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La musica identitaria come via di fuga

di Luca Lionello Rimbotti - 19/05/2009

Essendo una delle poche situazioni dell’attuale società occidentale in cui si produce un reale fenomeno di aggregazione, la musica per così dire “leggera” ha raggiunto ormai da decenni il rango di soggetto con rilievo sociale. L’individuazione dei suoi canali di attivazione di risposte “consensuali” al Sistema dominante è da un pezzo allo studio degli specialisti socio-musicologi: ci si ingegna di capire il perché di certi fenomeni relativi al comportamento di massa. La definizione di “musica giovanile” per tutto l’universo degli stili che promuovono il comportamento, i modi di fare, gli immaginari dei fruitori di questi generi, riduce il problema ad un fattore sociale, ma con la sola rilevanza di un fenomeno di costume oppure di preferenza di un bene di consumo: qui sta l’errore. La musica come fattore di rilievo sociale non dovrebbe essere misurata per le sue incidenze sui dati di vendita del prodotto musicale CD-DVD o dei suoi annessi (gadgets, merchandise, concerti, stampa di settore, etc.), ma per i contenuti valoriali o contro-valoriali che veicola. L’abitudine a studiare qualcosa soltanto nel momento in cui incide sul mercato è un vecchio vizio liberalborghese. Fissi sui grandi numeri dei fatturati, il sociologo e l’analista non vedono ciò che più conta, la sostanza che muove a certi comportamenti. Tutto pertanto si riduce a elemento di tendenza oppure a semplice moda. La musica pop è il caso tipico della vittima e, al tempo stesso, artefice di questo fraintendimento, poiché essa stessa è un indice del disimpegno e della pochezza culturale da cui deriva e che a sua volta riproduce. Un altro errore grossolano è quello di considerare il comparto-musica un aspetto delle politiche giovanili. L’adulto, a quanto pare, sarebbe interessato solo ai concerti di musica classica, alle opere di Puccini, oppure al riciclaggio di canzonette da ascolto radiofonico di sottofondo. Non si prende in considerazione lo scavalcamento generazionale operato già da molto tempo da parte di certe tendenze musicali trans-generazionali.
Questa assenza di sensibilità culturale per la natura vera del valore-musica, ignorato a favore del prodotto-musica, è ricreata in primis dagli stessi programmatori delle strategie di mercato. Se pensiamo alle recentissime derive della musica appunto destinata ai soli giovani, anzi ai giovanissimi, ai teen-ager, notiamo che, ancora una volta, a farla da padrona è la fissazione di incasellare la musica tra i soggetti della divagazione e del passatempo modaiolo. Non le si affida un ruolo formativo, non le si riconosce uno spessore culturale, se non nelle ghettizzazioni effimere della sub-cultura generazionale, destinata a riprodursi nei modi imposti dal mercato. Si trova puntuale conferma di ciò nelle ultime tendenze musicali, legate oggi come mai prima alla narcotizzazione di massa a partire dai più giovani. La musica pop oggi conosce fenomeni come ad esempio i generi “Emo” o “Poser”, che sono tipiche espressioni della volontà di subornare le masse giovanili all’interno di modelli di renitenza ideologica e di conformismo a basso o quasi nullo tasso di intensità para-culturale. “Emo” e “Poser” sono generi legati soprattutto all’esteriorità: esprimono un modo di vestirsi, di atteggiarsi, di muoversi, propongono una musichetta di facile ascolto e di nessuna capacità attrattiva, al di fuori dell’impatto minimale dell’orecchiabilità. Sono modelli di conformismo e di appiattimento nell’immobilismo immaginale e nella nullificazione riflessiva. Gli adolescenti, con questa musica, vengono tacitamente invitati a starsene nella loro cameretta, circondati dagli strumenti tecnologici del disimpegno e dell’autismo sociale: magari sedativi informatici di massa di ultima generazione, come “Facebook” o MSN, che incatenano gli adolescenti all’isolamento a-sociale, e che si accompagnano alla perfezione al sottofondo di gruppi musicali come ad esempio i Tokyo Hotel. Un gruppo di ragazzini che si fanno notare per il glamour esasperato, il make-up pesante e le unghie laccate, in una loquace sintesi di ammiccamento trans-gender, nuda di opzioni forti e stracarica di rilassamento a-sociale, a-politico, a-ideologico, a-culturale. Un tale vuoto propositivo è quanto di meglio possa augurarsi il Sistema liberalcapitalistico, sicuro con queste strategie di allevare giovani mandrie docili e debitamente parcellizzate, avulse da ogni stimolo socializzante, e che in un prossimo domani saranno del tutto prone ai suoi messaggi di de-culturazione, mondializzazione e supina accettazione dei progetti di mercato.
