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Morire con devozione

di Fabio Mazza - 21/07/2009

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C’è un comportamento che a noi odierni occidentali appare incomprensibile e indice di fanatismo: il sacrificio della propria vita per non cadere nella vergogna. Questo perché nelle società antiche e nel Giappone fino ad epoca relativamente recente, più della vita, più del successo, più della cosiddetta “felicità” che tutti cercano e nessuno sa dov’è, nè forse cos’è, contava l’onore.
L’onore era l’opinione che un uomo aveva di sè e che la collettività in cui viveva e con cui si confrontava aveva di lui. In quei contesti dove la vita era molto più “pubblica” di ora, le famiglie molto più numerose, i legami con il vicinato e la polis, il villaggio, il territorio erano molto più serrati, perdere l’onore equivaleva ad una “morte civile”. A decadere al rango di paria, a divenire un pusillanime e quindi perdere quell’identità e quel senso di sè, che aveva per quegli uomini, importanza fondamentale.
L’uomo odierno, attaccato alla vita, come ai beni materiali, ai giocattoli, di cui si circonda, non concepisce minimamente un simile modo di vedere le cose. Anzi, la vita gli è cosi cara, che è disposto ad accettare qualunque mediazione, qualunque sopruso (morale o fisico), qualunque bassezza, per mantenerla.
In più spogliata dalla sua dimensione collettiva, la morte, non è più vista come un fatto inserito in un più ampio tutto, in una dimensione ciclica, che si ripete e che permette all’uomo che immoli se stesso a questi valori, di essere considerato con ammirazione, come un punto di riferimento.
La morte è ora, per l’uomo occidentale, per la sua famiglia nucleare, per i rapporti sporadici e superficiali che intrattiene con il suo “habitat” sociale, una catastrofe simile ad un apocalisse, proprio perché viene vissuta come definitiva, senza appello, senza senso. Da qui il timore della fine, che fine non è, in una visione “panteistica” od “etica” dell’esistente, e la gara spietata per mantenersi giovani il più a lungo possibile, ricorrendo a qualunque mezzo, anche il più grottesco, per farlo. Per rinviare il più possibile un evento naturale che non riesce ad essere accettato da un uomo che ha basato il suo concetto di “benessere” e “felicità” sugli oggetti, di cui, per quanti possa possederne o accumularne, niente gli rimarrà quando l’ombra cadrà sui suoi occhi.
Per questo al cittadino moderno, emancipato, democratico pare inconcepibile quello che i kamikaze islamici riescono a fare, cosi come alla nostra civiltà già compromessa nei valori fondamentali (ma non ancora perduta come quella odierna) pareva inconcepibile vedere i piloti giapponesi (gli originari kamikaze da cui è stato mutuato il termine) slanciarsi verso la morte per danneggiare una sola nave nemica.
Questi uomini avevano interiorizzato quella che Tsunetomo in “Hagakure” definisce come l’essenza dell’etica dei samurai: la morte per ciò in cui si crede. Questo devono aver pensato nel 1970, gli intellettuali, o chi ne aveva avuto notizia, di fronte al “seppuku” in diretta televisiva dello scrittore Yukio Mishima*, atto estremo di un uomo di incredibile sensibilità che non poteva accettare che il Giappone stesse rinnegando tutti i valori profondi che lo avevano caratterizzato per secoli, per appiattirsi su di un incolore e pacifico americanismo, che trovò ampio respiro nel paese dopo la sconfitta bellica.
Perché giungere ad un atto simile? Non fu disperazione, se, poco prima di compiere con altri suoi fedelissimi l’atto, Mishima lasciò un biglietto su cui era semplicemente scritto: “amo la vita, vorrei vivere per sempre”. Vivere, appunto. Ma quella che per altri era vita era per Mishima e per altri come lui, che avevano improntato la loro vita all’etica dei samurai, una non-vita, una parvenza di esistenza, fatta di conformismo e di codardia. Non potevano vivere guardandosi allo specchio e non vedendo altro che una parodia di se stessi, della loro anima più vera.


Per questo il “seppuku” non può considerarsi un suicidio: non almeno come lo intendiamo noi occidentali, per il semplice fatto che non è dettato da disperazione o da codardia o da mancanza di amore per la vita, ma solo dall’estrema volontà di mantenersi coerenti con se stessi, fino all’estremo, accettando la sconfitta, ma non accettando il disonore di una vita a metà.
Cosi come non furono rari i generali romani e greci che preferirono rimanere sul campo, o porre fine di proprio pugno alla loro vita, per non incorrere in una disfatta che era prima di tutto una mancanza verso se stessi, verso la propria concezione di sè, verso la propria collettività.
Da Crasso, improvvisatosi generale e uccisosi sul campo di Carre, dopo la disfatta contro i Parti, che lo riabilitò per i posteri; a Claudio Marcello, caduto davanti al superiore genio di Annibale, ma mai domo nello spirito, a Catilina, che preferì accettare una sicura fine in battaglia, piuttosto che una vita agiata, ma frustrata nello spirito e nei valori, di una Roma cosi simile all’Italia odierna, nella sua corruzione e decadenza di costumi.
Nè possono essere dimenticati i sacrifici volontari dei 300 delle Termopili, nè la disperata difesa ateniese dell’acropoli, davanti alle schiere di Serse.
Tutti questi personaggi, eroi forse, sicuramente uomini, di cui “si è perso lo stampo”, sono accomunati dalla sconfitta, subita per non aver voluto mediare con se stessi, per non aver voluto arretrare quando il buon senso e l’auto conservazione suggerivano il contrario.
Ma proprio per questo non hanno perso
. Non sono stati dimenticati nei secoli proprio per questa loro fedeltà a quello che doveva essere fatto. Con segreta ammirazione, coloro che li avevano sconfitti, superiori nelle possibilità, nel numero e spesso anche nell’ingegno, dovettero ammettere la loro caratura di uomini, e non sono pochi i casi di onori tributati ai loro resti, dopo la loro morte.
Questi “ribelli”, che sono consci della sconfitta, sanno che la loro strada porta alla solitudine e alla morte, ma la percorrono comunque, perché è l’unico modo di mantenere quella coerenza, quell’amore per se stessi e per il tutto; in questo si distinguono prepotentemente dall’uomo moderno, vigliacco, doppiogiochista, opportunista, pronto a saltare sul carro di ogni vincitore per aver assicurata la sopravvivenza e la conservazione dei suoi miserabili diritti.
Per questi uomini, cosi lontani, eppure per certi versi cosi vicini alla nostra sensibilità antimoderna, non era importante la morte individuale, perché inseriti in un ampio reticolo collettivo fatto di relazioni sociali strettissime e di un senso del “noi” che ai nostri giorni sembra dimenticato, riapparendo come mero simulacro nelle rare occasioni delle partite della nazionale di calcio