Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Perché la Geofilosofia

Perché la Geofilosofia

di Luigi Ranzani - 16/03/2006

Fonte: geofilosofia.it

 

Introduzione

Se sovente la filosofia si risolve nella prestazione anodina ed accademicamente irreprensibile di un’intelligenza estranea alle implicazioni estetiche e simboliche della ragione – frettolosamente giudicate irrazionalistiche e sentimentali e quindi condannate come inadeguate per una lettura ‘disincantata’ della realtà – la prospettiva geofilosofica si propone, invece, come quel sapere ampliato e transdisciplinare impegnato a raccogliere e confrontare prospettive di diversa provenienza (geografia, filosofia, urbanistica, archeologia, antropologia, storia dell’arte, storia delle religioni…). Di là dalle settorializzazioni di mestiere, essa cerca sia di cogliere la profonda connessione che lega questioni tra loro solo apparentemente distanti, sia di rispondere alle domande epocali che, sempre più urgentemente l’abitare con la Terra, in una prospettiva globale, pone. Per un tale temperamento filosofico la Terra diventa il luogo dove l’uomo può ancora farsi interpellare da un destino di coappartenenza che reclama consapevolezza e decisione di contro allo svanire di un’esperienza sempre più rapidamente assorbita dalla logica evanescente, fascinosa ed ipnotica della simulacrità. Compito e sfida di un pensiero “radicale” è, allora, riguadagnare la consapevolezza di cosa possa ancora voler dire riconoscersi come esseri terrestri ed appartenere ad una Terra e, da questa presa di posizione, reimmaginare un pensiero più generoso e riconoscente verso la propria finitezza terranea, in grado di tradurre l’apparente negatività di questa situazione, limitata e condizionata, in occasione di ricchezza immaginativa e di impegno intellettuale.

Certamente interrogare radicalmente il nesso uomo-Terra esige un pensiero dalla prospettiva unitaria e riassuntiva ma che, non per questo rifiuta, ma anzi favorisce ed incrementa, la declinazione e l’interrelazione disciplinare. Se, cioè, la questione sui cui riflettere è una, essa coinvolge e mobilita in sé una pluralità di temi che, pur pensati insieme e sinotticamente, dovranno necessariamente spaziare ed espandersi dialogando tra loro badando, però, a non dimenticarsi del comune riferimento intenzionale rappresentato dalla Terra. Ad esempio, il pensiero della Terra può intrecciarsi sia con la dialettica (filosofica, geografica, politologica) tra l’appartenenza locale e l’organizzazione globale della tecnica, sia con la preoccupazione (ecologica, estetica, urbanistica) conservativa delle specificità paesaggistiche, arrivando fino ad accogliere quelle domande di senso scaturite dalla emergenza di una rinvigorita – e confusa – esigenza di spiritualità. Altrimenti detto, la geofilosofia vuole essere un sapere eterodosso epocalmente impegnato in un difficile e rischioso transito verso un radicale ed inedito ripensamento dell’abitare dell’uomo sulla Terra.

E infatti, la geofilosofia interroga la modernità e il suo paesaggio a partire proprio da questa consapevolezza: che pensare sia un esercizio spazio/temporale d’orientamento rispetto alla complessità stratigrafica e simbolica di quei luoghi (città, paesaggi, cosmo) che affidano la propria sopravvivenza e significanza alla capacità umana di riconoscerne, tutelarne e reinventarne la delicata identità. Se la posta in gioco del pensare geofilosofico sta tutta nella possibilità di ritrovare e rilanciare una continuità ed una comunità tra quanto, nei luoghi, si è accumulato ed è stato tramandato come senso oggettivo, condiviso e riconoscibile (la bellezza ‘naturale’, ad esempio, contestualmente, però, alle conoscenze ed alle pratiche che ne consentivano la perduranza dell’abitabilità), allora la sua mossa iniziale deve necessariamente decostruire l’ideologia antropocentrica. Il che vuol arricchire di dimensioni inattuali (simboliche, memoriali, religiose) quell’investimento antropocentrico di senso, analitico e circoscritto a criteri d’immediata utilità, che anima l’omologazione distruttiva della tecnica verso tutto ciò che è singolare, individualizzato e non totalmente umano come, appunto, il paesaggio, la cui inconfondibile fisionomia non è mai un dato naturale acquisito ed oggettivabile dalla scienza ma il risultato simbolico di un colloquio identificante tra i significati culturali e le forme della natura (1).

