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La disinformazione sulla e nella rete. A chi giova la mancanza di regolazione di internet?

di Claudio Moffa - 12/06/2009



1. La leggenda nera del Ddl Carlucci


Il Ddl 2195 proposto dall’on. Gabriella Carlucci nel marzo 2009, non interessa solo in sé ma anche per le polemiche che ha immediatamente suscitato sulla rete. Poche ore dopo la sua presentazione, già piovevano gli anatemi e le condanne su molti blog, che ripetevano il solito ritornello del pericolo dell’imbavagliamento di internet. Ha iniziato un tal Ukoku, anonimo ottantenne il cui nome ci ha portato da una cliccata all’altra a uno strano sito titolato Kabalarian; ha proseguito un politico verde che vede progetti autoritari in ogni proposta dalla coalizione avversaria, ma nulla ha da eccepire – scorrendo le sue iniziative e un appello da lui sottoscritto su internet - nei confronti dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi; ed è seguito poi il fiume dei più o meno ingenui bloggers di professione, all’insegna dello slogan sessantottino “vietato vietare”.

Ma a chi giova l’assenza di regolazione della rete? A chi giova l’anarchia di internet? Al giovane che vuole dire a viso aperto e secondo coraggio civile, la sua sulle grandi questioni politiche dei nostri tempi, firmando i suoi interventi nel suo blog? Al giornalista “fuori del coro” che scarica sulla rete quel che non riesce a farsi pubblicare dalle grandi testate nazionali? A chi usa internet veramente come spazio irrinunciabile della sua libertà?
No, e per due motivi. Innanzitutto perché il Ddl Carlucci è un progetto di legge “pulito” che non vuole proporre norme penali specifiche al settore, ma invece eliminare almeno due ostacoli fondamentali per una vera libertà della rete: la fine dell’anonimato, secondo regole di trasparenza che oggi mancano, e il richiamo forte alla doverosa applicazione anche a internet del codice penale per quel che attiene il reato di diffamazione: una diffamazione permanentizzata dallo strumento internet, e dunque assai più grave che quella sul cartaceo una tantum: vulnus micidiale che i soliti anonimi utilizzano nei confronti di chi pubblica in rete riflessioni, studi veramente fuori del coro – quelli “negazionisti” sono solo una parte - commenti politici a loro non graditi.
Il secondo motivo che spinge a riflettere prima di salire sul facile carro della “ribellione” internet, è che le critiche contro il Ddl 2195 sono nella maggior parte qualunquiste e, diciamolo pure, un po’ idiote: c’è chi fa paragoni poetizzanti e pseudo sociologici fra internet e la “strada” (come se peraltro, a difesa della libertà degli altri, non si dovessero rispettare in strada alcune regole e i codici non vi dovessero essere applicati), chi imbroglia le carte travisando il testo del disegno di legge, chi denuncia pericoli inesistenti che possono provenire solo dal codice esistente e dalle sue leggi, e non dalla loro estensione alla rete.
Leggiamo così l’art. 2.

1. È vietato immettere in maniera anonima nella rete internet contenuti, ivi comprese le banche di dati, in forma testuale, sonora, audiovisiva o informatica, o in qualsiasi altra forma, ovvero agevolare l'immissione dei medesimi. 2. Coloro che, anche in concorso con altri soggetti operanti fuori del territorio nazionale, ovvero con ignoti, rendano possibili i comportamenti vietati ai sensi del comma 1 sono considerati responsabili, sul piano civile, penale e amministrativo, unitamente a coloro che hanno effettuato l'immissione in forma anonima”. 3. Per quanto riguarda i reati di diffamazione, si applicano gli articoli 595, 596 e 596-bis del codice penale nonché le disposizioni della legge 8 febbraio 1948, n. 47. 4. Per la tutela del diritto d'autore, dei diritti connessi e dei sistemi ad accesso condizionato si applicano le disposizioni previste dalla legge 22 aprile 1941, n. 633, e le relative sanzioni.

