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Una pagina al giorno: «Discorso sulle fate», di Ippolito Pizzetti

di Francesco Lamendola - 19/05/2009

Dal libro di Ippolito Pizzetti «Pollice verde» (Milano, Rizzoli, 1982, pp. 350-56; ma comparso inizialmente come articolo, il 22 ottobre 1978):

«C'era una volta - o meglio c'è, perché ne esiste ancora molta più di quanto si creda - all'estero della gente che quando sente che siamo italiani spalanca la bocca in un sorriso radioso quanto ebete, ed esclama: "macaroni", "pastasciutta", "O sole mio", "gondola" e tre o quattro altre baggianate del genere e si aspetta che, con certezza pavloviana, che, come tanti "apriti Sesamo" tali Cs (stimoli condizionati) suscitino in noi una Cr (risposta condizionata). Questa è la loro idea di un accesso alla cultura. Mi vergogno per loro.  Ma mi vergogno anche per noi ogni volta che ci accostiamo a quel mondo che in inglese viene chiamato Faerieland o Fantasy e per il quale (fatto significativo) non esiste un corrispettivo nella nostra lingua, essendo "il paese delle favole" un termine troppo povero e limitativo. Apro, per esempio, il "Vocabolario nomenclatore" del Premoli alla voce "fata": "donna favolosa", dice il libro "maga (figur., donna che riesce a fare tutto). Esseri fantastico, dotato di facoltà soprannaturali,  apparente ora in forma di bella giovine, ora di vecchia rugosa, , vivente migliaia di anni. Famosa la Circe d'Omero, l'Alcina di Ariosto, l'Armida del Tasso". Tutto qui.
Poco o niente, ed inesatto per giunta. Circe, Alcina ed Armida erano fate quanto io sono un mangiatore di maccheroni, o uno strimpellatore di mandolino. L'unica cosa che hanno in comune con le fate è di essere ditate di poteri magici.
Ma gli errori in questo caso sono pericolosi perché i popoli numerosi quanto vari delle fate, dei nani, degli elfi, dei nani coboldi, troll, gobelin, brownies, selkires, asrai, bogles, leprechaunus,  spriggans (non posso certo nominarli tutti) sono, e dovremmo saperlo, molto suscettibili, supremamente permalosi; ciascuno ha regole proprie e proprie leggi, e codici complicatissimi che regolano il commercio con i comuni mortali quali noi siamo. Tra l'altro questi codici non sono affatto facili da interpretare, e richiedono a chi li voglia osservare  una grandissima fantasia, sensibilità, versatilità e iniziativa personale, altrimenti non funzionano. Altro che Pavlov, Cs e Cr. Per esempio, c'è il fatto importantissimo  del "glamour", che tradurrò molto rozzamente con incantesimo.
Poniamo adesso che voi siate così fortunati da vedere una Asraie non dovete spaventarvi perché generalmente si tratta di creature piuttosto innocue, descritte da Brian Froud e Alan Lee in uno straordinario libro pubblicato a New York (B.F. & A.L:, "Faeries", Abrams, 1978), come fate minute e delicate che si sciolgono in una pozza d'acqua se catturate o esposte ai raggi della luce", oppure abbiate la mala ventura di sorprendere Glaistig, pericolosissima, "che invita gli uomini a danzare con lei e quindi si nutre come un vampiro del loro sangue", ma può anche essere benigna (come tutte le creature paniche), "prendendosi cura dei bambini e dei vecchi" e conducendo i greggi al pascolo; noi non sapremo mai se la spoglia che ci appare è reale o, per esprimerci in un linguaggio più attuale, se questa figura dal volto e dalle mani bellissime, vestita di un'ampia tunica verde ricamata in oro (sotto cui nasconderebbe i suoi attributi caprini) non sia una proiezione indotta  e la sua realtà tutta diversa (totalmente brutta  o se lo preferite, anche totalmente bella).

