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Prepariamoci a un secolo di pandemie virali

di Johann Hari * - 15/03/2006

Fonte: Nuovi Mondi Media

 


Il prossimo secolo sarà tormentato dalle pandemie, grazie all’habitat virus-friendly che abbiamo creato sul pianeta. Vogliamo davvero lasciare il nostro destino nelle mani insanguinate delle multinazionali del farmaco disposte “a veder letteralmente morire milioni di persone piuttosto che veder calare i loro profitti”?

Nell’iperprotetto, ipersicuro Occidente, c’è un gioco al quale giochiamo in modo ossessivo, e che finisce sempre male – il Risiko. Viviamo vite più lunghe e più sane rispetto a qualsiasi altra generazione che ci ha preceduto, ma siamo ossessionati da rischi statisticamente insignificanti, dai pedofili nascosti nei cespugli fino alla BSE nascosta nei nostri hamburger. In qualche modo, i reali rischi alla nostra salute, come ad esempio la destabilizzazione del clima del pianeta – si disperdono in mezzo a questa sfilata di spauracchi.

Quando ho iniziato a fare le mie ricerche sull’influenza aviaria, pensavo che il vero pericolo non fosse una pandemia, ma una panicodemia. Il professore David King, direttore degli scienziati britannici, insisteva sul fatto che i britannici hanno una probabilità di vincere la lotteria 7 volte maggiore di quella di contrarre il virus H5N1. E’ un comportamento da folli quello di mangiare meno pollo, visto che l’influenza aviaria è una malattia respiratoria e – a meno che qualcosa non sia andato terribilmente storto – il tuo pollo KFC (Kentucky Fried Chicken, NdT) non respira. Ma più andavo in profondità, intervistando esperti e leggendo documenti scientifici, più mi rendevo conto che questo era uno di quei rari attacchi di panico con motivazioni autentiche alle spalle. Mi hanno spinto a guardare indietro fino al triste anno del 1918, quando in sole 24 settimane una forma virulenta di influenza si diffuse in tutto il mondo e fece tra i 40 e i 100milioni di vittime.

Ma ho sospirato e ho detto – perché preoccuparsi di questo? Gli esseri umani non hanno controllo sui virus. Sono eventi biologici naturali. Potrei allo stesso modo preoccuparmi della caduta degli asteroidi sul pianeta. Anche se gli esperti dicono che siamo impreparati a un’emergenza del genere, noi che possiamo farci?

Ma gradualmente è stato sempre più chiaro che questa compiacenza era basata su un equivoco. I virus vivono e muoiono in circostanze controllate dagli uomini – e, nelle decadi passate, abbiamo involontariamente trasformato il mondo in un paradiso per i virus, un luogo dove essi possono svilupparsi, moltiplicarsi, e divorarci meglio che in ogni epoca precedente.

Il primo cambiamento che abbiamo fatto nella direzione di un’ecologia accogliente per i virus è l’incredibile interconnessione del mondo. Un singolo dottore in un singolo giorno di un singolo piano di un hotel di Hong Kong è stato capace di diffondere la Sars a Singapore, in Vietnam, Canada, Irlanda e gli Usa senza andare da nessuna parte, semplicemente tossendo e sputacchiando all’ingresso dell’hotel. Mentre il virus del 1918 ci mise mesi per diffondersi lentamente in tutto il mondo – diventando via via sempre più debole – oggi la forma più virulenta di un virus può essere trasportata in tempo reale in ogni continente prima ancora che ne conosciamo l’esistenza. Il mondo non è diventato più piccolo solo per le email e per il turismo – lo è diventato anche per i virus.

Il secondo cambiamento consiste nell’improvvisa concentrazione di un vasto numero di animali e di persone nei medesimi luoghi, che rappresentano una vera e propria piscina confortevole per i virus. Guardiamo la situazione degli animali prima di tutto. Negli ultimi venti anni, il mondo intero, dalla Tailandia all’India ha adottato il modello di produzione del pollame predicata dai magnati del pollo dell’Arizona, i Tyson. Ovvero, stipare insieme una concentrazione senza precedenti di polli in enormi magazzini. Il risultato? I virus, che normalmente si autolimiterebbero – passerebbero attraverso un piccolo stormo di uccelli e poi morirebbero – in queste condizioni non abbandonano mai i loro ospiti. Come dice il virologo Richard Webby “Stiamo cavalcando l’evoluzione a briglia sciolta”.

Il professore
Mike Davis ha mostrato come la zootecnia abbia accelerato l’evoluzione del virus dell’aviaria – e ha persino fornito evidenze che suggeriscono che l’influenza è nata nelle immense catene di produzione di polli della Tailandia. Discorso simile vale per le persone: più di un miliardo di esseri umani sono adesso concentrati in immense bidonville in giro per il mondo, tanto per esser sicuri che non venga lasciato indietro nessun virus.