Dov’è lo scandalo? Perché non si dovrebbe esigere trasparenza da chi prende posizione in rete? Peraltro, i primi due commi dell’art. 2 sono positivi per contrastare i reati di pedofilia, o altre possibili forme di istigazione a delinquere previste dal codice e che solitamente si applicano all’informazione cartacea. Il problema non è perciò la loro estensione – ovvia e naturale – al mondo della rete; il problema è semmai, a monte, nei due binari potenzialmente repressivi vigenti in Italia come in tutti i paesi del mondo: quello della produzione delle leggi da parte del Parlamento, e quella della loro applicazione da parte dei magistrati.
Il primo binario ha sino ad ora, per fortuna, reso l’Italia un paese “anomalo” rispetto al trend impazzito di Francia e Germania: la vigilanza non è mai troppa, ma bisogna anche stare attenti a non prendere fischi per fiaschi, facendo il gioco dei Poteri forti che – quelli sì – sono pronti a introdurre anche in Italia il reato d’opinione. Il pericolo principale non sembra in effetti venire, almeno per ora, dal ceto politico: non dal centro destra che con la legge 85 del 2006 ha anzi depenalizzato diversi reati di opinione, ivi compresi quelli contenuti nella legge Mancino; neppure direttamente dalla maggioranza del centro sinistra, che all’epoca del Ddl Mastella ha saputo comunque evitare l’introduzione di una legge antinegazionista. Viene piuttosto dalle pressioni bipartisan di deputati totalitari presenti nell’uno e nell’altro schieramento, pronti a fare del dogma olocaustico la bandiera per tappare la bocca a tutti gli italiani. Un deputato ebreo del PD, recentemente, si è dichiarato “stanco dell’art. 21 della Costitizione”. Uno storico già firmatario dell’appello anti Mastella del 2007, si è anche lui dichiarato candidamente a favore di una legge antinegazionista, in una intervista al GR RAI di qualche mese fa. Queste sono le posizioni pericolose da isolare e da battere.
Quanto ai magistrati, il terreno della battaglia non può che essere giudiziario: nelle pieghe delle leggi che si muovono in una sorta di terra di nessuno che lambisce e evoca la sfera di possibili reati di opinione, emergono ogni tanto tentativi di singoli PM e GIP che interpretano in senso peggiorativo il Codice penale, e in particolare le tre leggi che in Italia regolano il fenomeno della libertà di opinione al di fuori dei casi di diffamazione – la legge Reale del 75, quella Mancino e appunto l’85 del 2006 – fino ad aggredire e oscurare – i magistrati appena citati - non le singole espressioni da essi ritenute incriminabili, ma tutto il sito che le contiene.

Non ci sembra proprio che il Ddl Carlucci sia destinato a peggiorare questa situazione: anzi, semmai toglie spazio a provvedimenti abusivi proprio nella misura in cui punta ad una maggiore trasparenza e ad un regolamento generale della rete che va nel senso della responsabilizzazione di chi la usa e di chi vi scrive. Questo ovviamente non vuol dire che sia perfetta: esistono altri punti positivi – il richiamo al diritto autore, che può servire a metter fine al furto di articoli su internet senza citare la fonte, cosicché potrebbe sembrare che il tal autore sia un collaboratore del blog o sito “ladro”, mentre non lo è di fatto e magari neppure avrebbe intenzione di esserlo – ma manca ad esempio una norma sanzionatoria nei confronti di quei provider – il caso di face-book è il più noto – che si arrogano di decidere in prima persona l’eventuale cancellazione di materiale da essi, soggetti assolutamente privati, e magari nemmeno operanti a partire dal territorio italiano, giudicati “illeciti” o “illegali”.
Rientra questo nei normali poteri discrezionali di un’impresa che sarebbe dunque assimilabile ad un editore di libri, libero come noto di accettare o respingere la pubblicazione di un saggio o di un romanzo secondo suo gradimento? E’ difficile pensarlo, perché l’editore cartaceo prima legge il testo inviatogli e poi decide, mentre nel caso dei provider si accetta preliminarmente tutto, e solo a pubblicazione sul sito, autonomamente e senza input delle autorità competenti per legge, il gestore può decidere la sua cancellazione, con ciò causando sicuramente, quanto meno, un danno di immagine al censurato ex-post.
Ma proprio questo tipo di fenomeni deve far riflettere: in primo luogo, seppure incompleto il Ddl Carlucci, nella misura in cui perora esplicitamente l’applicazione dei codici al mondo “selvaggio” di internet, comincia ad andare proprio in questa direzione. Secondo, torna l’interrogativo iniziale: a chi giova il caos su internet, a chi giova l’assenza di ogni regolazione e controllo esterno dei suoi contenuti?
La risposta per noi è chiarissima: gioca a favore soprattutto di quei Poteri forti che controllano i grandi provider e che pretendono di sovrapporsi e scavalcare le autorità legittime chiamate a vigilare sul mondo internet, creando loro i loro “codici”, come se vivessimo in epoca feudale. Che poi questi Poteri, con i loro Ukoku e le loro schiere di supporters anonimi siano in grado di mobilitare a loro favore il grande “popolo di internet”, quetso è fenomeno che non stupisce e non è nuovo nella storia: siamo nel Medio Evo di internet, e bisogna ancora fare il passo dall’oligarchismo dei pochi con il loro seguito di plebaglia idiota e incosciente, alla repubblica degli uomini liberi e eguali davanti alla legge.