Conseguentemente a questo rovesciamento di prospettiva, la Terra non potrà più essere rappresentata attraverso il filtro della ragione calcolante e strumentale, non sopportando di essere ridotta ad un aggregato di materia quantitativamente descrivibile ed arbitrariamente trasformabile dalla volontà fattiva dell’uomo, prescindendo dalla particolarità delle sue forme e dei suoi caratteri insostituibili ed irripetibili. Tantomeno, questa Terra, sarà contemplabile come lo schermo passivo ed indifferente animato dalle proiezioni e dalle aspettative dei gusti e delle poetiche storicamente determinate; né potrà essere considerata un puro “fondo a disposizione” – un Bestand, secondo la definizione di Heidegger (2) – al pari di un immenso serbatoio d’energia infinitamente disponibile al soddisfacimento degli appetiti della tecno-organizzazione moderna.


L’orizzonte epocale della Tecnica

Collocarsi all’interno dell’orizzonte epocale, vuol dire, per un pensiero geofilosofico, interpretare l’epoca moderna come epoca dominata dalla Tecnica e dal suo correlato metafisico: il pensiero rappresentativo ed oggettivante con il quale il soggetto assoggetta tutto l’esistente a misura delle proprie leggi universali e trascendentali (4). Sarebbe dunque ingenuo considerare questa interpretazione radicale della Tecnica come un sintomatico fastidio intellettuale antimoderno e regressivo, poiché lo stile di pensiero che appartiene alla performatività tecnica ci dice qualcosa d’essenziale intorno alla verità del nostro essere, qui e ora, abitanti della Terra, portando a massima espressione il carattere intrinsecamente distruttivo e nichilistico dell’Occidente.

Se per il pensiero tecnico ciascun ente, inteso come ciò che esiste nella propria individualità ultima, non è niente al di fuori dell’immagine che il soggetto se ne fa, ebbene ciò non rimane un assunto teorico senza conseguenze, poiché da questo presupposto si produce simbolicamente e concretamente una brutale riduzione della molteplicità differenziata delle cose ad un unico e indiscutibile denominatore comune rappresentato dalla capacità effettiva di dominio, di trasformazione e annientamento planetariamente estesa alla natura come alle culture e civiltà (2). Se è vero che ogni civiltà, pena la propria estinzione spirituale, non può evitare il confronto, a volte anche tragico, con la prepotenza della natura e con l’alterità di altre civiltà, è solo quella Occidentale moderna, animata da un’infinita libertà negativa assolutamente insofferente verso ogni distanza, limitazione e vincolo di appartenenza, ad aver trasformato la relazione con l’altro, sia esso l’animale da macello o la zanzara fastidiosa, l’equilibrio delle relazioni planetarie oppure lo straniero, in un processo di unificazione indiscriminata, illimitata ed onnipervasiva, tendenzialmente finalizzata alla totale assimilazione del diverso alla logica del proprio e dell’identico (5).

La diffusione universale del paradigma e del modus vivendi tecnico-scientifico si fonda, allora, sulla considerazione che il pensiero e tutti gesti che accompagnano e danno forma all’abitare umano sulla terra, siano assolutamente privi di una significatività simbolica autonoma e differenziata, per qualità essenziale, dalla semantica performativa ed effettuale della prassi tecnica. Ciò vuol dire che l’affermazione incontrastata di un’umanità tecnica ha dovuto preventivamente operare una scissione radicale da quel sentimento di appartenenza e di consonanza profonda alla natura propria, ad esempio, di quelle culture religiosamente legate ad un orizzonte esistenziale che si prolungava, completandosi, in una dimensione invisibile che era la scaturigine prima dello stupore e della venerazione, della conoscenza e del ringraziamento. Senza questa decisione dalla vicinanza affettiva e religiosa alla natura, inscindibilmente legata alla percezione, al riconoscimento e al rispetto di un limite non tracciato dalla sola mano umana, sarebbe difatti impossibile comprendere l’ascesa e la diffusione irresistibile del dominio astratto sulla vita e sulle forme della natura.