Basta soltanto che alcuni aminoacidi mutino, nelle industrie zootecniche o nelle suddette bidonville, perché l’influenza aviaria diventi trasmissibile da uomo a uomo, in perfetto stile-1918. Dopodiché le probabilità di vincere alla lotteria citate dal signor David King diminuiscono drammaticamente. Alcuni scienziati pensano che ciò sia “inevitabile”, altri “improbabile” – ma tutti concordano sul fatto che se anche riusciamo a evitare una variante umana dell’influenza aviaria per questa volta, ci attende un ventunesimo secolo tormentato dalle pandemie, e tutto grazie all’habitat virus-friendly che abbiamo creato sul pianeta.

Alla mia disperata domanda “cosa possiamo fare?” mi sono reso conto che ci sono veramente solo poche risposte dettagliate. A lungo termine, viene fuori che le cose moralmente giuste da fare sono anche le soluzioni migliori per la salvezza dell’umanità. E’ da sempre risaputo che fosse immorale produrre carne di pollo in condizioni disgustose e lasciare un miliardo di esseri umani a marcire nelle baraccopoli. Adesso sappiamo che è eliminare queste fabbriche di virus è anche una questione di sicurezza nazionale.

Persino più importante, la crisi dell’influenza aviaria dovrebbe ricordarci – come un forte schiaffo in faccia – che gli unici mezzi che abbiamo per proteggerci da questi nuovi virus sono nelle mani di multinazionali private, che naturalmente pongono il loro diritto di fare profitti al di sopra del diritto degli esseri umani di sopravvivere.

Il Tamiflu è l’unico modo che abbiamo per proteggerci contro un’epidemia di influenza aviaria. È un antivirale sviluppato in un ospedale americano finanziato dalle tasse dei contribuenti, dopodiché perfezionato in una piccola casa farmaceutica della California, ma adesso controllato da una multinazionale da 20 miliardi di dollari l’anno, la Roche. La quale ha insistito sul suo diritto unico al farmaco, non importa quanto siano urgenti i bisogni delle altre nazioni. Solo dopo forti pressioni, la casa ha acconsentito a cedere ad alcune piccole compagnie il brevetto (dietro lauto compenso, ovviamente). Taiwan, in stato di disperazione, ha iniziato a produrre la sua versione generica – e probabilmente dovrà affrontare sanzioni legali da parte del World Trade Organisation per avere commesso il peccato di mettere i suoi cittadini davanti alle leggi sulla proprietà intellettuale.

Lo scandalo dell’AIDS in Africa e in Sudamerica ha già dimostrato quanto i produttori di farmaci siano disposti – come la mette il direttore di The Lancet, Richard Horton – “a veder letteralmente morire milioni di persone…piuttosto che vedere calare i loro profitti.” Persino l’accordo sottoscritto all’ONU lo scorso anno, che avrebbe dovuto permettere alle nazioni in via di sviluppo di produrre imitazioni a basso costo di farmaci per l’AIDS a favore delle loro popolazioni, sta subendo resistenze da “Big Pharma” (nomignolo che indica le multinazionali del farmaco, NdT): essa pretende che paesi praticamente privi di infrastrutture “dimostrino” di non voler vendere i farmaci ad altre nazioni che non sono in grado di produrli. (Cosa sono un po’ neri che crepano, quando ci sono gli azionisti da proteggere?)

Vogliamo davvero entrare in un secolo infestato di epidemie con gli antivirali, nostre ancore di salvezza, nelle mani insanguinate delle multinazionali farmaceutiche – le quali, davanti alla tragedia africana, si sono semplicemente sedute a guardare, impedendo che fossero prodotti dei farmaci salva-vita (chiamatelo Farmageddon)? O è forse arrivato il momento di smantellare l’ossequioso sistema del WTO e costruirne uno alternativo, basato sullo spirito di Jonas Salk – colui che inventò il vaccino per la poliomielite ma che si rifiutò di brevettarlo, perché sarebbe stato come “brevettare il sole?” Allora potremmo dire che – per una volta – il nostro interminabile Risiko si è imbattuto in qualcosa che conta davvero.

 

Sul tema Nuovi Mondi Media quest'anno ha pubblicato 'Influenza aviaria. Scienza e storia di una possibile emergenza', di Mike Davis.

 

 

 

Fonte: http://www.independent.co.uk/
Tradotto da Alessandro Siclari per Nuovi Mondi Media

*The Independent)