XVI LEGISLATURA
CAMERA DEI DEPUTATI
N. 2195

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PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa del deputato CARLUCCI
Disposizioni per assicurare la tutela della legalità nella rete internet e delega al Governo per l'istituzione di un apposito comitato presso l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
Presentata l'11 febbraio 2009


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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
1. La presente legge si applica a tutte le attività di accesso alla rete internet effettuate da apparati informatici e infrastrutture fisicamente presenti nel territorio nazionale e per il tramite di essi.
Art. 2.
1. È vietato immettere in maniera anonima nella rete internet contenuti, ivi comprese le banche di dati, in forma testuale, sonora, audiovisiva o informatica, o in qualsiasi altra forma, ovvero agevolare l'immissione dei medesimi. 2. Coloro che, anche in concorso con altri soggetti operanti fuori del territorio nazionale, ovvero con ignoti, rendano possibili i comportamenti vietati ai sensi del comma 1 sono considerati responsabili, sul piano civile, penale e amministrativo, unitamente a coloro che hanno effettuato l'immissione in forma anonima. 3. Per quanto riguarda i reati di diffamazione, si applicano gli articoli 595, 596 e 596-bis del codice penale nonché le disposizioni della legge 8 febbraio 1948, n. 47. 4. Per la tutela del diritto d'autore, dei diritti connessi e dei sistemi ad accesso condizionato si applicano le disposizioni previste dalla legge 22 aprile 1941, n. 633, e le relative sanzioni. 5. Il Comitato per la tutela della legalità nella rete internet, di cui all'articolo 3, adotta, con proprie deliberazioni, le disposizioni e le regole tecniche necessarie, in relazione alle caratteristiche della rete internet, per l'applicazione delle norme richiamate nei commi 3 e 4 del presente articolo, in particolare per quanto attiene alla pubblicazione di risposte
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o rettifiche ai sensi dell'articolo 8 della citata legge n. 47 del 1948, e successive modificazioni.

Art. 3.
1. Ferme restando le attribuzioni delle magistrature penale, civile e amministrativa, nonché le funzioni degli esistenti organi e autorità di regolazione e di controllo, il Governo è delegato ad adottare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo per istituire, presso l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Comitato per la tutela della legalità nella rete internet, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) il Comitato è composto da nove membri, di cui: 1) tre membri designati dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni secondo procedure e modalità definite con deliberazione della medesima Autorità; 2) due magistrati ordinari, designati dal Consiglio superiore della magistratura; 3) un magistrato amministrativo designato dal Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa; 4) un esperto nelle materie attinenti alla rete internet designato dalla Società italiana degli autori ed editori (SIAE); 5) due esperti nelle materie attinenti alla rete internet designati dalle associazioni dei datori di lavoro del settore industriale più rappresentative a livello nazionale;
b) i membri del Comitato rimangono in carica per tre anni;
c) il presidente del Comitato è scelto tra i suoi membri dal Presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
d) il funzionamento del Comitato è disciplinato da un regolamento approvato
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dal consiglio dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, su proposta deliberata dal Comitato medesimo; e) il Comitato, all'inizio di ogni triennio, predispone una relazione sul proprio programma di attività, indicando i temi fondamentali e gli obiettivi prioritari per il successivo triennio; questa relazione è approvata dal Consiglio dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
f) ogni sei mesi il Comitato trasmette all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni un rapporto sull'attuazione del programma predisposto ai sensi della lettera e), riferendo altresì sui casi di maggiore interesse trattati nel semestre precedente;
g) oltre a quanto previsto dall'articolo 2, comma 5, il Comitato esercita le proprie funzioni mediante l'emanazione dei seguenti tipi di atti: 1) regole tecniche per l'applicazione delle norme di legge e di regolamento relative alla prevenzione e alla repressione dei reati commessi per mezzo della rete internet; 2) pareri interpretativi concernenti l'applicazione di norme di legge e di regolamento relative alla prevenzione e alla repressione dei reati commessi per mezzo della rete internet, nonché delle regole tecniche di cui al numero 1), su richiesta di soggetti pubblici e privati; 3) raccomandazioni destinate agli operatori, concernenti le migliori prassi in materia di rispetto della legalità nella rete internet; 4) pareri non vincolanti destinati al Governo e alla pubblica amministrazione in materia di applicazione di misure preventive o cautelari; 5) relazioni all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
h) il Comitato esamina le segnalazioni, ricevute da soggetti pubblici e privati, in forma riservata o pubblica;