Si capisce allora come l’adesione universale all’efficacia emancipativa della ragione tecnica debba scontare, anche se per lo più inconsapevolmente, gli effetti degenerativi dovuti alla preclusione di ogni probabile e “spontaneo” rapporto, spiritualmente significativo ed intellettualmente vivificante, con la natura e con il divino. È allora la razionalità disponente e la violenza del dominio, troppo spesso imposto dalla logica autoreferenziale della realizzazione indefinita, che sostituisce l’orizzonte condivisibile del ‘senso comune’ con il destino univoco di un’umanità infinitamente angosciata dalla propria solitudine ma sempre più potente e dinamica nei confronti di una natura ritornata paurosamente muta ed indifferente. Potremmo anche dire che la misurazione precisa della ragione astratta ha perso la misura umana dell’accoglienza, della compassione e dell’amore verso tutto ciò che, vivendo, intreccia il suo destino con altri destini. Infatti, l’essenziale disconoscimento di un’alterità capace di rispondere e correlarsi in legami significativi con la vicenda umana, porta con sé, oltre all’aumento della padroneggiabilità tecnica, l’effetto, altrettanto invincibile, del rapido inaridimento simbolico dell’anima (6).

Come si può intuire, sulla scorta di una tradizione filosofica che si rifà alla crisi del pensiero idealista ed al tramonto del primato del razionalismo soggettivistico – da Nietzsche e Spengler a Heidegger, da Schmitt a Jünger – l’assunzione della Tecnica quale peculiare tratto caratterizzante l’essenza del pensiero e dell’agire moderno, si discosta da tutte quelle interpretazioni “deboli” che fanno della Tecnica, non un modalità di rappresentazione del mondo totalizzante ed uniformizzante ma, un po’ frettolosamente, un qualsiasi insieme neutrale di strumenti al servizio della prassi storica, riconsiderandone la portata epocale.

Il senso del paesaggio

All’interno di questa ricostruzione, nell’assunzione disincantata e priva di ripiegamenti nostalgici riguardo alla irreversibilità della situazione epocale, ma altrettanto convinta della necessità di una svolta e di un nuovo inizio per ripensare l’abitare, il sapere geofilosofico attribuisce un’inedita dignità teorica ed un’importanza strategica decisiva ad una “regione” ontologica – il paesaggio – da sempre confinata, ingiustamente e sottovalutandone le attualissime implicazioni (l’incontro delle culture, l’appartenenza territoriale, la salvaguardia delle identità culturali e geografiche), nell’ambito ristretto delle discipline estetiche, della storia dell’arte e della descrizione geografica.

Riconsiderare l’assoluta dignità estetica ed ontologica del paesaggio, che deve introdurre alla sua traduzione in oggetto di studio, di preservazione e di cura, è possibile solo se il paesaggio viene osservato come quella dimensione culturale intermedia dove si dà a vedere la profonda interrelazione, l’assecondamento e l’avvicendamento tra naturalità e umanità. Il riconoscimento della coappartenenza di uomo e natura, significa che l’uomo si pensa nel riconoscimento filiale in un orizzonte più ampio di quello semplicemente umano: la natura e il cosmo ricordano costantemente all’uomo, per figure, enigmi e immagini, il suo legame e il suo partecipare ad un divenire metamorfico che unisce la molteplicità delle manifestazioni naturali alla prassi storica; un fare umano, quest’ultimo, che non si produce né ha compimento in una progettazione estranea al contesto immaginale delle forme naturali, ma che è già da sempre investita e costitutivamente esposta ai significati sorti dalla fecondazione reciproca di immaginazioni differenti (l’immaginazione architettonica che ha “inventato” lo stile gotico non potrebbe darsi senza l’immagine simbolica della montagna quale luogo di elevazione e fuga nell’invisibilità di un Dio irraggiungibile) (7).