Di fronte a questi aspetti di voluto abbassamento della soglia artistica e propositiva della musica di massa, si notano in parallelo ricorrenti fenomeni di confusione e alterazione. Uno degli aspetti più tipici del degrado della cultura occidentale è dato dalla pratica, in uso presso numerosi elementi di spicco del rock internazionale, di pestare sul redditizio pedale della “contaminazione”. In questa parola, che è divenuta un logo centrale delle ideologie globaliste, e che è il motore del procedimento di abbandono dell’identità in favore del rimescolamento, si nasconde un lucido programma di alterazione culturale. Che parte appunto dalla musica, soggetto più visibile, più di impatto, di maggiore appeal pre-alfabetizzato, e quindi più facilmente assimilabile da parte del grande pubblico affogato a forza nella dissociazione. Personaggi come Peter Gabriel, Sting o Robert Plant già da anni, abbandonato il rock vero e proprio da cui hanno spremuto tutto il ricavabile, si stanno dedicando al saccheggiamento della musica “etnica”: quando per “etnico” si intende, anzi si deve intendere “non-europeo”, alla maniera progressista, quasi che l’Europa, unica area al mondo, non abbia diritto a vedersi riconosciuta una sua dimensione “etnica”...A questi livelli, si va paradossalmente in cerca del nuovo escavando nell’arcaico e nel premoderno, curando una “fusion” eteroclita tra sonorità della tradizione popolare extra-europea e tecnologia avanzata.
Il voluto disinteresse per la cultura europea – perverso e subliminale messaggio di declassamento dell’Occidente in favore del Terzo Mondo - si accoppia alla costante ruffianeria nei confronti delle culture altre…possibilmente maghrebine, africane, mediorientali…tutto interessa e viene portato all’attenzione del pubblico, tranne la nostra tradizione…Un ritorno alla cultura musicale tradizionale è, in sé, ottima cosa, quando perseguita come promozione contraccettiva nei confronti del livellamento globale. Ma, in questi casi, si vuole sottolineare che per “cultura musicale popolare” si deve sempre e soltanto intendere “cultura musicale popolare extra-europea”, non dandosi mai il caso, in questi contesti, di una volontà di recupero di tradizioni bianche europee. In genere, la pop-star di alta classifica e di cassetta, stanca del business abituale, si concede scorribande trendy nel folklore etnico esotico, vellicando le recenti abitudini ideologiche intese a rinnegare le proprie origini etniche e a sovradimensionare e supervalorizzare quelle altrui.
Soltanto in pochi casi di storici capifila dell’Hard Rock si nota una direzione di diverso segno, nel senso di una qualche sensibilità per il rilancio delle culture musicali europee. Ad esempio, quando l’ex-leader dei Deep Purple Ritchie Blackmore – già una decina d’anni fa – abbandonò il rock per costruire un progetto di musica medievale-rinascimentale con sua moglie Candice Night, affermando a chiare lettere che l’esaurimento della vena creativa in Occidente può essere superato solo da un ritorno alle origini popolari della creatività della nostra gente, si iniziò a fare della contro-cultura in piena regola, e di ottimo livello. Così da operare davvero un intelligente e positivo rivoluzionamento dei piani di distruzione della creatività occidentale, che vanno sempre nella direzione di modelli mondializzati banali e mediocri, ma opportunamente resi appetibili dal martellamento commerciale propagandistico. Oggi il metodo di Ritchie Blackmore, cu tiene dietro un ristretto numero di artisti sulla medesima lunghezza d’onda, si è ritagliato un suo spazio, ma fortemente minoritario e ancora pionieristico. Le ballate celtiche, provenzali, del folklore europeo pre-moderno, rielaborate da Blackmore, intessute da caute ma dense intersezioni di sonorità rock, vengono messe a contatto con pezzi da Beethoven o Bach, rivisti con timbrica e approccio di modernità tecnologica. Questi sono gli intrecci che operano la “contaminazione” nel significato creativo e non distruttivo del termine. Essi sono la riprova che è possibile attuare percorsi moderni attraverso la rielaborazione di soggetti, sonorità, melodie e strumentazioni tradizionali e facenti parte del bagaglio culturale europeo, sia alto che popolare. La differenza che corre tra il lavoro portato avanti da un Peter Gabriel - che ha contribuito alla nascita di una folkmusic mondialista indifferenziata, la cui etichetta, la “Real World”, ne è il veicolo – o da un Blackmore è decisiva: da una parte si svelle e si mondializza, utilizzando materiali sonori per forza esotici e soltanto esotici; dall’altra parte si protegge, si coltiva, si riattiva un’identità prossima alla sparizione: la nostra.
