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«Medico, cura te stesso»

di Paul Ricoeur - 16/03/2006

Fonte: Avvenire

 

Dalla deontologia alla fiducia del paziente: il grande filosofo scomparso lo scorso anno riflette sulle questioni bioetiche della salute

 

Partiamo dal conflitto potenziale implicato nella dualità di interessi di cui si fa carico l'arte medica: l'interesse della persona e quello della società. V'è qui sotteso un conflitto tra più filosofie, rappresentativo di quella che potrebbe chiamarsi l'intera storia della sollecitudine. Il giudizio prudenziale conserva il meglio della riflessione greca sulle virtù proprie di pratiche determinate: affermare che questo è un medico, significa definirne le eccellenze, le «virtù» che ne fanno un buon medico. Il giuramento di Ippocrate continua a vincolare il medico d'oggi. Ed è la phronesis dei tragici greci e dell'etica di Aristotele a perpetuarsi nella concezione latina e medievale della prudenza. È al cristianesimo e ad Agostino che noi dobbiamo il senso della persona insostituibile. Ma ecco lo spirito dei Lumi riprendere lo stesso tema nel discorso dell'autonomia. E come non richiamare la storia della casuistica propria della tradizione talmudica, prima di evocare la sottigliezza dei Gesuiti? Si pensi solamente a nostri sofisticati dibattiti sull'embrione, «persona potenziale», e alle situazioni-limite nelle quali i trattamenti dei malati terminali oscillano tra l'accanimento terapeutico, l'eutanasia attiva o passiva, e il suicidio assistito!
Il compendio di storia delle idee morali sedimentato nelle formule lapidarie, e talvolta ambigue, dei nostri codici non si ferma qui. La pressione esercitata dalla scienza biomedica e dalle neuroscienze procede da un approccio razionalista, perfino materialista, la cui genealogia risale a Bacone, Hobbes, Diderot e D'Alembert. E come ignorare l'influenza, particolarmente percepibile nel mondo anglosassone, di varie forme di utilitarismo, esemplificate da massime quali la ottimizzazione dei Qalys (acronimo di Quality adjusted life years)? Tocchiamo un punto dove l'etica medica si risolve nella bioetica, con la sua dimensione legale. Infatti, i compromessi mirano ad appianare i conflit ti, nascenti lungo le due frontiere delle scienze biomediche e della socializzazione della sanità, in nome della solidarietà, espressione essa stessa di compromessi non più tra norme, ma tra fonti morali, nel senso usato da Charles Taylor in Sources of the Self. Non si dovrebbe rimproverare ai codici di deontologia di non dire niente su queste fonti morali: esse non sono mute, ma non è più nel campo della deontologia che si esprimono. Il non-detto, qui emerso, è più radicale.
In gioco, alla fine, è la nozione stessa di salute, sia essa privata o pubblica — ed essa non è separabile da quel che pensiamo, o tentiamo di pensare, riguardo ai rapporti tra la vita e la morte, la nascita e la sofferenza, la sessualità e l'identità, il sé e l'altro. Come superando una soglia, qui la deontologia si innesta su una antropologia filosofica, la quale non potrebbe sfuggire al pluralismo di convinzioni in una società democratica. Se i nostri codici possono tuttavia, senza esplicitare le loro fonti, dare fiducia allo spirito di compromesso, è perché le stesse società democratiche sopravvivono, sul piano morale, sulla base di ciò che John Rawls chiama «consenso per intersezione» e che egli completa con il concetto di «disaccordi ragionevoli». La seconda considerazione riguarda la fragilità specifica dell'etica medica. Fragilità che si esprime in termini differenti, ma coinvolgenti, ai tre livelli dell'etica medica. Sul piano prudenziale questa fragilità risulta espressa dalla dialettica di fiducia e diffidenza che rende precario il patto di cura e il suo precetto di riservatezza. Una fragilità comparabile, dove s'incontrano giudizio prudenziale e giudizio deontologico, investe i tre precetti che concludono la prima fase della nostra ricerca. Si tratti dell'insostituibilità delle persone, della loro indivisibilità (o, come propongo di dire, della loro integralità), o, infine, della stima di sé: ognuna di queste richieste designa una vulnerabilità progressiva del giudiz io medico al livello prudenziale.
Sul piano deontologico l'etica medica è esposta a un'altra fragilità, espressa dalla doppia minaccia che pesa sulla pratica «umanista» del contratto medico: si tratti dell'inevitabile oggettivazione del corpo umano dovuta all'interferenza tra il progetto terapeutico e quello epistemico legato alla ricerca biomedica, o delle tensioni tra sollecitudine rivolta al malato in quanto persona e protezione da parte della sanità pubblica. La funzione arbitrale, riconosciuta al giudizio medico nella sua fase deontologica, appare in tal modo fondamentalmente motivata dalle fragilità proprie di questo livello normativo del giudizio. Ma, è evidente, le forme di fragilità, proprie dell'etica medica, più difficili da affrontare si rivelano sul piano riflessivo del giudizio morale.
Che legame poniamo tra la domanda di salute e l'auspicio di vivere bene? Come integriamo la sofferenza e l'accettazione della mortalità con la nostra idea della felicità? Come può una società integrare, nella propria concezione del bene comune, gli strati eterogenei sedimentati nella cultura dalla storia della sollecitudine? L'ultima fragilità dell'etica medica insorge dalla struttura consensuale/conflittuale delle «fonti» della moralità comune. I compromessi, sopra individuati con le nozioni di «consenso per intersezione» e di «disaccordi ragionevoli», costituiscono le sole risposte a disposizione delle società democratiche per far fronte all'eterogeneità delle fonti della morale comune.