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i) il Comitato può svolgere funzioni di consulenza tecnica nei riguardi degli organi giurisdizionali ordinari e amministrativi nelle materie di propria competenza; l) su richiesta delle parti interessate e con oneri a carico delle stesse, il Comitato può svolgere attività arbitrale e di conciliazione in relazione a controversie di natura civile, nonché prestare consulenza per l'elaborazione e l'adozione di accordi intercategoriali o di codici di condotta o di autodisciplina.
Art. 4.
1. Le disposizioni degli articoli 1 e 2 della presente legge si applicano a decorrere dal novantesimo giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. 2. Entro il termine stabilito nel comma 1 del presente articolo, gli operatori di cui all'articolo 1 adeguano le modalità di accesso alla rete internet da essi gestite alle prescrizioni della presente legge.









La disinformazione sulla e nella rete. A chi giova la mancanza di regolazione di internet?
2. La curiosa storia dell’emendamento D’Aulia


Interessante e curiosa la storia dell’emendamento D’Alia e relative proteste, al disegno di legge 733 sulle misure di sicurezza recentemente approvato dal Senato. Interessante, perché il senatore D’Alia è un giovane senatore (classe 66) molto presente nel dibattito parlamentare, attento conoscitore, fra l’altro, anche dei problemi internazionali dei nostri tempi, come attestano i suoi voti convinti a favore delle missioni italiane all’estero e la sua visita in Israele il 5 dicembre 2008. Curiosa, la storia del suo emendamento, perché paradossalmente le critiche che lo hanno investito sono scoppiate in modo virulento proprio nel momento in cui l’iniziale versione – a rischio di palese incostituzionalità – veniva a sua volta emendata e drasticamente corretta.
Basta fare la cronistoria delle tre proposte D’Alia per rendersene conto: al 6 febbraio solo un paio di siti risultano protestare contro l’introduzione da parte del parlamentare UDC, di un nuovo articolo, il 50 bis, titolato “repressione di attività di apologia o incitamento di associazioni criminose o di attività illecite compiuta a mezzo internet”. In breve questa prima richiesta prevedeva al primo comma che “salvo che il fatto costituisca reato, il Ministro dell'interno, quando accerta che alcuno, in via telematica sulla rete internet, compie attività di apologia o di incitamento di associazioni criminose in generale, di associazioni mafiose, di associazioni eversive e terroristiche, ovvero ancora attività di apologia o di incitamento della violenza in genere e della violenza sessuale, della discriminazione o dell'odio etnico, nazionale, razziale o religioso, dispone con proprio decreto l'interruzione dell'attività indicata, ordinando ai fornitori di servizi di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine”.
L’incostituzionalità di questo primo emendamento D’Alia ci sembra evidente: è il potere esecutivo a decidere sia pure provvisoriamente, se un tal fatto sia o non sia reato; è sempre il potere esecutivo a decretare, su suo personale accertamento in quanto capo del Dicastero dell’Interno, l’interruzione dell’attività presunta criminale da parte dei “fornitori dei servizi di connettività”. Inoltre, la puntigliosa lista dei reati sotto osservazione – un minestrone ibrido di reati per fatti di violenza e di altri, veri o presunti, di opinione – sembrerebbe pericolosa ai sensi dell’art. 21 della Costituzione.
Ma questa era appunto, la prima versione, su cui si è registrato un silenzio assordante da parte del mondo di internet e politico. Passano pochi giorni e la seconda e terza versione dello stesso 50 bis proposto da D’Alia, sono invece differenti: per esse infatti, nel rispetto della classica separazione dei poteri prevista dalla nostra Costituzione, il ministro dell’Interno “può” intervenire solo “quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali” e solo “in seguito a comunicazione dell'autorità giudiziaria”.