La caratteristica fondamentale di tutto il mondo delle fate è la sua ambiguità e la sua imprevedibilità: caratteristiche che ha in comune con tutte le demonologie primitive. Una ambiguità, come appare dall'esempio che ho fatto, che è della forma, e non soltanto della forma ma anche della sostanza: potendo essere la creatura benevola o malevola, amica o nemica a capriccio, secondo leggi il cuoi codice non è mai rivelato, ma segreto, ed è sempre . contrariamente che nella mitologia cristiana - nelle mani degli "altri", del sovrumano, mai nelle nostre. È una differenza che bisogna tenere bene a mente, perché è una di quelle che segnano più decisamente la rottura tra il mondo  cristiano e quello pagano. Certo è che c'è assai più affinità tra un Gobelin ed un Troll da una parte ed un Satiro ed un fauno dall'altra,  che tra costoro e anche infimo e trucido (e quindi il piò vicino a costoro, almeno secondo i canoni i di giudizio che ci vengono imposti) santo della tradizione cristiano-cattolica.
Ed ecco che così si spiega anche il perché della totale o semitotale assenza  bel nostro paese delle creature appartenenti a questo mondo: quelle che non morirono con Pan, timide ed elusive e segretissime come sono per loro natura, si sono nascoste per sottrarsi al genocidio perpetrato dalla Chiesa (come già perfetti genocidi neo confronti di altre culture, per esempio l'etrusca, erano stati perpetrati da quella romana, che della cattolica è la madre diretta) che ci vuole ben altro che il nostro occhio distratto e ormai molto mal esercitato per scovarle e sorprenderle. Tanto è vero che, fatte pochissime eccezioni, nella nostra cultura letteraria, e fatta ancora eccezione per le isole, o quasi chiuse monadi, che sono le nostre culture dialettali, dove sono i nostri scrittori e artisti che con questo mondo si sono tenuti costantemente o episodicamente in contatto? Stranamente uno dei primi nomi che mi emerge nella memoria è quello di Piranesi.  Piranesi ebbe certamente commercio con quel mondo, ma fatto curioso lo ebbero molto di più dei nostri artisti quelli di altri paesi latini, come la Francia o la Spagna(non voglio parlare di quelli nordici!): nonostante i loro rigori controriformistici erano pur sempre stati terra di barbari con una cultura autoctona molto più difficile da estirpare e annullare, lassù ai confini, lontano da Roma.
Invece in Inghilterra, per ritornare ai giorni nostri quasi dentro ai confini del nostro secolo, basta un attimo di riflessione ed i nomi si presentano da sé: Barrie,  Conan Doyle, Yeats, O'Casey, J. C. Powys, Robert Graves,  J. R. R. Tolkien per citare soltanto i più noti ed importanti. Qui in Italia sembra curiosamente che i nostri uomini di cultura,  artisti e scrittori e saggisti, di fronte a questo mondo - non paro soltanto di Tokien - cadano in uno stato di inerzia, di stupore disinteressato.
Credo, per fare solo un esempio, che in pochi altri paesi, non dico sul fenomeno, ma sullo scrittore Tolkien (che in America conta tra i suoi ammiratori un poeta come W. H. Auden) sono stati pronunciati dagli uomini di cultura giudizi tanto ottusi come da noi. Perfino nel caso di Wagner e del Tristano, i wagneriani italiani sono wagneriani sì, ma a contropelo di tutto il Walhalla, di Tristano, di Isotta, di Re Marco, di Parsifal, di Kundrie di Merlino, che giudicano alla stregua di Pollione: un puro pretesto per la musica., Dove mai appare nella nostra cultura la figura del mago doloroso, che gronda Weltschmerz da tutti i lati, quando nella nostra novellistica popolare , nelle fiabe toscane o nel Cunto, come nella letteratura di corte o dotta, la figura del mago si identifica quasi sempre con quella del'Orco o del divoratore? Per arrivare a Faust, Merlino è una pietra necessaria. Ma una sorte assai più trista , perché di costoro è qui questione., è toccata a quell'immenso brulicante (minore nel senso di meno soggettivati, caratterizzato), che ha le sue radici profondamente infisse nel cosmo animale-vegetale, considerato buono tutt'al più per le sere di veglia (quando c'erano ancora) o per i bambini i quali, nel nostro mondo serio, così adulto e perfettamente codificato, diviso, gerarchizzati hanno sempre avuto ancor meno diritto alla cittadinanza delle donne e degli omosessuali.