Si tratta di fare attenzione, allora, ai valori stilistici espressi dal paesaggio che, se opportunamente avvertiti come irrinunciabili per la costituzione identitaria dei luoghi e delle comunità che vi risiedono, ne permettono il mantenimento sia dell’aspetto fisico, estetico ed ecologico, sia di quello simbolico. Tutto ciò dovrebbe poi tradursi anche visivamente nella conformazione del territorio e negli specifici modi che una comunità ha di insediarsi, dando luogo a quella caratteristica impronta del suo abitare impressa e riconoscibile nei segni piò o meno evidenti del paesaggio. I luoghi geofilosoficamente intesi sono, quindi, una fisionomica delle comunità e delle civiltà.

In questo, il senso del paesaggio, esprimendo in un’intrinseca simbolicità il prodotto d’un incontro fecondo ed esteticamente riuscito tra uomo e natura, dovrebbe riuscire a correggere l’abitudine ideologica fondata sull’indiscussa centralità del soggetto umano per la quale, tra uomo e natura, non si darebbe altro rapporto che quello consumato nella continua reificazione di una contrapposizione insanabile. I paesaggi ben riusciti e conservati danno a vedere, in ultimo, come la Terra non sia limite negativo della libertà dell’uomo, ma l’orizzonte di alterità positiva in grado di accogliere i significati singolari e inconfondibili, fisicamente comunicati da culture storicamente e geograficamente differenti, ridettandoli poi in tipologie significativamente sature, tali per cui andranno “guardate” e vissute come le oggettivazioni di una dinamica relazionale accurata ed accorta, con le quali confrontarsi e commisurasi senza la pretesa di comprenderne la genealogia ed il destino gettandovi sopra uno sguardo immediato e senza memoria, tutto animato dalla protervia novatrice dell’efficacia e dal procedere anodino della pianificazione astratta: “In realtà, il paesaggio è sempre l’indice del grado di realizzazione della cultura di una comunità con un luogo naturale e le sue possibilità” (8).

Se però questo è vero, e quindi non c’è modo di pensare uomo e natura ‘fuori’ dal rispecchiamento avvenuto nel luogo del paesaggio, è anche ovvio come non possa più esserci domanda accorta e risposta fruttuosa intorno alla questione della Terra senza la consapevolezza che la Terra andrà considerata, ogni volta, come l’espressione singolare di un paesaggio definito e caratterizzato dalla coappartenenza di entrambi gli attori. Ciò vuol dire che ogni interpretazione del paesaggio dovrà considerare responsabilmente come ogni intervento insediativo e trasformativo si intrecci imprevedibilmente con una naturalità che non è mai data anonimamente all’uomo come elementare ed insignificante ma si offre già, essa stessa, come portatrice di un senso, di un’anima e di un’espressività caratterizzante (9). Di conseguenza, i saperi che con le proprie pratiche specifiche interverranno a determinare le dinamiche territoriali, dovranno necessariamente rinunciare all’esercizio autonomo del proprio potere fondato ed assicurato dalla legalità puramente razionale del progetto, mentre potranno concorrere a interpretare, a conservare e infine a plasmare l’insieme articolato degli elementi di permanenza e di variazione necessariamente presenti – pena la sua mummificazione – in ogni situazione paesaggistica vivente ed abitata.

Ed è proprio attraverso il riconoscimento della natura come luogo di intrinseca possibilità simbolica ed espressiva che, a livello teorico, ci si vuole distanziare dall’abitudine a guardare il paesaggio con gli strumenti cognitivi di un’estetica tradizionale ancora troppo disciplinata dal primato emotivo di un soggetto effusivo e non educato all’oggettività morfologica e normativa della natura. Se a prevalere è questa disposizione a vivere il paesaggio come riflesso del sentimento soggettivo, intimo e privato, allora sempre più difficile sarà cogliere quell’immagine ‘stilistica’ del paesaggio che non è una mera proiezione di stati d’animo, bensì corrisponde ad un contenuto dell’esperienza cui si può accedere solo nell’estensione sinestetica del mondo esteriore, seguendo un metodo contemplativo appropriato ed attento, essenzialmente educato al riconoscimento ed al rispetto per ciò che è stato tramandato: dalla morfologia complessiva di un luogo, al tracciato delle strade, dalle tipologie insediative alla scelta dei materiali, dall’orizzonte percettivo alla qualità della vivibilità.

