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Carter incontra Hamas e si dice “responsabile per le stragi”

di Diana Puglise - 17/06/2009

 

 
Carter incontra Hamas e si dice “responsabile per le stragi”
 



Tanto rumore per nulla. Così, probabilmente, si riassumerà in futuro l’ennesimo tentativo a stelle e a strisce di riavviare il processo di pace nel Vicino Oriente, nonostante l’apparente apertura e l’ostentato ottimismo del presidente Usa, Barack Obama, che nelle ultime dichiarazioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu sembra intravedere “la possibilità di far ripartire i negoziati” tra israeliani e palestinesi.
A lasciar trasparire, seppur tra le righe, l’impossibilità del riavvio delle trattative, invece, è stato l’ex presidente Usa Jimmy Carter, giunto ieri nella Striscia di Gaza per visitare le terre distrutte dal operazione militare “Piombo Fuso” e per incontrare i leader di Hamas, tra cui Ismail Haniyeh, e il direttore dell’agenzia delle Nazioni Unite Unrwa, John Ging.
L’ex inquilino della Casa Bianca, che con la sua fondazione Carter Center opera da anni come una sorta di mediatore “privato”, parallelo e parzialmente autonomo in importanti questione di diplomazia internazionale, sembra essere infatti una delle poche, se non l’unica, importante figura occidentale capace di comprendere davvero quanto pesanti siano gli ostacoli disseminati lungo il cammino dei negoziati internazionali. Ostacoli che, peraltro, sembrano spesso esser messi a bella posta da chi ha ben poco interesse a scendere a patti per porre fine alle tensioni della regione.
Per l’ex presidente nordamericano, che con la sua fondazione si occupa da tempo anche dei negoziati di pace nel Vicino Oriente, il discorso fatto domenica scorsa da Netanyahu ha sollevato “molti ostacoli” al processo di pace. Come ha dichiarato apertamente lo scorso 11 giugno dopo un incontro avuto a Damasco con il presidente siriano Bashar al Assad, Carter è infatti consapevole che nessuna pace tra Tel Aviv e i palestinesi sarà mai possibile se Hamas non sarà “direttamente coinvolto nella trattative”. Opzione che, però, resta esclusa non solo nei fatti - al tavolo delle trattative i Paesi occidentali vogliono solamente l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas, a sua volta decisa a confermarsi l’unico referente internazionale del Paesi occidentali - ma anche nelle intenzioni. Le parole di Netanyahu, da molti considerate una “apertura” alla creazione di uno Stato palestinese, pongono infatti condizioni che Hamas ha non ha potuto non definire fin da subito “inaccettabili” e penalizzanti per il popolo palestinese, come la smilitarizzazione, l’esclusione del rientro di milioni di profughi palestinesi in territorio israeliano e la rinuncia a Gerusalemme Est. Obama inoltre, oggi elogiato da molti per il “nuovo corso” dato alla politica estera Usa con il discorso del Cairo, appena un anno fa - ad aprile 2008 - aveva definito “una cattiva idea” l’incontro avuto da Jimmy Carter con i leader di Hamas, aggiungendo che sedere al tavolo con loro significava dargli “una legittimità non necessaria”.
In una sorta di giro di consultazioni informali, in ogni modo, l’ex numero uno della Casa Bianca ha visitato in settimana Siria, Israele, Cisgiordania e Libano. Proprio a Damasco, Carter ha incontrato il capo dell’Ufficio politico di Hamas in loco, Khaled Meshaal, che si è detto peraltro pronto ad accettare l’esito dei negoziati tra Abbas e Tel Aviv se il popolo palestinese si dichiarerà favorevole con un referendum consultivo.
A conclusione del suo viaggio l’ex inquilino della Casa Bianca è giunto fra le rovine lasciate a Gaza dall’operazione militare dello scorso gennaio. “In qualche modo, mi sento responsabile per quello che è successo e americani e israeliani dovrebbero avere lo stesso sentimento”, ha dichiarato Carter riferendosi ai pesanti danni causati dall’esercito israeliano. “Vedendo questa distruzione che ha subito il vostro popolo, a stento trattengo le lacrime”, ha aggiunto.
Poi, nelle sue critiche a Tel Aviv, l’ex capo di Stato Usa è andato anche oltre: i palestinesi sono sotto minaccia e trattati “come animali in gabbia e non come esseri umani”, ha affermato Carter condannando con forza l’assedio imposto da Tel Aviv a Gaza. Un embargo che, ha sottolineato, “non ha precedenti nella storia”.
Nonostante le sue (più o meno sentite) buone intenzioni, però, l’ex presidente non sembra esser riuscito a dare una svolta alla questione. Come già accaduto l’anno scorso, l’unico risultato che Carter sembra essere riuscito davvero ad ottenere è quello di fare da “postino”, consegnando ai rappresentanti di Hamas una missiva dei genitori di Gilad Shalit, il soldato israeliano prigioniero da tre anni a Gaza. In una intervista radio, Mahmud a-Zahar ha fatto sapere infatti che Hamas sta valutando l’eventualità di consegnare il messaggio al soldato.
Nel vuoto invece cadrà di certo la richiesta fatta dai leader di Hamas all’amministrazione Usa: fare pressioni su Tel Aviv perché rimuova l’embargo e consenta “al popolo palestinese la ricostruzione”.
Una richiesta cui, probabilmente, Netanhyau neppure si degnerà di dar risposta così come non darà seguito alle ribadite richieste di Obama sulla necessità che Tel Aviv blocchi gli insediamenti in Cisgiordania.