Ma è questo un discorso che porta fuori strada perché ironicamente la Nursery (la stanza dei bambini), espressione di una classe privilegiata, finisce con l'essere invece il crogiolo di una cultura nazionale, dove il mondo popolare e primitivo s'incontra con la fantasia del singolo, del bambino che in quel luogo è protetto in quanto tale, che in quella sede è sovrano, libero di attingere alle fonti,  attraverso una tradizione orale e scritta; così che la Nursery diventa un contenitore, il guscio durissimo che difende  un contenuto, un luogo interiore, che poi  uno si porterà dietro tutta la vita, ma che rimane per tutti  e durante l'intera vita un luogo d'incontro.  Chiamiamolo pure Fantasy. Mentre la nostra cultura cattolica e castrante, categorizzante, come oggi fagocita il sesso per farne  un esercizio salutista, ha sempre cercato  di fare del mondo pagano un mondo "tutto" fantastico, senza radici nella e senza nessi con la realtà, appunto la favola, avulsa e valida come una pura vacanza,  per un momento della vita che non è considerato vita, che non è valido per se stesso, ma soltanto come un Gradus ad Parnassum, che poi sappiamo bene questo Parnassum cosa sarà.
Nel recensire un libro sugli gnomi di prossima pubblicazione Giampaolo Dossena ha giustamente sottolineato i confini tra Sciencefiction (che piace a Umberto Eco) e Fantasy (che a Umberto Eco non piace). Ma nel descrivere quest'ultima incorre, descrivendo il pubblico che la predilige, in una generalizzazione che non mi sento di condividere,  Tale pubblico sarebbe, per Dossena, quello che "resta indifferente agli anniversari ed ai revivals di Jules Verne, e va invece a caccia di vecchie tradizioni di Walter Scott.  E ama le storie epiche, corali, asessuate come le canzoni di gesta, detesta gli eroi individualisti, moderni, erotizzati, dell'Ariosto o della serie 007.".
Questo è verissimo se ci riferiamo al contenuto e al pubblico di "Guerre stellari" o a certa letteratura nascendo sempre più fitta sulle orme di Tolkien; ma non è vero affatto (a parte le considerazioni di carattere artistico) né per quel che riguarda Tolkien e la sua opera, né per il mondo o il contenuto della Fantasy quale appare anche dalla lettura di questo elegante catalogo illustrato di Froud e di Lee; lasciamo stare l'Ariosto e Bojardo e Pulci che alla fine i contatti con questo mondo li hanno avuti ed hanno reagito secondo le loro sensibilità poetiche, ma non è vero affatto che sono asessuati i personaggi e le figure di matrice celtica che si tratti di Tristano o di Kundri, dell'incestuoso ed ambiguo Golum o dell'Orca sua amante, di Merlino innamorato a morte della Dama del Lago, o delle creature evocate in queste pagine, le sireneo Leanand-Sidhe vampira e musa al medesimo tempo, o il re Finvana e sua moglie Oonagh e tante altre. Certo se identifichiamo il sesso con quello degli  (che è poi lo stesso) con quello perennemente nudo patente in posa ed atteggiato dei nostri rotocalchi, che è sempre parata e mai nulla di consumato, ha ragione Dossena. Ma io sono di avviso diverso.
C'è una leggenda riportata dal libro in cui narra come San Patrizio, il quale come è noto convertì l'Irlanda alla nostra fede (che era certo un grande e degno brav'uomo, il che non toglie che come legioni di missionari che vennero dopo e in tanti altri luoghi fu la rovina di quella cultura celtica di cui queste figure sono gli sconnessi frammenti) un giorno trovò l'eroe Oisin cieco e vecchissimo (aveva disubbidito ad una fata) su una spiaggia deserta dell'isola e se lo portò a casa, dove pazientemente si mise ad istruirlo alla dottrina cristiana. Ma Oisin rispose che poco gli importava di un cielo che non avrebbe accolto con lui i suoi compagni guerrieri, o di incontrare un Dio che non si fosse sentito onorato di avere suo padre Finn per amico. E poi che senso poteva avere  una vita eterna dove non era più possibile caciare o corteggiare donne bellissime? Preferiva l'Inferno dove a detta del Santo pativano i tormenti dei reprobi i suoi compagni.
Ed è infatti così; in tutti questi esseri curiosi, mostruosi o splendidi che siano, ma sempre glamours, vive l'ultimo barlume di un mondo pagano che aveva altri modi e altri  valori molto più prossimi a quelli della natura in cui ancora viviamo quasi per scommessa.
Dite quel che volete, ma se mai mi capiterà grazie a un caprifoglio o ad una primola di vedere una di queste creature, qualunque sia, mi tolgo il capello e le faccio un inchino.»