Si tratta, infatti, di una decisione necessaria ed imprescindibile poiché, senza un’espansione dello sguardo che accolga ed eserciti altri saperi in grado di leggere i luoghi oltre la chiusura intimistica dello spettatore-esteta la specificità e la singolarità del paesaggio, inteso come luogo di sedimentazione stratificata ma sorprendentemente interpellante – come è dimostrato continuamente dall’archeologia: la Terra conserva e dona il “rimosso” delle civiltà – rischiano l’annullamento delle condizioni intrinseche di intelligibilità: “La questione del paesaggio, se compresa in tutta la sua portata, non può essere limitata al solo problema dell’identità estetica dei luoghi, pena il ritrovarsi privi degli strumenti per comprendere i motivi per cui oggi il paesaggio si trova a repentaglio” (10). Soprattutto per chi, come il moderno uomo occidentale, è il protagonista della distruzione dei paesaggi e dell’azzeramento delle specificità territoriali, diventa rovinoso risolvere il proprio orizzonte terrestre in una proiezione di significati perfettamente, ma illusoriamente, individuali, quindi elusivi della questione epocale ed inconsapevoli che ogni percezione avviene in una contestualità che ne determina certe scelte ed inclinazioni precludendone altre, e forse, più essenziali.

Da ultimo occorre, sulla scorta di queste premesse, interrogare la Terra a partire da un’interpretazione complessa e sfaccettata del paesaggio, ben sapendo che questa operazione di ricalibratura della mira teorica va nella direzione opposta rispetto a qualsiasi consolatorio “vagheggiamento nostalgico” verso un’armonia perduta o verso un altrettanto vano inabissamento in una natura elementarizzata e coercitivamente rimitizzata secondo criteri che rispondono, inconsapevolmente o meno, alle sempre più impellenti domande per un’immediata disponibilità di “sacro naturale”: domande e soluzioni che poi, a ben vedere, sono complementari alla volontà generale e diffusa (degli sportivi, dei turisti, della scienza) di accedere in modo rapido, inconsapevole e deculturalizzato alla consumazione fisica, al godimento estetico, alla chiarificazione trascendentale della bellezza naturale: “Oltre la funzione dello sguardo, c’è il luogo in tutta la sua realtà complessa e sedimentata di creazione e trasformazione culturale di lunga durata, sito di insediamento nel tempo di una comunità con i suoi simboli, le sue tradizioni, ritmi temporali, modalità dell’abitare e del coltivare, dell’aver cura e dell’abbellire, del dissipare e del tramandare: una realtà per cogliere la quale il solo registro estetico è troppo incentrato sul polo del soggetto contemplante” (11).

 

Un altro abitare

Queste considerazioni sulla specificità teorica del paesaggio dovrebbero servire per inquadrare il tema favorendone una comprensione allargata alla situazione epocale in cui l’uniformizzazione anonima della Terra per mano della Tecnica ha devastato in profondità lo specifico nomos dei luoghi, facendo scempio dei paesaggi in cui si è affermata la ricchezza simbolica ed affermativa delle culture. Studiare geofilosoficamente il paesaggio vuol dire, anzitutto, capire come in una configurazione territoriale determinata si depositi un patrimonio di identità, di culture e di memorie che sole rendono possibile un senso d’appartenenza e di progettualità localmente situata, e quindi temporalmente traducibile in forme di trasmissione, di memoria, continuità, riforma e conservazione. Di fronte alla logica globalizzante, in cui ogni esistenza singolare e differenziata dei luoghi e delle culture viene avvertita immediatamente come un ostacolo ostile al livellamento indifferentemente agito della Tecnica, l’insistenza sul bisogno di riconoscere ai luoghi uno statuto estetico e simbolico, definito e delimitato, è doverosa: prima di tutto perché, attraverso la tutela dei luoghi culturali si conserva la speranza nella possibilità che gli individui progettino la propria identità relativa arricchendola della gratitudine verso luoghi e comunità che, pur anche conflittualmente, donano senso ed esperienza. Se ogni cultura, nella diacronia del suo sviluppo contrae un debito inestinguibile con il paesaggio e con la sua lingua formale, raccogliendola e ritrascrivendola in un universo simbolico e stilistico, è evidente che l’interruzione e la cesura di un equilibrato rapporto interlocutorio con l’ambiente e con la fisionomia del luogo, non costituisce più un motivo di preoccupazione marginalmente conservazionista, ma concerne le stesse condizioni di possibilità di costruzione del senso e quindi della dialettica identitaria e culturale.

