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La rivolta dei giovani precari francesi. Un nuovo Sessantotto?

di Carlo Gambescia - 21/03/2006

Fonte: carlo gambescia

 

La rivolta dei giovani precari francesi indica che il processo di precarizzazione del lavoro in Europa è giunto a un punto di svolta.
Si tratta di un processo iniziato negli anni Ottanta con le cosiddette rivoluzioni neoliberiste. E che ha radici nell'economicismo angloamericano ("l'economia innanzitutto"). Dal momento che questo pensiero considera il lavoro un puro e semplice fattore di produzione. La maggiore libertà di cui discutono accesamente i liberisti implica una crescente libertà d'impresa. E la libertà d'impresa, a sua volta, impone assoluta autonomia decisionale: l' imprenditore deve disporre liberamente (nei limiti imposti dai codici) dei fattori produttivi: capitale (macchine, materie prime, ecc.), natura (terreni coltivabili, miniere, pozzi petroliferi, ecc.) e appunto lavoro (materiale, intellettuale, specializzato e così via).
Il lavoro umano viene così posto sullo stesso piano della materia morta, inanimata. Che, secondo la vulgata liberista, si trasformerebbe in materia viva, animata, soltanto grazie al soffio vitale del dio-imprenditore. Il lavoro, insomma, non sarebbe altro che un fattore che deve garantire, come gli altri fattori, produttività crescente. Dal punto di vista economico.
Pertanto quel che sotto l'aspetto sociologico è "precario" (come condizione di provvisorietà, incertezza, instabilità nel rapporto di lavoro), sotto l'aspetto economico-impreditoriale è "mobile"(come condizione di un lavoro, quello umano, che può essere mosso, spostato, trasferito, secondo le esigenze dell'impresa).
Ora, protestare contro la precarizzazione economicista del lavoro come fanno i giovani francesi, indica che la mobilità dei fattori non può essere spinta oltre un certo limite. La ricerca capitalistica della produttività non può (e non deve) fagocitare l'intera "sostanza" umana di cui è "fatta" la società. L'uomo, come insegnano gli antropologi culturali, ha una grande capacità di adattamento (plasticità), la cui finalità è però la sua conservazione e non autodistruzione... E i giovani francesi hanno fiutato il pericolo di una deriva "antropologicamente" distruttiva. E prima di altri (perfino degli stessi sindacati) hanno "sentito", e sulla propria pelle, che è in gioco la riproduzione sociale, se non fisica, di una intera generazione, e di conseguenza della futura società nel suo insieme.
E ciò significa che si è giunti a una svolta. Dal momento che sussiste la possibilità che politici e imprese possano fare marcia indietro. E se così fosse la "retromarcia" francese (il ritiro di una legge che, tra le altre cose, prevede per i giovani fino a 26 anni assunti da imprese sopra i 20 dipendenti, il licenziamento senza giustificato motivo nei primi due anni) , potrebbe costituire un ottimo esempio anche per tutti gli altri paesi minacciati da una incombente precarizzazione del lavoro (non solo giovanile). E magari una "riflessione" anche in Italia sulla Legge 30.
Il che proverebbe anche la difficoltà di trasferire e applicare il modello economico-sociale angloamericano in Europa.
Non è invece il caso di parlare in un nuovo Sessantotto studentesco. La situazione economico-sociale è totalmente diversa. All'epoca primeggiavano (e si confrontavano) due modelli politici, sociali, economici differenti (quello euro-americano e quello socialista, cinese e sovietico. Mentre oggi ne è restato uno solo, quello statunitense. Il che indica che mancano alternative geopolitiche e sociali concrete. Inoltre, nel Sessantotto gli studenti come gruppo sociale miravano a sostituire, come parte dirigente, lo stesso movimento sindacale: agivano. Oggi invece si battono, certo giustamente, ma solo per sopravvivere alla precarizzazione: reagiscono. Infine, la protesta studentesca del Sessantotto esplose alla fine di un periodo di grande sviluppo, mentre oggi l'incendio francese divampa in una società sull'orlo del "desviluppo".
Di qui la necessità di evitare facili ed erronei raffronti e mitizazzioni. Lasciamoli a giornali e televisioni sempre affamati di rivoluzioni in diretta.
La "Sorbona brucia"? Forse. Ma non è assolutamente il caso di farsi venire il torcicollo.