Quella di Ippolito Pizzetti (figlio del celebre musicista Ildebrando; nato a Milano nel 1926 e morto a Roma il 16 agosto del 2006) è una lezione un po’ atipica nel panorama dei paesaggisti e dei botanici italiani.
Tanto per cominciare, non si era laureato in architettura e meno ancora in agronomia o in scienze naturali, ma in letteratura italiana (con Natalino Sapegno, nel 1950, discutendo una tesi su Cesare Pavese): per cui la passione per i giardini, di cui era divenuto uno dei nostri massimi esperti, gli era nata quasi per caso, come riflesso di più vaste e profonde esigenze culturali.
Poi, detestava la geometria del giardino all'italiana e le piante d’importazione, particolarmente l’eucalipto, e l’abuso delle conifere nei giardini pubblici: il suo approccio alla cultura del verde, e specialmente a quella del verde pubblico, si basava non solo su ragioni pratiche e funzionali, ma anche su una coerenza intellettuale di matrice ecologica, nel senso più ampio della parola.
Dopo aver pubblicato, con Einaudi, «Il libro dei fiori» (nel 1968), per molti anni Pizzetti aveva tenuto una rubrica, intitolata «Pollice verde», sul settimanale «L’Espresso» (per l’esattezza, dal 1975 al 1985), i cui articoli vennero poi riuniti in volume - come si è detto - per l’editore Rizzoli; aveva inoltre insegnato in diverse università italiane, tenendo, in particolare, dei corsi di «Architettura del paesaggio».
Si può dire che egli sia stato il primo intellettuale italiano a ritagliare uno spazio culturale specifico per la cura, la manutenzione e il restauro del verde, inserendo il suo discorso all’interno della situazione urbanistica e paesaggistica italiana, in un momento storico - gli anni Settanta e Ottanta - in cui la speculazione edilizia e gli scempi della cementificazione selvaggia procedevano quasi incontrastati, nell’indifferenza delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, e di gran parte dello stesso establishment  della cultura “ufficiale”.
La sua prosa è colta, netta, precisa, e rivela gli influssi delle sue intense e appassionate letture da Hardy, Lawrence, Stifter e Goethe; ed è una prosa che, quasi sempre, travalica gli aspetti puramente tecnici del giardinaggio e della  floricoltura, per coinvolgere il lettore in una riflessione più ampia relativa al senso della cultura del paesaggio e, più in generale, alle modalità e all’intimo significato delle trasformazioni economiche e sociali, nei loro riflessi sul rapporto tra uomo e ambiente, tra natura e cultura.
Nel brano che abbiamo qui proposto, «Discorso sulle fate», del 1978, Pizzetti prende in considerazione l’influsso della cultura cristiano-cattolica sulla tradizione, sia popolare sia colta, relativa agli esseri elementari quali fate, folletti, gnomi, elfi, sirene e via dicendo; e sferra un  duro attacco contro il fanatismo ideologico e la demonizzazione della natura che il cristianesimo avrebbe recato con sé, portando alla quasi totale scomparsa di tali leggende e di tali credenze.
In particolare, egli sostiene che un simile «genocidio culturale» è stato pressoché totale in Italia, ma solo parziale nel Nord Europa e nei Paesi celtici, grazie al residuo pagano che in essi non è mai stato interamente rimosso; e che perfino in Francia e in Spagna, Paesi latini, qualche frammento del grande naufragio si è salvato, proprio per la loro relativa distanza dal centro della cristianità, come pure da quello dell’Impero Romano.
La sua tesi, in fondo, è molto semplice: egli sostiene che la credenza nelle fate e negli elfi ha ispirato alle culture pre-cristiane un legame molto più stretto e coinvolgente fra l’uomo e la natura e, quindi, un rapporto più immediato e sereno fra l’uomo e la propria dimensione fisica e corporea, «naturale» appunto (da ciò discende la frecciata, quasi d'obbligo, contro le tendenza antifemministe e omofobiche presenti nella cultura cattolica).
Non staremo qui a fare la psicanalisi a buon mercato della sua impostazione violentemente polemica nei confronti di tutto quello che il cristianesimo ha insegnato e fatto, e specialmente nella versione cattolica: sarebbe troppo facile. Egli stesso, nella «Introduzione» al libro, ci parla di quella splendida, giovanissima bambinaia tedesca, fieramente protestante, che è stata per cinque anni la sua vera mamma e che, oltre a portarlo ai giardini pubblici, inculcandogli l'amore del verde e l'attenzione alla natura, gli ha trasmesso anche un robusto scetticismi nei confronti del cattolicesimo (di contro all'agnosticismo del padre e alla superstizione pura e semplice - o, almeno, così lui la definisce - della madre).
La sua tesi, però, ci sembra gravemente inficiata da un errore di fatto e da uno di ragionamento; vediamo perché.
L'errore di fatto consiste nell'avere ignorato un intero filone della letteratura colta italiana (per non parlare di quella popolare, che è piena di fate e di folletti, almeno nelle regioni del Nord), il quale si rifà largamente agli esseri elementali della natura; e che culmina nel Romanticismo, ma non si limita a quel movimento e a quel contesto storico.
Per tacere di parecchi altri esempi che potremmo fare, ci limiteremo al caso di Giovanni Prati (1814-1884) il quale, nella raccolta «Iside», vagheggia l'immagine di una piccola fata, Azzarelina, con la quale immagina di stringere un patto magico:

«[…] E della curva luna
Al freddo raggio, quando
nella selvetta bruna
le mille frasche armoniche
si vanno ad una ad una addormentando;

e dentro gli arboscelli
si smorza la confusa
canzon de' filunguelli,
e sotto i muschi e l'eriche
l'anima dei ruscelli in sonno è chiusa;

noi, cinta in bianca veste,
la piccioletta fata
vedrem dalla foresta
venir nei verdi ombracoli,
di bianchi fior la testa incoronata. […]

Oh fata bianca, come
Un nevicato ramno,
dagli occhi e dalle chiome
più bruni della tenebra,
e dal soave nome in ch'io tiu chiamo.

Oh Azzarelina! In pegno
Dell'amor mio, ricevi
Questo morente ingegno, tu che puoi far continovi
Nel tuo magico regno i miei dì brevi[…]

Ascolta, Azzarelina:
la scienza è dolore,
la speranza è ruina,
la gloria è roseo nugolo,
la bellezza è divina ombra d'un fiore.

Così la vita è un forte
Licor ch'ebbri ci rende,
un sonno alto è la morte;
e il mondo un gran Fantasima
che danza con la Sorte e il fine attende.

Vieni ed amiam. L'aurora
Non spunta ancor; gli steli
Ancor son curvi; ancora
Il focherel di venere
Malinconico infiora i glauchi cieli.

Vieni ed amiam. Chi vive,
naturalmente guada
alle tenarie rive:
ma chi è prigion nel circolo
chela tua man descrive a ciò non bada.»