E’ dunque la magistratura che opportunamente decide dell’esistenza o meno di indizi-notizie di reato, e il potere del ministro sembrerebbe in qualche modo essere una sorta di doppione di quello a disposizione, tramite decreto d’urgenza, dell’autorità giudiziaria. Inoltre nella seconda versione è prevista esplicitamente la possibilità di ricorso contro l’eventuale decreto ministeriale e scompaiono altri passi inquietanti: viene depennata innanzitutto la puntigliosa lista, e si parla giustamente solo di “delitti di apologia di reato previsti dal codice penale” con ciò stesso rinviando alle eventuali ambiguità del nostro codice (basti pensare alla vecchia legge Mancino, comunque oggi in parte depenalizzata dalla legge 85 del 2006) per quel che riguarda i reati di opinione; non si parla più di “segnalazione di soggetti privati o pubblici” come fonte di “accertamento” dei reati, ma solo della “polizia postale e delle comunicazioni” che così fungerebbe da filtro obbligatorio rispetto alle pressioni sul ceto politico da parte di più o meno noti e potenti gruppi di ‘opinione pubblica’ sostenuti e talvolta creati dai grandi mass media; non si prevede poi, la sanzione fino a 50mila euro per l’ “autore” dello scritto ancora sotto indagini, ma solo la sanzione per i “fornitori di servizi di connettività” che ne permettono la diffusione in rete; infine nella versione definitiva approvata dal Senato viene eliminata anche, a vantaggio di altri Dicasteri, la discrezionalità primaria del Ministero dell’interno nella definizione dei “requisiti tecnici degli strumenti di filtraggio”.
Certo neppure con queste correzioni possono svanire i legittimi allarmi dal punto di vista della libertà di opinione che aleggiano da tempo attorno ad internet. Ma non si capisce perché proprio nel momento in cui sono stati depennati i superpoteri del Ministro dell’interno, si è scatenata la campagna di una parte almeno del centrosinistra contro D’Alia, che peraltro non appartiene neppure al PdL, ma all’UDC: ecco così che L’Espresso intervista pochi giorni fa il senatore siciliano e gli fa dire qualcosa che nel testo approvato non c’è – e cioè che l’emendamento prevede l’oscuramento di tutto il sito responsabile della pubblicazione di articoli sotto indagine. Ed ecco che Di Pietro sul suo blog parla di bavaglio ad Internet, e paragona l’Italia alla Birmania e alla Cina. E’ un po’ troppo, soprattutto da parte di chi ai tempi di Tangentopoli voleva sbattere in galera più o meno tutto il Parlamento italiano, col sostegno del solito giornalismo “progressista”.
In effetti, i problemi di Internet e della difesa della libertà di espressione in rete, sono altri e sono sintetizzabili in tre punti chiave che questo 50 bis - emendamento particolare a una legge particolare dedicata alla questione sicurezza - non affronta: primo, non si può continuare a dire no a tutto, di fronte allo scempio dei video su gratuite scene di sadismo e di violenze di gruppo, e di fronte a certi “dibattiti” in cui i soliti ignoti nascosti da un inaccettabile anonimato diffamano con una violenza verbale che potrebbe persino configurarsi come una vera e propria forma di violenza intimidatoria, chi la pensa diversamente da loro. Secondo, quel che va abolito è appunto l’anonimato sui blog, e quel che va richiesta è la responsabilizzazione del gestore del sito, magari abbassando l’età dei “direttori” delle decine migliaia di blog ormai esistenti nel nostro paese per non ledere le libertà di espressione delle generazioni più giovani.
Terzo e soprattutto, va stabilito un confine netto fra i veri reati e quelli, spesso presunti, di opinione: qui si annida il vero rischio totalitario che minaccia internet. E ci piacerebbe molto che al momento opportuno, Di Pietro prendesse posizione verso queste tendenze illiberali della nostra epoca, che di certo sono ben radicate e forti, putroppo, anche nello. schieramento a cui egli appartiene.

(C.M.)

Fonte: www.giustizia giusta.it, 16 febbraio 2009