Vanno in questa direzione anche alcuni tentativi di nobilitazione della musica Hard Rock e Heavy Metal, cercando di sottrarla alle demonizzazioni di solito racchiuse nella formula “satanista”, tipica di chi non conosce la materia se non per sentito dire, e formulando interessanti costruzioni ideologiche “alte”. La recente uscita del libro di Irwin William “Metallica e la filosofia” può essere un sintomo. In questo libro si studia il fenomeno del successo mondiale del gruppo heavy-metal Metallica, accostandolo a filosofemi della cultura europea, e operando un’analisi della band dal lato del “nichilismo imperfetto”, della moralità, della religione, del potere, della ribellione, tirando in ballo niente di meno che Nietzsche, Marx o Heidegger. Questa iniziativa – caso più unico che raro di affidamento alla grande distribuzione editoriale di un prodotto di qualificazione in teoria impermeabile alla linea mondialista - potrebbe essere forse intesa come un esempio di controtendenza? Si tratta, in realtà, di un caso troppo isolato. Al suo fianco ci possiamo mettere la stampa di settore della musica estrema, che ha un suo pubblico, che veicola sovente uno stretto rapporto tra Hard Rock e cultura tradizionale, ma che però è di nicchia se comparata con i grandi numeri della musica del disimpegno oppure dell’enfasi etnicista contro-europea. E’ ancora troppo poco.
I tentativi di far passare riproposte tradizionali europee – come anche nel caso della musica alternativa cosiddetta “di destra”, che attinge ai patrimoni identitari, oppure il risveglio di certa musica regionalista (pensiamo a qualla bretone) - sono del tutto sovrastati dalla generale pratica di rovesciare sul mercato internazionale tonnellate di musica di derivazione esogena, non europea e neppure occidentale, di basso profilo contenutistico, del tutto estranea a problematiche di ordine speculativo, in ogni caso esterna o addirittura apertamente ostile ad ogni valorizzzaione dei sostrati culturali-musicali di casa nostra. I casi ormai acquisiti del rap oppure della house – penetrati a fondo nella quotidianità giovanile – non temono la marginalizzazione da parte del Neo-folk oppure dell’Heavy Metal colto, ristretti a frange minoritarie, anche se consistenti, e soprattutto del tutto privati di un supporto mediatico e propagandistico adeguato. Il mercato ad alta diffusione – che premia largamente rap, house, techno, noise – punisce e/o reprime l’Heavy Metal e semplicemente ignora il Neo-folk, percependone il tasso di inadattabilità al modello di promozione della società multietnica in opposizione alla civiltà europea. Radio, stampa, televisione, programmazione da discoteca, eventi rave, tutto congiura al lancio della “contaminazione” regressiva, quella che volutamente trascura o reprime l’identità europea e innalza l’identità non-europea a cardine e paradigma del fare musica. In Italia ne abbiamo esempi in quantità. Basta pensare a band che tirano al massimo la propagazione del folklore giamaicano, caraibico, afrocubano etc., del tipo di Negrita, Modena City Ramblers, Pitura Freska, etc. Aggrappato a questo, che non è solo un business economico delle multinazionali discografiche, ma soprattutto un business politico delle multinazionali finanziarie interessate allo smantellamento delle identità forti occidentali, gravita e lucra tutto un circo post-ideologico di intonazione progressista-universalista, che provvede a fornire il necessario retroterra pseudo-culturale alla brutale pialla economica mondialista. E dire che proprio tra le maglie della musica, quando concepita come contenitore di intenso valore identitario, potrebbe essere ravvisato quel nucleo roccioso di opposizione all’egemonia economicista, col potenziamento del quale potrebbero essere agevolati un domani anche risultati di portata politica. La musica, nella sua qualità di vettore di potenti spinte irrazionalistiche, è uno dei territori più adatti su cui coltivare le qualità immaginali, creative e istintuali delle moltitudini, operando quei nessi tra identià e “psichismo collettivo”, di cui la scienza sociale e antropologica conosce da molto tempo la capacità di mutarsi improvvisamente in potenziale di rango politico. Se la morte del sacro e le involuzioni profane della religione rendono deserto il luogo in cui l’uomo formula le sue domande di assoluto e di coinvolgimento emotivo, proprio la musica – e persino ogni tipo di musica, compresa quella “leggera”, purchè con forti referenti di comunitarismo – ne potrebbe già oggi facilmente occupare le posizioni. E’ ben noto agli antropologi il legame tra la musica e il sacro, tra la musica e la mobilitazione delle coscienze, tra la musica e l’attiva promozione della volontà collettiva. Nel generale deserto di ideali e ideologie di solidarismo etnico e popolare, la via di fuga dai disastri materiali e coscienziali post-moderni potrebbe essere indicata proprio da una musica di rivolta e di chiamata a raccolta, di evocazione e di potente mitizzazione dei valori eterni di comunità. In passato, l’Europa ha già conosciuto fenomeni del genere: pensiamo soltanto a cosa significarono la musica di Verdi per la rinascita nazionale italiana o il “wagnerismo” per quella della coscienza popolare germanica, in un’epoca in cui la musica “classica” era identificata con quella popolare; oppure a quanto spesso il recupero della musica folk tradizionale ha coinciso con la volontà politica di risvegliarsi da parte di gruppi etnici repressi o in forte crisi identitaria, come accadde in Spagna, Russia, Irlanda.