L'errore di ragionamento consiste nell'avere asserito, senza dimostrarlo, che gli insegnamenti del cristianesimo sono di per sé contrari alla credenza nelle fate, negli elfi, negli gnomi e simili, in quanto residui della concezione pagana e naturalistica del mondo.
A nostro avviso, essi non sono contrari ad essa, ma incompatibili, non per il suo accentuato naturalismo (c'è pure un ricco filone di naturalismo cristiano, che parte da San Francesco e arriva almeno fino a Bernardino Telesio), ma per il suo animismo e potenziale politeismo, quello sì,  inconciliabile con il rigoroso monismo cristiano.
Il cristianesimo ha emancipato l'uomo dalla soggezione alla natura; e non dimentichiamo che la natura ha pure un volto terribile, non è solo praticelli e fiorellini: ma da ciò non consegue che esso abbia ispirato il disprezzo verso di essa, e meno ancora che abbia investito l'uomo del diritto di manipolarla a suo piacere. Al contrario: il disprezzo per la natura e la feroce volontà di dominarla si affermano in Occidente, storicamente, proprio quando comincia a venire meno la presa della cultura cattolica: cioè a partire dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo.
Certo, il discorso oggi non piace e, specialmente in clima di dolciastra e vaga religiosità New Age, è ormai un luogo comune dipingere la «leggenda nera» di una Chiesa cattolica la quale, ottusa e feroce, brucia sul rogo le fate insieme alle streghe, e spezza le fonti delle ninfe insieme agli ultimi altari pagani.
Si vorrebbe far credere che nei paesi anglosassoni - proprio quelli che hanno creato tutte le possibili «leggende nere» a carico del cattolicesimo, a cominciare da quella delle colonie spagnole (ma sta di fatto che in esse gli Indios sono sopravvissuti, mentre nelle colonie inglesi sono stati bellamente sterminati) - le cose andavano diversamente: e si tace che, in Scozia, ancora nel 1704 si bruciava viva una strega; e che la notte di Walpurga o i riti innominabili della chiesa sconsacrata di Blokula hanno a che fare più col satanismo moderno che con i riti pagani pre-cristiani, così come la magia di John Dee; mentre Giacomo I d'Inghilterra - il figlio di Maria Stuart - scriveva trattati sull'arte di processare e condannare a morte le streghe.
Del resto, sappiamo che sia la teosofia, sia l'antroposofia, sono fiorite nella fertile area culturale del protestantesimo, e che tanto Madame Blavatskij, quanto Rudolf Steiner, non hanno fatto altro che riprendere le antiche credenze negli esseri elementali, adattandole in salsa moderna. Oggi, basta entrare in uno di quei grandi supermercati vegetariani, dove signore e signori dell'alta borghesia   spendono somme favolose acquistando non solo cibi non trattati chimicamente, ma ogni altro possibile ammennicolo, dalle saponette profumate ed «ecologiche» ai deodoranti da appendere in automobile, per trovare, sugli scaffali dei libri di tendenza New Age, una quantità strabocchevole di volumi dedicati non solo agli spiriti della natura, ma anche agli angeli e ai demoni; e ci si renderà  conto di quanto tutto questo «tiri» sul mercato e di quanto sia ormai di moda per gente dal palato grosso e dalle facili ma pretenziose esigenze intellettuali.
Ciò detto, rimane il fatto che, con l'avvento del cristianesimo, «il gran dio Pan è morto»(la frase è di Plutarco di Cheronea) e, con lui, sono morte o sono corse a rifugiarsi nei recessi più ombrosi dei boschi anche le ninfe e tutte le piccole creature - ora graziose, ora spaventose, ma sempre capricciose e imprevedibili - che facevano parte del suo corteo.
Questo è avvenuto, non vogliamo negarlo, perché il cristianesimo è  stato portatore di un modo «serio» di considerare il mondo, abolendo ogni mediazione fra Dio, e l'uomo e vedendo nella natura null'altro che una manifestazione della divina magnificenza. L'uomo, così, è rimasto solo davanti alle proprie responsabilità di fronte a Dio: anche nei confronti della natura (oltre che di se stesso e del proprio fratello).
Deprecare che le cose siano andate così è lecito, ma abbastanza sterile. Dal punto di vista storico, quello che importa è sforzarsi di comprendere perché le cose si siano svolte in un certo modo, non intentare processi al passato.
Ma, se proprio si vogliono intentare dei processi: che dire di quella cultura «celtica» e favolistica, tanto cara a Pizzetti, che, passando per James Matthew Barrie e per l'aereo ed innocente Peter Pan nei giardini di Kenisngton, arriva fino alle astute orge consumistiche di Harry Potter, che trasudano una concezione radicalmente «non seria» della vita, ma che fruttano a qualche scrittrice da strapazzo e a pochi furbi produttori cinematografici dividendi favolosi, speculando su un bisogno del meraviglioso che, in se stesso, non è affatto biasimevole, ma che il pubblico farebbe bene a incanalare verso curiosità e aspirazioni un poco più «serie», appunto?