È poi del resto inevitabile – e salutare – per ogni identificazione identitaria che non sia omologata all’esperienza del mondo informata dalla Tecnica e caratterizzata, quindi, dalla rapidità del consumo, dalla velocità degli spostamenti, dall’inconsistenza atopica dei vissuti personali, dalla simulacrità evanescente dei messaggi e dei contenuti, costituirsi relativamente sia ad altre culture sia allo stesso orizzonte epocale. Si tratterà, allora, di pensare l’identità che passa attraverso la funzione identificante dei luoghi non come un processo di naturalizzazione da opporre astrattamente all’artificiosità del mondo tecno-economico ed alla sua deriva nichilistica, dissolvente e deculturalizzante, ma di comprendere entrambi le condizioni dandone una rappresentazione metamorfica e plastica, mai determinata e sempre rinviabile nel risultato, in cui la molteplicità delle differenze e l’unificazione tecnica non fuggano il confronto ma lo affrontino affermando comunemente la necessità e la priorità dell’abitare rispetto ad altre pratiche che da questa dipendono radicalmente: “Occorre rovesciare l’ottica corrente: anziché partire dalla presunta immodificabilità delle tendenze all’omologazione anche sul piano della gestione degli spazi dell’economia globale, di fronte alle quali non ci sarebbe salvezza, assumere la specificità locale come quell’insieme di simbolicità, territorialità, qualità estetiche e comunitarie che dettano i modi, al misura e tempi della dimensione economica, in continuità con i tratti identificanti della memoria territoriale, con la singolare fisionomia simbolica del paesaggio culturale che vi si esprime” (12).

Se va rifiutata con forza l’ipotesi regressiva con la quale si è sciaguratamente cercato, e ancor si va cercando, di naturalizzare l’identità culturale azzerandone le dinamiche costruttive e conflittuali nella totalità di un dato aprioristico, stabilizzato, isolato ed immobile, non per questo ci è permesso assecondare il movimento destrutturante e caotico che, partorito dal matrimonio ideologico tra gli ultimi eredi del cosmopolitismo illuministico e l’empietà disincantata della performatività tecnica, pretende (s’illude) di annullare ogni conflittualità sacrificando le ragioni di un’appartenenza necessaria all’idolatria utopica della mondializzazione indefinita e della sradicatezza irreversibile. È, quindi, ancora di nuovo lo statuto estetico del ‘luogo’, inteso come quella matrice formale capace di ricomporre i singoli aspetti in un’unità coerente che, avanzando una legittima pretesa al riconoscimento ed alla salvaguardia della sua singolarità, si propone come l’elemento concreto di mediazione tra locale e globale, dettando all’umanità dominata dalla potenza illimitata ed universalizzante della Tecnica la necessità di reinventare un possibile soggiorno sulla Terra attento alla misura di ciò che gli preesiste, responsabile del futuro e coraggiosamente impegnata nella sfida che ogni progettualità fortemente contestualizzata e spazialmente delimitata – quindi potenzialmente destinata all’implosione claustrale ed eterofobica – assume nei confronti dell’altro, del prossimo e del vicino ma, primariamente, del luogo in cui si proietta ed appropria.

È chiaro come il discorso intorno all’identificazione localizzata della civitas, proprio perché ne costituisce l’identità mostrandone e rintracciandone l’inerenza ad un ‘luogo’ che non è mai meramente fisico – facendo cadere, quindi, le condizioni per una rivendicazione fisiologico-etnologica del radicamento – pensi l’appartenenza come il risultato, mai definito ed assicurato, di una processualità ermeneutica impegnata in una costante ricognizione delle genealogie e delle codificazioni culturali che ne hanno costituito sia la complessa leggibilità, che i filtri interpretativi utili per accedere all’esperienza del riconoscimento e della partecipazione.

