenti tensioni settarie in Libano, Egitto e Arabia Saudita. Forse la chiave di questa indifferenza sta nelle dichiarazioni rilasciate al Comitato Affari Esteri del Senato, con le quali la stessa ha definito l’Iran “la più grande sfida strategica” cui gli Usa abbiano mai dovuto far fronte nella regione, dal momento che l’Iran ricorre a politiche che “contraddicono la tipologia di Medio Oriente auspicata dagli Stati Uniti”.

Bouthaina Shaaban, uno dei più brillanti ministri siriani di una squadra di governo non sempre brillante, si è domandata :“Qual è la natura del tipo di Medio Oriente auspicato dagli Stati Uniti? Gli stati mediorientali dovrebbero adattarsi a tale natura, ideata a migliaia di chilometri di distanza?” Come ha osservato questo mese Maureen Dowd, l’unico cronista davvero meritevole del sempre più noioso New York Times, Bush “crede nell’autodecisione solo se è lui a decidere… I suoi sostenitori sono più interessati a spiare gli americani che a comprendere il modo di pensare e reagire delle altre culture”. E chiudere gli occhi sui regimi dissidenti, si potrebbe aggiungere.

Prendiamo Donald Rumsfeld, l’uomo riprovevole che ha contribuito all’introduzione della strategia “colpisci e terrorizza”, che oggi ha intrappolato più di 100.000 americani nei deserti iracheni. Rumsfeld ha persino viaggiato in nord Africa per consultare alcuni dei dittatori locali più crudeli; tra questi il Presidente tunisino Zine el-Abidine Ben Ali, l’uomo che dispone dei servizi segreti più sviluppati del mondo arabo e i cui poliziotti hanno collaudato un ottimo metodo per raccogliere informazioni dai sospetti “terroristi”: immobilizzarli e ficcare loro in bocca stracci zuppi di candeggina, fino a farli quasi morire per soffocamento.

I tunisini ne sono venuti a conoscenza per mezzo dei metodi analoghi – ma molto più crudeli – messi in pratica dai loro vicini algerini, le cui squadre della morte governative hanno ucciso molte delle 150.000 vittime causate dalla recente guerra contro gli islamici. Gli algerini – e io ne ho intervistati molti che sono stati spinti dai loro incubi a cercare asilo politico a Londra – legavano le loro vittime nude a una scala e, se il sopraccitato metodo dello “chiffon” non funzionava, conficcavano un tubo nella gola della vittima e aprivano il rubinetto dell’acqua finché il prigioniero non si gonfiava come un pallone. Esisteva anche una speciale sezione – precisamente alla stazione di polizia Chateauneuf, nel caso in cui Donald Rumsfeld fosse interessato – dove venivano torturate le donne, che venivano inevitabilmente violentate prima di essere giustiziate.

Ho riferito tutto questo perché Rumsfeld ha anche cercato di ingraziarsi gli algerini. Il mese scorso, in occasione di una visita ad Algeri, egli ha dichiarato che “Stati Uniti e Algeria coltivano una relazione sfaccettata, che comprende cooperazione politica, economica ma anche militare. E noi diamo un valore molto importante alla cooperazione contro il terrorismo…”. Sì, immagino che il metodo dello “chiffon” sia facile da imparare, e anche gli abusi sui prigionieri – ne è un esempio Abu Ghraib – la cui responsabilità oggi sembra ricadere sui giornalisti piuttosto che sui criminali americani.

Le ultime dichiarazioni di Rumsfeld hanno incluso non solo la difesa dei metodi con cui il Pentagono ha comprato in Iraq nuove "storie favorevoli" grazie ad alcune bustarelle – 'mezzi non tradizionali per procurarsi informazioni accurate' era la descrizione fantasiosa dell'ennesimo tentativo del Segretario della Difesa Usa di oscurare il crollo del regime americano a Baghdad – ma anche un attacco ai nostri reportage sulle torture di Abu Ghraib. “Consideriamo per un momento il numero di articoli e le ore di programmi televisivi dedicate all’abuso sul detenuto [sic] ad Abu Ghraib e confrontiamoli con l’ampiezza della trattazione e la condanna associata alla scoperta delle fosse comuni di Saddam Hussein, colme di centinaia di migliaia di innocenti iracheni”.

Bisogna svelare la seguente colossale bugia: nel lontano 1983, stavamo denunciando il vile regime di Saddam, e in particolare l’uso del gas, e mi fu rifiutato il visto per l’Iraq dai satrapi del dittatore perché avevo svelato le torture sui detenuti di Abu Ghraib. E cosa stava facendo Donald Rumsfeld? Stava visitando Baghdad, strisciando di fronte a Saddam al quale non menzionò gli omicidi e le fosse comuni di cui era a conoscenza, bensì supplicò la 'Bestia di Baghdad' di riaprire l’ambasciata Usa in Iraq.

Con i soliti adulatori della stampa al seguito, Rumsfeld non ha problemi, come testimoniato da George Melloan nella sua recente intervista con la Bestia di Washington rilasciata sul suo Boeing 737: “Generosamente mi dedica tempo per una chiacchierata riguardo le strategie di difesa. Fasci di luce gli illuminano il volto… Sedendo di fronte alla sua scrivania, al di sopra delle nuvole, ci si domanda se l’abilità di questo Giove moderno di invocare fulmini e saette sui trasgressori sarà all’altezza delle future incombenze”.

E così, mito e tragedia vanno di pari passo. La monumentale catastrofe irachena è diventata routine, informe, un'incipiente “guerra civile”. Si noti che il quadro del disastro americano oggi viene rappresentato come la guerra dell’Iraq contro l’Iraq, come se la vasta e brutale occupazione statunitense non avesse niente a che fare con la spaventosa violenza nel paese. Mi sembra già di sentirli: "Fanno saltare in aria le moschee degli uni e degli altri, non vogliono andare avanti. Abbiamo suggerito loro di non istituire un governo fazioso e loro hanno rifiutato". Sospetto che sarà questa la scappatoia quando il prossimo diluvio sommergerà gli americani in Iraq.

Nel 1920, quando gli iracheni organizzarono l’insurrezione contro il dominio britannico, Winston Churchill definì l’Iraq “un'ingrata polveriera”. Ma accomodiamoci e gustiamoci lo spettacolo; la democrazia sta sbarcando in Medio Oriente e le persone godono di più libertà. La storia non importa, conta solo il futuro, e il futuro per i mediorientali sta diventando ogni giorno più malefico e sanguinario. Suppongo dipenda dalla concreta possibilità che “Giove” stia compiendo il proprio lavoro mentre quei "fasci di luce" gli illuminano il volto.

 

 

 

Fonte: http://www.commondreams.org/views06/0227-21.htm
Tradotto da Chiara Turturo per nuovi Mondi Media

* Common Dreams)