Un pensiero completamente disincantato sulle probabilità di ricostituire i luoghi passando per la riattualizzazione mitica di un passato assiologicamente assunto nella definitività del suo esser stato, non può che essere attento a tracciare e rintracciare l’orizzonte di appartenenza prestando la massima attenzione alla composizione equilibrata delle differenti forze che hanno concorso e continuano a concorrere alla sua definizione e trasformazione. Se non può esserci una reale abitabilità dei luoghi senza una definizione dei suoi confini e senza la permanenza di elementi caratterizzanti, è altrettanto vero che ogni dinamica abitativa, fondata sulla trasmissione di cultura, immagini, saperi e pratiche localmente circoscritte, deve necessariamente riconoscere la bontà di una trasformazione vitale – e quindi di una tradizione felicemente riuscita – che non annulli le tracce di provenienza ancora presenti, né la propria irripetibile singolarità, pur riconoscendone l’origine spuria e l’esistenza esposta in quanto ogni volta, singolarmente e puntualmente, differita nel riconoscimento e nell’ospitalità dell’altro: sia esso l’ospite, lo straniero, l’amico, il sacro o l’evento naturale tutti, nella loro radicale imprevedibilità, sorprendentemente forieri di un senso non precostituito (13).


Note

1. L’inconfondibile individualità spirituale (Stimmung) che caratterizza e rende riconoscibile, senza esaurirne i significati, una porzione limitata e formata di natura – cioè un paesaggio – riceve la sua prima e fondamentale codificazione filosofica da George Simmel nel saggio “Filosofia del paesaggio”. Cfr. G. Simmel, “Filosofia del paesaggio” in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, a cura di L. Perucchi, il Mulino, Bologna 1985. Su questo cfr. però i saggi di H. Lehmann, M. Schwind, C. Troll, H. Lützeler, raccolti in Id., L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, a cura di L. Bonesio e M. Schmidt di Friedberg, Mimesis, Milano 1999.
2. M. Heidegger, “La questione della tecnica”, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976.
4. Nella tradizione filosofica del Novecento la parola che dice il progressivo inaridirsi delle differenze nella totalità assoluta dell’organizzazione tecnica è desertificazione. Per le implicazioni e gli sviluppi filosofici di questo concetto, in Nietzsche e in Heidegger, si rimanda a L. Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano 1993; C. Resta, La Terra del Mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di M. Heidegger, FrancoAngeli, Milano 1998; M. Cacciari, “Salvezza che cade”, in M. Cacciari – M. Donà, Arte, tragedia, tecnica, Raffaello Cortina, Milano 2000.
5. “L’anelito all’annullamento di ogni distanza, che è l’impeto, il furor dello homo democraticus, che è il senso del suo nomadismo, si converte necessariamente nella distruzione di ogni prossimità. L’idea di prossimità implica una distinzione necessaria di luoghi, distinzione che si esprime nella stessa dialettica hospes-hostis. L’‘ubiquità’ dello homo democraticus, la sua planetaria affermazione, rendono, all’opposto, inconcepibile, prima ancora che intollerabile, l’esistenza stessa dello straniero” (M. Cacciari, L’arcipelago, Adelphi, Milano 1997, p. 122).
6. Sul tema dell’improduttività simbolica dell’anima si concentra la psicologia archetipale, alla cui tradizione neoplatonica si fa riferimento, e in particolare, per l’impianto teorico generale, si è tenuto presente il lavoro di J. Hillman, Re-visione della psicologia, trad. it. di A. Giuliani, Adelphi, Milano 1983.
7. Spengler ha potuto parlare a proposito di un “paesaggio materno” quale matrice simbolica alla quale le diverse civiltà attingono i propri simboli primari che costituiranno le strutture formali della loro configurazione spaziale: O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, trad. it. di J. Evola, Guanda, Parma 1991.
8. L. Bonesio, Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio 2002, p. 15.
9. L’attenta declinazione morfologica e qualitativa dei paesaggi è il postulato generale imprescindibile nelle tesi esposte in Lehmann, M. Schwind, C. Troll, H. Lützeler, L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, cit.
10. L. Bonesio, Oltre il paesaggio, cit., pp. 9-10.
11. Ivi, pp. 10-11.
12. Ivi, p. 83.
13. C. Resta, “Le leggi dell’ospitalità. Etica e politica nell’ultimo Derrida”, in AA.VV., Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione, a cura di L. Bonesio, Arianna, Casalecchio 2000, pp. 27- 54.